martedì 27 dicembre 2011

Oggi su "La Sesia": Quei futili motivi

Sia chiaro. I dati per una statistica non ci sono. Ma per rifletterci bastano. L’hanno definita tragedia di Natale, una delle tante. In provincia di Potenza un pensionato di oltre 70 anni ha imbracciato il fucile e ha ucciso tre persone. Non si è trattato di un delitto d’impeto. L’uomo quella donna e i suoi due figli li voleva morti. Avrebbe voluto morto anche il marito, ma il quarto omicidio non è andato a buon fine. Pare che l’assassino e le vittime vivessero da tempo un conflitto condominiale legato a una canna fumaria. Un motivo futile. E se questa è stata la tragedia di Natale, il pestaggio avvenuto a Roma lo scorso 23 dicembre poteva essere la tragedia dell’antivigilia. Trastevere, quartiere romano dedicato alla movida notturna. Un gruppo di ragazzi beve davanti a una libreria-vineria. Uno di loro, un ventiseienne ultrà della Roma, chissà perché ha con sé una grossa torcia e la usa per colpire violentemente alla testa altri due. Uno lo lascia a terra con una frattura alla base cranica, l’altro è meno grave. Viene arrestato a tempo di record e ammette di aver mandato un coetaneo a trascorrere il Natale in ospedale in attesa di essere operato alla testa. Motivi? Futili, anche se non del tutto chiariti. Chiarissimo invece, ma futile all’ennesima potenza, il motivo della tragedia dello shopping prenatalizio. Roma, di nuovo. Protagonisti degli adolescenti. Uno chiede una sigaretta, l’altro non gliela dà. Parte un pugno e un sedicenne muore tra le luminarie kitch di un centro commerciale, ucciso dal suo migliore amico. “Non volevo fargli male, è cominciato per una stupidaggine. Lui ha dato un pugno a me, io uno a lui.” Una stupidaggine. Esattamente il motivo per cui, dopo cinque mesi di coma, è deceduto un pensionato di Mestre. A luglio scorso aveva cercato di fare da paciere in una violenta lite tra fidanzatini. Il ragazzo, diciassette anni, gli ha sferrato un pugno. Il pensionato ha battuto la testa e oggi l’adolescente rischia dai 10 ai 18 anni di carcere per omicidio preterintenzionale. Mentre di omicidio volontario si parla per l’imprenditore bresciano di 72 anni che circa un mese fa ha volontariamente investito con il Suv un settantaseienne che protestava per l’indebita occupazione del proprio parcheggio disabili. L’imprenditore si è costituito e pare abbia dichiarato di non essersi reso conto di quel che faceva, perché accecato dalla rabbia. Ragazzi da una parte, anziani dall’altra. Ad accomunarli improvvise crisi di aggressività e futili motivi. Basta una sciocchezza, come la lite per un parcheggio, una canna fumaria fastidiosa, una sigaretta negata, perché l’altro si trasformi in un nemico da annientare. E se per i giovani si fa presto a puntare il dito contro videogiochi e tv, gli anziani sono la cartina al tornasole di un malessere che esplode dove più fragile è la percezione di se stessi. Perché quella che viviamo è una crisi di valori. Non solo monetari.
Laura Costantini

giovedì 22 dicembre 2011

Ho capito il senso

Questo e' un post molto privato. Uno di quelli da diario personale. Potete anche bypassarlo. Comunque... ieri pomeriggio la mia nipotina piu' piccola, Valentina, ha fatto il suo primo saggio di danza. Una saletta di periferia con il parquet scrostato, genitori zii e nonni assiepati sulle panche. Le piccole in tutu' rosso e fiocco verde, piccole elfette natalizie. Per esserci ho affrontato il traffico caotico di Roma alle prese con lo shopping natalizio e con la fregola prefestiva. Ero stanca, venivo da una giornata iniziata alle 5 e 45 del mattino: fila in ospedale, redazione, passaggio burocratico negli uffici Rai, montaggio. Tutto intessuto di telefonate a casa. Mia madre sta male. Non ha potuto esserci al saggio. E mentre guardavo Valentina seguire diligentemente le mosse della sua insegnante e saltellare felice come solo una bimba di 5 anni puo' fare, all'improvviso mi sono ritrovata a piangere. Piangevo dentro, per non farmene accorgere. Tirando su col naso e accampando un raffreddore credibilissimo con il freddo di questi giorni. Valentina e' il senso. Mia madre non poteva esserci li', seduta su quelle scomode panche, ma c'era. C'era perche' senza mia madre non ci sarebbe stata mia sorella Elisa. E senza mia sorella Elisa non ci sarebbe stata Valentina. Vale per tutti. Anche per me, che la vita non l'ho tramandata ma in qualche modo la testimonio. Il senso che tutti andiamo cercando e' tutto qui. E non e' poco. Un bambino felice, una luce accesa che, si spera, ne accendera' altre. Non serve sperare in qualcosa dopo la morte. Quel qualcosa e' la vita. E Buon Natale a tutti.

lunedì 19 dicembre 2011

I racconti del lunedì: Pochi giorni a Natale

Con questo racconto prese il via una bella iniziativa sul nostro vecchio blog: la chiamammo DOMINO ed ebbe un grande successo. Una catena di racconti, legati dalla fine del primo che diventava l'incipit del secondo... Bei tempi blogghici quelli.
Le note lo raggiunsero insieme all’odore freddo e umido della pioggia che lo aspettava all’uscita dalla metro. Demis riconobbe L’Inverno di Vivaldi nel volteggio dell’archetto sul violino e rallentò il passo. Il musicista ambulante non gli badò. D’altronde erano mesi che si esibiva in quell’angolo al riparo dal vento e Demis non lo aveva mai degnato di attenzione. Tantomeno di un obolo.
“Sarà che mancano pochi giorni a Natale…”, si disse lanciando un euro nella custodia aperta del violino. Il suono della moneta a contatto con le altre fu lievissimo. Ma bastò a fermare il profluvio di musica. L’ambulante aprì gli occhi e per la prima volta Demis si rese conto che aveva una faccia.
“Da oggi a Natale”, disse trapassandolo con pupille di castagna, “sta’ lontano dai fili.”
“Come?”
L’uomo abbassò lo strumento e si protese verso di lui.
“Ho detto: da oggi a Natale, sta’ lontano dai fili.”
Poi l’archetto tornò a stuzzicare le corde e la musica interruppe ogni contatto.
Demis si strinse nelle spalle.
“Pioggia e oracolo delirante. ‘Sta giornata è tutto un programma”, borbottò affrontando il primo scroscio sulle strisce pedonali. Fu fradicio prima ancora di raggiungere il marciapiede opposto. Più che entrare in sede, si tuffò nel tepore al di là delle porte a vetri.
“Ma vaffanc…”
“Problemi con la nuova fotocopiatrice?”, chiese Giovanna aiutandolo ad alzarsi.
“Chi è quel genio che ha teso il filo in mezzo alla stanza?”, la assalì, massaggiandosi un ginocchio.
“Volevo provarla. Fatto molto male?”
Stava per risponderle a tono, poi il suo sguardo fu catturato dal grosso, spesso filo nero che l’ultimo acquisto dell’agenzia (ultima conquista del capo) si affrettò a riavvolgere.
Da oggi a Natale sta’ lontano dai fili.
L’avvertimento gli rimbalzò addosso ma il disagio arrivò solo quando, una volta a casa, si scoprì a pensare che potevano essere fili anche le corde del vecchio ascensore che toccava terra cigolante. Inforcò le scale sentendosi un idiota. Di più, rise di se stesso mentre apriva la porta e si trovava davanti Susanna in piedi sulla scala.
“Arrivi a proposito. Si è incastrato il carrello della tenda.”
Demis si ritrovò il filo in mano prima di avere il tempo di pensare.
“Facciamo il contrario”, propose sentendosi subdolo.
Fu felice di lasciarle la manovra e di salire sulla scala.
“Ora sembra tutto a posto…”, disse, la testa ancora infilata tra le pieghe della mantovana.
“Ok, allora scendi.”
Non ne ebbe bisogno. La scala gli si aprì sotto, catapultandolo sul divano.
“Bel numero!” rise Susanna.
“Bel numero un cazzo. Vado a farmi una doccia.”
Ormai era alla paranoia. Se ne stava sotto il getto della cipolla meditando se era giusto pensare al tubo della doccia come a un filo. A scanso di equivoci, evitò di toccarlo.
Quando poi impedì a Susanna di legarlo alla testata del letto con la cinta dell’accappatoio, privandola del suo giochetto preferito, realizzò che il violinista ambulante aveva vinto. Fino a Natale si sarebbe tenuto alla larga da tutto ciò che anche lontanamente poteva chiamarsi filo. Compreso quello interdentale.
Furono giorni lunghissimi. Si privò dell’auricolare per il telefonino e delle cuffiette dell’Ipod. Rinunciò in un colpo solo alle Nike, alla corda e alle lezioni di boxe. Si tenne a distanza dai fili per il bucato e dagli elettrodomestici in genere. Si rifiutò di fare l’albero di Natale, troppi fili, preferendo per la prima volta in vita sua il presepe. Ma senza luci. Bandì gli adorati spaghetti dalla sua dieta e chiuse in un cassetto la catenina d’oro che avrebbe potuto strangolarlo nel sonno. Era talmente preso a dribblare le migliaia di fili che lo assediavano da rendersi a stento conto delle perplessità sempre più forti di Susanna.

“Demis, si può sapere dove stai andando? I miei stanno per arrivare.”
“Ho dimenticato una cosa. Faccio in un lampo.”
Corse giù per le scale. Ancora un solo giorno e quella follia sarebbe finita. Intanto però aveva dimenticato di prendere un regalo per Susanna. Il vicino centro commerciale restava aperto fino a tardi e lo benedì mentre lanciava l’auto nel parcheggio e correva dentro. La folla dei ritardatari natalizi stava scemando. La cena della Vigilia era praticamente in tavola e Demis si guardò intorno, alla ricerca di una profumeria.
Era da stronzi presentarsi col solito profumo, però meglio che niente. Avrebbe rimediato non appena il conto alla rovescia si fosse fermato con lo scoccare della mezzanotte.
“Avresti fatto meglio ad ascoltare il mio consiglio.”
Quella voce si materializzò alle sue spalle. Demis si voltò e lo vide.
Vide lui.
Vide la custodia del violino.
Vide il mitra che ne uscì.
Ma, soprattutto, vide lo striscione che dava il benvenuto ai clienti del centro commerciale “I Fili”.
Poi Demis non vide più nulla.

Laura e Lory

martedì 13 dicembre 2011

Oggi su "La Sesia": Verginita' e altre bugie

C’è una sola cosa peggiore di uno stupro. Uno stupro inventato. Nessuno di noi conosce il vero nome della sedicenne di Torino che ha raccontato di essere stata stuprata da due uomini stranieri. Dell’Est. Zingari. È minorenne, va tutelata. Per lei possiamo immaginare una famiglia che non coltiva il dialogo se è vero che ha messo in piedi la più odiosa delle frottole per non assumersi la responsabilità di un rapporto sessuale consensuale. Il 2011 sta per chiudere i battenti e siamo ancora qui a parlare di verginità. A raccontare di una ragazzina sottoposta, pare, a frequenti visite ginecologiche per confermarne l’illibatezza. A una nipotina che ha giurato alla nonna di arrivare vergine al matrimonio. Non ce l’ha fatta, si è innamorata, ha deciso di scoprire il sesso insieme al fidanzatino. Chissà com’è andata, chissà se hanno fatto le cose per bene questi due adolescenti, se hanno preso le doverose precauzioni. Se sono stati felici. Ma dal turbine dei sensi ci si risveglia e Sandra o Maria o Antonella, chiamatela come volete, è ricorsa al più retrivo dei luoghi comuni, alla più scontata e sessista delle bugie: non è stata una mia scelta, sono stata violentata. Qualcuno dovrebbe spiegare alla fanciulla il male che ha fatto. Prima di tutto alle donne che veramente sono state vittime di violenze e abusi. Poi a coloro contro i quali ha puntato l’indice, rivelandosi succube del pregiudizio. Esattamente dieci anni fa c’era un’altra ragazzina. Viveva non molto lontano da Torino e aveva pure lei sedici anni. Raccontò che due albanesi avevano massacrato a coltellate la sua mamma e il suo fratellino. Si chiamava Erika Di Nardo e proprio come l’adolescente torinese mentiva. Gli investigatori lo scoprirono in fretta, proprio come in fretta è crollato il castello di bugie costruito dalla protagonista della nostra storia. Solo che in questo caso il raid punitivo era già partito. Due albanesi nell’inverno gelido di Novi Ligure del 2001 erano difficili da trovare. Mentre nella Torino accesa di luminarie natalizie un campo rom ce l’avevano giusto sotto casa i prodi vendicatori dell’onore violato della fanciulla. Li ha scelti bene i colpevoli. Aiutata dal fratello maggiore, li ha anche descritti. “Erano in due: uno con una felpa grigia, uno con una grossa cicatrice”. Brutti, sporchi, cattivi. Perfetti. Ammettiamolo. Quando la stampa ha diffuso la notizia, ci abbiamo creduto tutti, subito. Una zona isolata, una ragazzina indifesa, due predatori. Le avevano intimato di consegnare il cellulare, perché i rom sono notoriamente ladri. Poi l’avevano costretta al rapporto sessuale, perché proprio come rubano i bambini, i rom son famosi per violentare le nostre donne. Notato come le donne divengano “nostre” solo quando le si immagina prede di appetiti estranei? E mentre la non più illibata sedicenne crollava davanti al cumulo di bugie, la spedizione punitiva si consumava tra spranghe e bombe carta. Perché quando i colpevoli sono perfetti, non c’è verità che tenga.

Laura Costantini

lunedì 12 dicembre 2011

Il racconto del lunedi': Dove vanno i palloncini?

Oggi inauguriamo un nuovo appuntamento blogghico: il racconto del lunedi'. E' un modo per farvi leggere, o rileggere, racconti che abbiamo scritto insieme o singolarmente nel corso del tempo. Quello che apre la rassegna e' una favola che scrivemmo per un'iniziativa benefica che conflui' in una bella antologia dal titolo
Buona lettura

“Uffa che caldo! Mi sento tutto molliccio ed è ancora mattina. Chissà quanto tempo ci vorrà prima che qualcuno si accorga di me… Tutta colpa di questo ridicolo papillon! Dove sì è mai visto un Tippete con un fiocco a pallini gialli e verdi intorno al collo? Tappete si che era carina, con quel nastrino rosa tra le orecchie, la bocca a cuoricino e le ciglia lunghe… Normale che sia stata la prima ad andarsene. Ed è stata pure fortunata perché la mamma della bambina ha legato il filo ben stretto intorno al polso, così Tappete non ha corso il rischio di volarsene via, com’è successo a Pigachu…”
“Come sei noioso! A forza di brontolare ti si sono ammosciate le orecchie!”
Una folata di vento scosse il grappolo di palloncini e li fece trovare faccia a faccia.
“Le mie orecchie non sono mosce! Piuttosto pensa alle tue pinne… se un bambino non si sbriga a sceglierti, scoloriranno al sole.”
Il palloncino-delfino si sforzò di scintillare assecondando il movimento del gruppo. C’erano dei bambini in avvicinamento.
“E’ inutile che ti agiti”, disse Tippete, “I delfini sono passati di moda.”
“Mai quanto i conigli, specialmente quelli con un ridicolo papillon a pallini gialli e verdi.”
L’uomo dei palloncini attrasse a sé il grappolo e immerse la grossa mano tra i fili candidi. Tippete strizzò gli occhi sperando di sentirsi sciogliere dal nodo, ma a sfilargli davanti fu la faccia di quell’antipatico di Titti.
“Bye bye ragazzi”, li salutò il palloncino giallo mentre il suo filo veniva affidato alle dita grassocce e sporche di gelato del bambino.
“Non è una bella mossa”, rifletté Tippete seguendolo con lo sguardo. “Ti ricordi cosa è successo a Willy?”
Il palloncino-delfino rabbrividì al suo fianco. Posto che un palloncino possa rabbrividire.
“Non farmici pensare… con tanto cielo a disposizione, andarsi a impigliare ad un ramo di acacia e…puff!”
“Certo, meglio volarsene via”, disse Gatto Silvestro, un po’ triste per la partenza di Titti.
“Si, ma almeno sapessimo dov’è che andiamo a finire… ci pensate? Girovagare in tutto quell’azzurro, senza meta. Fino a quando? Fino a dove?”
Gli occhi scintillanti del palloncino-delfino guardavano il cielo azzurro.
Tippete, invece, guardava altre persone in avvicinamento. C’era una bambina che tirava la mamma verso l’uomo dei palloncini. Le sue grida capricciose riportarono il silenzio nel grappolo e tutti rimasero in attesa della scelta, con il fiato sospeso.
A patto che un palloncino possa tirare il fiato.
“Sceglie me, me lo sento!”, disse speranzoso Gatto Silvestro.
“Senza Titti ti senti perso, eh?”, lo canzonò un palloncino-cuore.
“Lascialo dire”, lo consolò Tippete, “lui vede cuoricini dappertutto.”
La mano dell’uomo dei palloncini era di nuovo nell’intrico dei fili.
“Oh no…”, mormorò il palloncino-delfino sentendosi tirare, “ha scelto me…”
Il filo non voleva saperne di uscire dal nodo.
“Non sei contento?”, cercò di rincuorarlo Tippete. “Noi palloncini siamo fatti per giocare con i bambini…”
Era vero, ma al palloncino-coniglietto con il papillon a pallini gialli e verdi sembrò che lo strattone con cui, infine, l’uomo dei palloncini liberò il delfino, strappasse qualcosa anche nel suo cuore.
Posto che un palloncino abbia un cuore.
La bambina capricciosa prese il filo dalle mani dell’uomo e cominciò a scuotere il palloncino-delfino che lanciava barbagli argentei sotto i raggi del sole.
“Non così”, cercò di gridare Tippete. “Così gli fai male!”
Ma la bambina non poteva sentire la sua voce, tanto meno poteva accorgersi degli sguardi impauriti del grappolo di palloncini mentre continuava a sbatacchiare il suo nuovo giocattolo.
“Sta’ attenta”, urlò Gatto Silvestro alla bambina capricciosa mentre l’acacia, la stessa dove si era sgonfiato Willy, protendeva i suoi rami spinosi ghignando.
“Ho il mal di mare…”, si lamentò il delfino continuando a ballonzolare in cima al filo.
“Non puoi”, disse Tippete mentre la bambina si allontanava saltellando, “sei un delfino.”
Il puntuto muso argenteo si mosse per dire che no, non era un vero delfino, ma solo un palloncino di plastica impaurito…
Stunk!
“Oh no! Il filo si è rotto!”
Il delfino sembrò volgersi a quel grido disperato mentre la brezza lo trasportava in alto, seguito dalle lacrime stizzite della piccola.
Al grappolo di palloncini non restò che guardarlo diventare sempre più piccolo fino a confondersi con i raggi del sole.

Ci pensate? Girovagare in tutto quell’azzurro, senza meta. Fino a quando? Fino a dove?
Tippete non riusciva a darsi pace. Nel chiuso del magazzino dell’uomo dei palloncini, quelle parole continuavano a risuonargli nella testa già piena di elio.
Posto che un palloncino abbia una testa.
Mentre tutti i suoi compagni dormivano coricati contro il soffitto, lui continuava a spiare la luce della luna e a chiedersi dov’era il suo amico, se aveva paura, se anche volando tanto in alto si potevano trovare rami spinosi e malvagi.
“Neanche tu riesci a dormire?”
Quella vocina squittente lo costrinse a sgomitare, posto che un palloncino abbia i gomiti, per guardare in basso, dove incrociò gli occhietti luccicanti di un topolino bianco.
“Neanche tu dormiresti se il tuo migliore amico fosse volato in cielo.”
“E’ morto?”
Tippete ebbe uno scarto.
“Certo che no, i palloncini non muoiono… credo.”
“Tutti muoiono, l’ha detto la mamma.”
“La mamma dice pure che devi dormire. Lasciami pensare.”
Il topolino tacque ma zampettò lontano dai suoi fratellini addormentati e si arrampicò su una cassa di pacchetti di semi di zucca.
“Pensare a cosa?”, chiese quando gli fu più vicino.
“A dove vanno a finire i palloncini. Se lo scoprissi, potrei raggiungere il mio amico e lui si sentirebbe meno solo.”
“C’è un solo modo per saperlo”, disse il topolino agitando la coda con aria saccente.
“Ma dai, e scommetto che tu lo conosci”, lo canzonò Tippete.
“Sei proprio un pallone gonfiato. Peggio per te.”
Fece per zampettare via.
“Aspetta!”
Il topolino si voltò con un sorrisetto sotto i baffi.
“Vuoi saperlo?”
Tippete annuì agitandosi contro le ragnatele del soffitto.
“Però voglio una cosa in cambio…voglio volare!”

Per chi lo avesse visto, sarebbe stato un ben strano spettacolo. Un topolino bianco appeso al filo di un palloncino-coniglietto che attraversava il magazzino fluttuando verso la finestra aperta. La luce della luna li abbracciò quando furono all’esterno.
“Wow! E’ bellissimo!”, gridò il topolino mentre Tippete veleggiava lentamente, sorvolando i tetti dove le lenzuola stese a gonfiarsi di vento sembravano fantasmi.
“E’ bellissimo”, fu d’accordo il palloncino che non aveva mai veramente volato, “ma tu devi scendere o ti farai male.”
Lo depositò dolcemente sulla punta di un abbaino e approfittò del vento per voltarsi a salutarlo.
“Ciao topolino, e grazie…”
La luna lo avvolse dall’alto e sembrò attirarlo verso di sé, come una mamma che richiama i suoi piccoli.
“Ora lo so”, disse il topolino continuando a salutarlo, “so dove vanno a finire i palloncini.”
Poi si ricordò della sua, di mamma, e corse via.


Laura e Lory


Roma, 5 settembre 2007

martedì 6 dicembre 2011

Oggi su "La Sesia": Il ricatto della bonta'

Immaginate una giornata festiva di inizio dicembre. Traffico pigro, prime luminarie natalizie, pioggia e tappeti di foglie dorate. Arrivate al parcheggio. È festivo, siete esentati dal parcometro. Ma c’è lui. È vecchio, si ripara con l’ombrello e si trascina una bombola di ossigeno. Un elastico dietro le orecchie tiene i cannelli che si infilano nelle narici. Vi viene incontro, vi fornisce indicazioni per una manovra che ne non ha bisogno. E mentre lottate con ombrello, borsa e buste assortite, vi racconta che è appena uscito dall’ospedale e che ha bisogno di soldi. Sul cruscotto la raccolta dei tagliandi quotidiani del parcometro è un triste memorandum di quanto vi costa raggiungere ogni giorno un congiunto in ospedale. Date una moneta all’anziano, vi sentite aridi, perché era una moneta piccola, e allungate il passo verso la vostra meta. Immaginate di dover attraversare un ponte storico molto bello e di farlo con lo sguardo fisso al selciato viscido di pioggia e foglie cadute. Paura di cadere? Anche. Ma i motivi per cui vi sforzate di non incontrare sguardi sono, nell’ordine: una vecchina in sottana e fazzolettone neri che sembra la Befana come la disegnavate da piccoli, se ne sta seduta in terra, incurante della pioggia, e tende la mano al passaggio con voce di pianto; un punkabbestia circondato da cani macilenti, chiede l’elemosina e parla in un cellulare che sembra tanto un iPhone, voi non appurate, ma lo sguardo dei cani vi trapassa l’anima; un vecchio clochard dall’imponente barba bianca da Babbo Natale, zuccotto calato sulla testa, figura diritta anche se si appoggia a un bastone, mano tesa; una giovane zingara che si è assicurata il posto migliore, ben riparato dalle intemperie, con un gradino per sedersi e tendere il bicchiere di carta salmodiando: “Buongiorno signora, buonasera signora, auguri signora”, a seconda delle esigenze. Immaginate di averli evitati. Non è difficile, non quanto evitare il senso di colpa che vi attanaglia davanti all’ostacolo inedito. È un lui a giudicare dal poco che vedete, se ne sta in posizione fetale sul marciapiede. Non chiede nulla, dorme riparato da un ombrello aperto, le scarpe sfondate tenute per i lacci intrecciati tra le dita, le calze spesse sui piedi gonfi. Vi andrebbe di fargli un’offerta, ma non ha neanche un piattino accanto. Magari al ritorno lo trovate sveglio. Immaginate di essere giunti all’entrata dell’ospedale. Gli ostacoli non sono finiti. Una donna ben vestita brandisce un mazzo di foglietti, ve ne sbatte uno davanti agli occhi e non chiede. Lei pretende un’offerta per le malattie rare dei bambini. Stavolta non abbassate gli occhi, il “no” lo dite chiaro. E mentre la tipa vi bofonchia un ironico: “a Natale siamo tutti più buoni”, immaginate di scrollarvi di dosso i sensi di colpa per accogliere la consapevolezza di quanto sia perfido il ricatto della bontà. In un giorno d’inizio dicembre, con le luminarie natalizie, davanti a un luogo di sofferenza come un ospedale.

Laura Costantini