giovedì 30 giugno 2011

I miei articoli per "La Sesia": aria nuova alla Rai?

N.B. Come spesso accade, questo articolo è stato superato dai fatti: via la Ventura, via la Annunziata, l'opera di smantellamento della Rai è quasi completa. E a poco srve oggi scoprire cosa si dicevano Crippa (Mediaset) e Bergamini (Rai) per far sì che l'azienda del boss non perdesse negli ascolti...

Aria nuova alla Rai?

Proviamo a guardarla per quello che siamo: telespettatori. È innegabile che la Rai sia, nel bene e nel male, un polo di attrazione. Se piace è la più grande azienda culturale del nostro paese, se non piace è un altro di quei pozzi di burocrazia che succhiano via i soldi. Nello specifico i soldi del canone, argomento di annosa polemica. In questi giorni, in occasione della presentazione dei palinsesti della prossima stagione, il presidente Rai Paolo Galimberti ha parlato dell’evasione fiscale (altissima per quanto riguarda il canone) e del mistero per cui l’azienda che vince negli ascolti non riesce a raccogliere pubblicità nella giusta proporzione. “Dateci quello che ci meritiamo”, ha invocato. E chi vuol intendere, intenda. Ma torniamo nei panni che ci competono: telespettatori. Scopriamo che Fabrizio Frizzi potrebbe tornare sul palco di Miss Italia che gli venne strappato dall’allora direttore di RaiUno Fabrizio Del Noce. Ci dicono che la brochure sui programmi di RaiTre ha fatto arrabbiare, giustamente, Lucia Annunziata per non essere annoverata tra le trasmissioni di punta con il suo “In mezz’ora”. E ha fatto tremare Massimiliano Ossini, non citato con il suo “Cose dell’altro Geo”, invece confermato. Sentiamo che è sparita Caterina Balivo ed è rimasta in sella Lorella Cuccarini. Ci informano che non ci sarà Paola Perego nel primo pomeriggio di RaiUno e dobbiamo ancora capire che ne sarà dei contratti di Milena Gabanelli e di Serena Dandini. Ci raccontano la boutade per cui per sostituire “Annozero” ci vorranno menti criminali, ovvero la serie “Criminal minds”. E ci viene da sorridere amaro. Ma non possiamo fare a meno di inorridire davanti alle intercettazioni pubblicate in questi giorni nell’ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta P4. Impariamo che un tipo come Luigi Bisignani, faccendiere ex cronista dell’Ansa ed ex compagno di Daniela Santanchè, sarebbe l’uomo più potente d’Italia. E ci è difficile stabilire se sia più grave che abbia brigato perché la Santanchè diventasse sottosegretario, che risultasse iscritto alla P2 o che fosse, intercettazioni alla mano, una sorta di direttore generale ombra della Rai. Da osservatori esterni non ci teniamo a riportare gli scambi da bar tra l’uomo più potente d’Italia e l’ex direttore generale dell’azienda culturale più importante del paese. Li abbiamo letti. Forse non ci hanno nemmeno meravigliato, viste le trascrizioni telefoniche di cui ci hanno messi a conoscenza da un paio d’anni a questa parte. Ma l’obiezione per cui quegli scambi Bisignani/Masi avrebbero dovuto restare nei brogliacci di trascrizione, in quanto irrilevanti penalmente, manifesta la volontà di mantenerci all’oscuro di chi, fuori dalla Rai, decide quale conduttore, artista, giornalista o programma giunga a farci compagnia. Leggiamo che il neodirettore generale Lorenza Lei rivendica più potere alla Rai e meno agli “agenti esterni”. Vuoi vedere che, insieme a Santoro, vanno via anche le “menti criminali”?

Laura Costantini

giovedì 23 giugno 2011

I miei articoli per "La Sesia": uomini piccoli e piccoli uomini

Dalle stalle alle stelle nel giro di tre giorni. I precari italiani sono abituati a tutto, ma c’è di che avere le idee confuse. Era il 15 giugno e un ministro della Repubblica, noto per le uscite infelici e la piccola statura, voltava le spalle a una delegazione di precari romani (l’aggettivo non è messo lì a caso) sibilando: “questa è l’Italia peggiore”. Poi, fedele alla moda del momento, dirà di essere stato frainteso. Non sarebbero i precari tout-court l’Italia peggiore. Lui si riferiva ai precari romani, notoriamente figli di papà che non han voglia di lavorare. Neanche il tempo di considerarsi fortunato per non esser nato nella vituperata capitale, ormai seconda solo ad Arcore come erede di Sodoma e Gomorra, che a Bologna il precariato nazionale veniva omaggiato dall’ipercinetico Roberto Benigni. A una platea di decine di migliaia di lavoratori il dantesco folletto premio Oscar gridava: “Siete voi l’Italia migliore”. Nell’altalena tra meglio e peggio, i precari hanno raccolto, mentre scriviamo, anche l’appoggio del Pontefice che non per la prima volta ha stigmatizzato una condizione sociale che impedisce ai giovani di pianificare una famiglia, una casa, un futuro. E se è vero che parlare di un problema è il primo passo per risolverlo, resta la situazione di chi, piccolo uomo insultato da un uomo piccolo, deve fare i conti con la realtà. Chiamiamolo Giacomo. Ha 22 anni e, forte di frotte di laureati disoccupati, dopo il diploma ha deciso di non studiare più. Giacomo è romano e aveva 18 anni quando ha cominciato a lavorare. Contratti di quattro mesi come magazziniere presso una catena di supermercati. Orari di lavoro massacranti, la pretesa che l’ultimo arrivato facesse i turni più pesanti, il miraggio di un contratto a sei mesi, poi quello di un anno, poi chissà? Giacomo tiene duro. Lavora duro. Guadagna 800 euro al mese e comincia a fare piccoli progetti. Una macchina, per esempio. Vive ancora con i genitori. Papà garantisce per il finanziamento. È contento, Giacomo. Si sente padrone della propria vita. Azzarda un regalo alla sorella, un pensierino alla mamma, un week-end con gli amici. Ma un bel giorno arriva la doccia fredda: non gli rinnovano il contratto. Da precario a disoccupato, senza la speranza di una chiamata dopo venti giorni. La macchina da finire di pagare, la famiglia che lo supporta, ma lo sprona a tentare altre strade. Invia curricula, pellegrina tra supermarket e centri commerciali. Passano i mesi e si apre uno spiraglio. Lo prendono in prova, gratis, per un mese. Giacomo ci rimette di benzina ma tace. Lavora 7 ore al giorno con una pausa di soli 5 minuti ma tace. Gli viene detto che mai e poi mai avrà un contratto a tempo indeterminato, ma tace. Anzi, spera di essere preso. Per pagare la macchina, per non essere di peso alla famiglia, per non sentirsi l’Italia peggiore. Lui che il peggio dell’Italia se lo vive sulla pelle ogni giorno.

Laura Costantini

lunedì 20 giugno 2011

Un gioco per l'estate: cambiamo i titoli ai capolavori della letteratura?

Immagino che molti di voi conoscano il caso di Alberto Canetto e del suo plagio del romanzo "Profumo" di Suskind. Se non lo conoscete vi invito a leggere questo post sul blog "Sul romanzo". Letto? Bene, a questo punto vi propongo un giochino: immaginate che quello che Canetto ha fatto sia legale e corretto. Che libro vorreste firmare voi? E, soprattutto, come lo intitolereste?
Comincio io, che firmerei volentieri IT di S. King titolandolo: OKKIO AL PAGLIACCIO.
L'idea non è tutta farina del mio sacco. Su Facebook il prodigioso Raffaele Isidro Parodi ha creato una pagina apposita Odissea, ovvero torna a casa Ulisse, dove ci si può sbizzarrire a volontà.

martedì 14 giugno 2011

Oggi su "La Sesia": fuoco amico sul primo cittadino di Roma

Va’ pensiero a circa tre mesi fa. Teatro dell’Opera di Roma. In scena il Nabucco di Giuseppe Verdi. Sul podio il maestro Riccardo Muti. Il pubblico, al termine del coro più famoso del Risorgimento italiano, chiede il bis. Il maestro Muti si gira e, perché non si dica un giorno dell’Italia e della cultura “oh mia patria, sì bella e perduta”, lo concede. A patto che il pubblico lo canti, in una sorta di esorcismo collettivo contro i tagli alla cultura e contro le assurde polemiche sui festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità. Il pubblico si alza in piedi e canta con Muti a dare il tempo alla platea, all’orchestra, al coro sul palcoscenico. Dal loggione, come in un film di Visconti, volano foglietti tricolore inneggianti a Verdi, Napolitano e a Muti senatore a vita. Fra le tante cerimonie e manifestazioni di questo 2011, quel coro un po’ incerto, quel migliaio di persone in piedi restano un simbolo forte. Come forte è stato il gesto voluto da Riccardo Muti in quell’occasione. Un gesto che, evidentemente, una parte politica non ha voluto perdonare al grande direttore che tutto il mondo ci invidia. Non si potrebbe spiegare altrimenti la meschina figura che Roma è stata costretta a fare pochi giorni fa, in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria al maestro.
Tre membri del Consiglio municipale presieduto da Gianni Alemanno si sono rifiutati di votare per ben due volte una proposta che doveva essere accolta all’unanimità. Un episodio che, giunto all’orecchio di Muti, lo ha convinto a declinare l’offerta con un “no, grazie” che suona, è il caso di dirlo, come uno schiaffo. Inutili, nel momento in cui scriviamo, gli sforzi del sindaco per superare la decisione del maestro. “È stato solo un incidente di percorso”, ha dichiarato Alemanno, “che nulla aveva a che vedere con la personalità di Muti che ha un consenso unanime.” Dal pubblico senz’altro. E mentre il maestro può consolarsi con l’analogo rifiuto della cittadinanza onoraria di Pavia a Roberto Saviano, da parte di otto consiglieri leghisti, il primo cittadino di Roma si trova sempre più a fare i conti con il “fuoco amico” di amici e alleati. Roberto Castelli, viceministro leghista infrastrutture e trasporti aveva appena finito di urlare davanti alle telecamere di “Annozero” che non vuole più pagare il canone tv (a tutti gli effetti una tassa dello stato italiano), che tornava alla carica con la proposta di un pedaggio per percorrere il Grande Raccordo Anulare. E poco gli importa se l’idea è già stata bocciata dal ministro Matteoli (superiore di Castelli) e da sentenze del Tar. Alemanno ha incassato l’appoggio della governatrice Polverini e del presidente della provincia Zingaretti. Ma mentre cercava di tappare falle e rimediare alle gaffes, il primo cittadino deve aver pensato che fanno meno male i fischi del Circo Massimo gremito per l’Europride che le strette di mano dei presunti alleati.

Laura Costantini

sabato 11 giugno 2011

SI', io ci credo.

Sarò un'illusa, ma io ci credo che questo referendum possa raggiungere il quorum. Ci credo perché mia mamma, che ha parecchi problemi di salute, non rinuncerebbe per nulla al mondo ad andare a votare. Ci credo perché ci sono poche cose sacre come l'acqua e non mi è mai capitato di sentire qualcuno glorificarne la privatizzazione (fatta eccezione per i nostri governanti, ovviamente). Ci credo perché Chernobyl è storia di ieri e ce lo ricordiamo in tanti, troppo bene. E perché Fukushima è storia di oggi e di domani e nessuno se lo dimentica, anche se in tv se ne parla sempre meno. Ci credo perché siamo in tanti ad avere figli e nipoti e a sentirci responsabili per lo schifo di paese che saremo costretti a lasciare loro. E ci credo perché se un tipo tamarro come Flavio Briatore, parlando di bunga bunga al telefono con la regina delle cafone Santanché, si sente in dovere di allibire sull'ostinazione maniacale del premier per le giovin pulzelle e arriva a mormorare sconsolato: siamo di fronte a una malattia... Forse qualcosa si sta veramente muovendo. Io domani vado a votare. Quattro SI', sperando di non dover abbassare gli occhi un giorno davanti alle mie nipotine alle prese con acqua a peso d'oro, scorie radiattive e governanti che si fanno gioco della legge.

martedì 7 giugno 2011

Oggi su "La Sesia": nazionalismo? Sì, ma facciamo attenzione

Bene o male stiamo festeggiando i centocinquanta anni dall’Unità d’Italia. Abbiamo sdoganato il tricolore dall’area ristretta degli stadi. Stiamo imparando a commuoverci per “Fratelli d’Italia”. Ci stiamo sforzando di riesumare un sentimento nazionale che avevamo dato per morto e sepolto. In Europa siamo il paese che ne ha maggior bisogno, incastrati tra razzismi interni, tifoserie nemiche, campanili avversari e nazionalisti in sedicesimo che una patria, la Padania, se la inventano di sana pianta pur di potersi pulire il posteriore con la bandiera bianca, rossa e verde. Eppure tra un inno di Mameli e un “Va’ pensiero”, non ci rendiamo conto che l’idea di nazionalismo, mai veramente spenta, sta attraversando l’Europa con una virulenza che dovrebbe spaventarci. Se non lo fa è perché la maggior parte di noi si è abbeverato lo stretto necessario a una scuola che sta facendo di tutto per spegnere la memoria. Quando un sistema entra in crisi, quando il futuro si presenta incerto, quando ci si sente vittime di un’ingiustizia o succubi di decisioni altrui, ci si barrica e si impugnano le armi contro il nemico. E se il nemico non c’è, lo si inventa. Per la Germania umiliata dalla pace negoziata alla fine della Prima Guerra Mondiale, il nemico furono gli ebrei, all’interno, e il resto del mondo fuori. I tedeschi si riscoprirono nazionalisti, impugnarono la bandiera e scatenarono la Seconda Guerra Mondiale. È l’esempio più calzante, ma non è il solo. Proprio in questi giorni assistiamo sbigottiti alle manifestazioni serbe a sostegno di Radko Mladic, il boia di Srebrenica. Ha massacrato un’intera città, ha ucciso ottomila persone, è stato finalmente consegnato alla Corte Internazionale dell’Aja per rispondere al mondo delle sue colpe. Ma ci sono serbi che lo osannano come un eroe per aver difeso la patria dall’orda musulmana. Un’orda fatta di uomini, donne, bambini che la lente distorta di un nazionalismo demagogico trasformò in nemici. Da annientare. E a chi protesta che noi siamo diversi, l’invito è a frequentare la Rete e leggere le esplosioni di giubilo davanti a notizie come 270 migranti dispersi in mare per il rovesciamento di un barcone al largo della Tunisia. Uomini, donne, bambini che diventano nemici, ladri di spazio vitale, di posti di lavoro, di alloggi. Non siamo ancora arrivati ad annientarli con le nostre mani, forse non ci arriveremo mai. Ma il contagio nazionalistico è più pericoloso e virulento di quello del misterioso batterio killer che fa litigare sui cetrioli Germania, Spagna e Olanda mentre la Russia chiude i confini, oggi agli ortaggi, domani chissà. E la Francia, a pochi mesi dalle elezioni presidenziali, vede avanzare una bella signora bionda, Marine Le Pen, che con argomenti pacati e ragionevoli, invita tutti a uscire dall’Unione Europea per ritornare padroni in casa propria. Non sono ancora barricate, ma ci somigliano parecchio.

Laura Costantini

sabato 4 giugno 2011

Oggi vi parlo di: Carlo Menzinger di Preussenthal

Ci sono autori che meriterebbero molto di più. Storia vecchia? Come il mondo, probabilmente. Ma senza voler aprire un nuovo capitolo nella vexata quaestio circa le capacità di talent-scout dell’editoria italiana, voglio parlarvi di un autore che se pubblicato da una grande casa editrice sarebbe, senza ombra di dubbio, un nome di spicco nel panorama letterario italiano. Il nome è altisonante: Carlo Menzinger di Preussenthal. E’ nato a Roma, vive a Firenze e scrive in una dimensione temporale che appartiene solo a lui. Menzinger è uno scrittore ucronico. Non solo, ma principalmente. Cos’è un’ucronia? In parole povere è immaginare come sarebbero andate le cose se la Storia avesse preso un altro corso. Se scrivere un romanzo storico credibile è una bella fatica, scrivere un romanzo ucronico credibile è un’impresa titanica. Eppure a Menzinger riesce con quella facilità apparente che solo i veri talenti sanno imprimere alle loro opere. Il primo romanzo che ho letto di Menzinger è stato “Il Colombo divergente”. Che sarebbe successo se Cristoforo Colombo, invece di fermarsi alla prima isola, avesse guidato le proprie navi fino alla costa azteca? E’ questo il quesito che  Menzinger ci propone, immaginando un bivio nella vita e nelle esplorazioni di Cristoforo Colombo. Un bivio che avrà conseguenze tali da creare un futuro del tutto diverso da quello che noi, oggi, stiamo vivendo. Un lavoro enorme di documentazione, una penna felicissima, una voce narrante misteriosa e onnipresente, interventi poetici con ballate che si snodano come il coro di una tragedia. In fondo di questo si tratta: della tragedia di un uomo cui è stato affidato l’atroce compito di cambiare il mondo. In cambio deve rinunciare a se stesso, vivendo all’inseguimento di un sogno di gloria che, a ben vedere, non gli apparteneva. Libro che mi sento di consigliare, vivamente.

Incuriosita, volli procedere nella lettura. Perché Menzinger, oltre a essere geniale, è prolifico e, soprattutto, non scrive sempre lo stesso libro. Ama sperimentare. E di un esperimento parliamo nel caso di “Il settimo plenilunio”. Parliamo di sincretismo letterario. E non mi riferisco solo al fatto che e’ stato scritto a sei mani, ma alla contaminazione tra generi che lo caratterizza. Ci sono vampiri. Vampiri antichi e potenti, vampiri molto attenti al degrado civile e decisi ad ovviare al problema assumendo il controllo di una società ormai in caduta libera. La società è quella italiana, di un futuro prossimo venturo con veicoli a idrogeno e psicomail inviate direttamente da un cervello all’altro, auspice una multinazionale della psicocomunicazione, Fastissimo. Fantascienza, quindi, uno scenario futuribile/attuale nel quale gli uomini hanno perso ogni memoria storica, ogni consapevolezza del sé. Vivono hic et nunc e affidano i voli pindarici ai si-so, i sogni sintetici che hanno sostituito le serate al cinema. Poi ci sono i licantropi che, dopo secoli di sudditanza psicologica nei confronti dei vampiri (Twilight docet, ma questo libro è precedente al fenomeno della Meyer), hanno deciso di rivendicare la loro unicità e si sono uniti in una società/congrega, la WWW, capitanata da Wolfgang Wolf. Lo scopo è impadronirsi della Banca del Sangue Rocher, togliendone il controllo ai vampiri. Vi siete persi? La vicenda si dipana intorno al settimo plenilunio, momento topico per lo scontro tra vampiri e licantropi. Ma gli uomini in nero, braccio armato del potere economico umano, non hanno intenzione di stare a guardare. C’è anche una leggenda intorno a uno scontro tra dei a colpi di maledizioni e contro-incantesimi che vorrebbe la fine degli immortali (vampiri e licantropi) quando una donna mortale amasse un licantropo e, per amore, salvasse un vampiro. Difficile? Non è detto.
L’esperimento è interessante, le illustrazioni (si tratta di una grafic novel, un romanzo illustrato da una folta e agguerrita squadra di disegnatori) suggestive, la scrittura, a mio parere, risente delle sei mani, il passo della narrazione è diseguale. Ma è un libro vivo, pulsante. Da leggere, se siete disposti a lasciarvi sorprendere.

Ormai c’ero dentro e tanto valeva continuare con l’antologia “Parole nel Web”. Quando si pensa alla scrittura a più mani, l’idea è sostanzialmente quella di questo libro: persone che amano le parole che si incontrano virtualmente (pronubo il web) e, scambiando pareri e capitoli per e-mail, giungono ad un risultato inatteso. Come sanno coloro che conoscono Lauraetlory, la nostra scrittura a quattro mani è diversa. Noi scriviamo insieme, sempre e di persona. Ma l’idea di Carlo Menzinger, trait d’union tra Sergio Calamandrei, Andrea Didato e Simonetta Bumbi, è bella e funziona benissimo. Non si scorgono differenze di stili e di impostazione. L’amalgama è riuscito e il libro si legge con piacere: “Lei si sveglierà” è un racconto che scorre rapidissimo verso un finale aperto. “Se sarà maschio lo chiameremo Aida” è un romanzo breve pieno di surreale poesia, un mondo di ghiaccio che trasmette il calore delle cose vissute con il cuore. “Cybernetic love” è un esperimento di storia in versi con un linguaggio aulico e cibernetico insieme. Va letto per capire. Sinceramente è la cosa che ho apprezzato meno. Non la sento nelle mie corde. Ma questo nulla toglie alla bravura di Menzinger e Bumbi.

Vi state chiedendo se il nostro abbia rinunciato alla scrittura in solitario? Tranquilli. A un certo punto ha deciso di darsi al noir ed ecco servita “Ansia assassina”. Noir decisamente anomalo, ma piacevole e incalzante. L’ho letto tutto d’un fiato perché non potevo, non potevo proprio evitare di andare avanti fino alla fine per capire cosa stesse succedendo e quale fosse il motivo di tante assurde morti. Devo dire che avrei apprezzato una spiegazione meno irrazionale, ma il finale ci sta tutto e non lascia con l’amaro in bocca. Al limite con un perfido sorrisetto che credo sia esattamente quello con cui quel satanasso di Menzinger ha messo la parola fine a questo romanzo.

E le ucronie, che fine hanno fatto? Rimangono la passione principale di Carlo Menzinger. Ho appena terminato di leggere il romanzo che contende a “Il Colombo divergente” la palma di mio preferito. Sto parlando di “Giovanna e l'angelo”. Cosa sarebbe accaduto se l’intima essenza di Giovanna d’Arco, le sue stesse famose “voci” altro non fossero state se non un’entità angelica venuta al mondo insieme alla Pulzella d’Orleans? E quali scenari si sarebbero aperti se questo angelo alla ricerca di se stesso, confuso dalla mancanza di un contatto diretto con Dio e destinato a evolversi in una laicità senza speranza, non avesse sopportato di morire sul rogo, consumato insieme a Giovanna dalla sofferenza? Menzinger immagina che l’amore dell’angelo per Giovanna (o forse per se stesso?) operi il miracolo. La Pulzella sopravvive alle fiamme e niente più è destinato a rimanere ciò che era. Compresa Jeanne. Riprese le armi e riconquistato il suo popolo, Jeanne passa di vittoria in vittoria, avvicinandosi a Parigi, fino a strappare la corona a Carlo di Valois. Ma a ogni nuova battaglia, Jeanne perde una parte della sua antica esistenza, della sua stessa memoria. Lentamente Jeanne si trasforma in Jean, sotto lo sguardo sempre più confuso del suo angelo. Ha davvero cambiato il mondo salvandola? Ha distrutto la femminilità della Pulzella? Ha compiuto un sacrilegio, oppure è tutto un sogno vissuto mentre, insieme alla sua Giovanna, si consuma tra le fiamme del rogo? Menzinger con questo romanzo ci regala un’ucronia che travalica le leggi del genere e ci prospetta una vicenda che inizia laddove finisce, chiudendo un cerchio che racchiude in sé i misteri di Giovanna d’Arco, le voci della sua appartenenza al Sangue Reale, la sua discendenza da Cristo e Maria Maddalena, senza mai cadere nella trappola che la prolifica vena templare ha posto a molti scrittori meno accorti.

Carlo Menzinger di Preussenthal, non dimenticate questo nome. Perché, che si decida o meno a pubblicare con case editrici degne del suo talento, vale la pena scoprirlo.

mercoledì 1 giugno 2011

I miei articoli per "La Sesia": Obama, pensaci tu (e che c'entra si scopre alla fine)

Battibecchi di fine stagione per la televisione che ha un calendario scolastico: inizio anno a settembre, fine ai primi di giugno. Il nuovo direttore generale Lorenza Lei ha avuto ben poco tempo per farsi sentire prima che la collezione autunno-primavera 2010-2011 chiudesse i battenti. Ma i segnali di miglioria ci sono, chiari e forti. La precedente gestione esce trascinandosi tre flop di quelli che pesano. “Ciak si canta”, show del venerdì condotto da Francesco Facchinetti e Belen Rodriguez è stato chiuso in anticipo. Così l’ex Dj Francesco può concentrarsi sull’erede che Alessia Marcuzzi sta per partorirgli. E Belen che, data per certa alla conduzione di “Quelli che il calcio”, smentisce e può concederci un attimo di tregua. Anche dalle esternazioni contro Simona Ventura, sua nemica acquisita causa di Corona. Chiuso in anticipo anche “Centocinquanta”, show nato per celebrare i 150 anni dell’Unità e miseramente affogato nell’odio reciproco dei conduttori Pippo Baudo e Bruno Vespa. Più che chiuso, stroncato sul nascere il delirio d’onnipotenza di Vittorio Sgarbi: con l’8.27% di share in prima serata è stato un fiasco, ma di quelli millesimati a giudicare dal prezzo. Comunque, archiviato Masi (e speriamo presto anche lo sproloquio serale di Ferrara, da lui fortemente voluto), si pensa alla prossima stagione che si profila come cosa da donne. Caterina Balivo piange in tv per la prima volta nella sua carriera, ringrazia tutti tranne il co-conduttore Milo Infante e si appresta a condurre “Quelli che il calcio”. Ha tutto l’appoggio della Ventura, ma deve vedersela con Lorena Bianchetti. Le due sono amiche ma la Balivo le ha soffiato “Pomeriggio sul Due” e Lorena non dimentica. Soprattutto adesso che il direttore generale è la Lei, vicina al Vaticano come la Bianchetti e sua sostenitrice da sempre. In attesa di dirimere l’arcano del pomeriggio calcistico domenicale, sembra che non sarà Mara Venier a ereditare “Domenica in”. Commossa fino alla lacrima in chiusura di “Vita in diretta”, Mara ha dedicato il proprio lavoro dell’ultimo mese a Lamberto Sposini, ancora in prognosi riservata per emorragia cerebrale. Impossibile un suo ritorno in tempi brevi, i pomeriggi di RaiUno restano saldamente in mano a Mara. Al nuovo direttore restano da risolvere gli incastri di “Domenica in”: ok Massimo Giletti all’Arena, non pare sia gradito un ritorno di Lorella Cuccarini, i cui ascolti non sono stati all’altezza. Chissà che non risorga l’ipotesi Baudo. E poi c’è da pensare a Sanremo 2012, la cui conduzione è uno di quei problemi che potrebbero tranquillamente essere confidati nell’orecchio di Barack Obama al G8. Se per sostituire un’esplosiva Antonella Clerici fu necessaria una squadra di cinque persone, per sostituire il team Morandi basteranno due soli onesti lavoratori dello spettacolo come Fabio Frizzi e Carlo Conti? Obama, a capo di una nazione che già nel nome invita a “stare uniti”, preferirebbe di gran lunga un Morandi bis.
Laura Costantini