mercoledì 29 febbraio 2012

I miei articoli per "La Sesia": I numeri della vergogna


Ci dicono che l’Italia stia riconquistando agli occhi del mondo la dignità di paese civile ed economicamente affidabile. Paese degno di sedersi nei maggiori consessi internazionali e di trattare alla pari con le grandi potenze. In parte, la parte prettamente economica, è vero. Ma ci sono numeri che raccontano una realtà diversa. Numeri che non dovremmo mai permetterci di dimenticare. Ogni tre giorni una donna in Italia viene uccisa per mano del proprio partner. Un rapporto dell’Eurispes stabilisce che il fenomeno, negli ultimi nove anni, è aumentato del 300 per cento. Di più, la relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, Rashida Manjoo, parla di femminicidio e afferma senza giri di parole che la violenza in Italia è la prima causa di morte per le donne tra i 16 e i 44 anni. Una violenza che, contrariamente a quanto ci piacerebbe pensare, è tutta tra le pareti domestiche: gli assassini sono i mariti (per il 36 per cento), i compagni (18), i parenti (13), gli ex (9) e i figli (11), ovviamente maschi. Come nel più trito luogo comune che ci piace affibbiare agli altri, meglio se musulmani, la donna viene vissuta come una proprietà da gestire, punire, annientare all’occorrenza. E non è solo questione di educazione, cultura o tradizione. C’è di peggio se l’ultima controversa sentenza della Cassazione stabilisce che gli autori di uno stupro di gruppo non meritano il carcere. A fronte di tutto questo, e non diversamente da quanto si farebbe in un paese del terzo mondo a scarso tasso di cultura e democrazia, si sta valutando l’istituzione della figura di un avvocato specializzato solo nella difesa delle donne. Questi sono numeri della vergogna, che dipingono una società arretrata e maschilista. Una società che non ha rispetto per la dignità altrui. Un popolo che fino a ieri plaudeva ai più furbi, ai più forti, ai più ladri. Vogliamo farne altri, di numeri? Nel 2011 la guardia di finanza ha individuato 7500 evasori totali con redditi occultati pari a 21 miliardi di euro. Un furto globale, a tutto scapito della leggenda del nord lavoratore e del sud sfruttatore. A Novara sono stati recuperati alla tassazione più di 180 milioni di euro, quasi 30 di IVA evasa. Ad Arezzo 37 evasori totali nascondevano al fisco 65 milioni di euro. Nel crotonese erano in 22 a nascondere 4 milioni e mezzo di euro. Nel Veneto gli sconosciuti al fisco erano 700 e nascondevano al fisco  3 miliardi e mezzo di euro. Persone che magari conosciamo, delle quali potremmo, se interrogati, dire le solite banalità: grandi lavoratori, per bene, mai una parola fuori posto. Persone che non si sono limitate a ignorare i propri doveri nei confronti dello Stato, bensì persone che hanno derubato i propri simili, usufruendo di servizi concepiti per aiutare i più bisognosi. Ancora numeri: 201 falsi invalidi scoperti dal 2009 a oggi. Una frode ai danni di tutti noi di 5 miliardi di euro. E una strada ancora lunga per questo paese.
Laura Costantini

martedì 28 febbraio 2012

Due o tre cose che ho capito sulla scrittura



Ho avuto la fortuna di essere un’aspirante scrittrice ben prima di accedere al dorato mondo della Rete. Perché fortuna? Perché non conoscevo nessuno, non avevo metri di paragone, non sapevo a chi rivolgermi e, soprattutto, non sono incappata nei famigerati opuscoli “Dieci regole per l’esordiente perfetto”, “Come farsi pubblicare”, “I dolori del giovane correttore di bozze”, “Come inventarsi un best seller e trombare come un riccio”. Potrei continuare, ma avete capito il genere. Leggevo. Ho sempre letto da che mi ricordi. Questo non vuol dire che leggessi le cose giuste, anche a leggere si impara. Ma ebbi la fortuna di incappare in un libro di Stephen King, “On writing”, e mi si aprì un mondo. Perché, anche se non fa politically correct metterlo nero su bianco, istintivamente diffidavo e diffido dei corsi di scrittura creativa. A scrivere non si insegna, perché a scrivere non si impara. Ci deve essere il quid di partenza e ognuno di noi, se dotato di normale quoziente intellettivo, è in grado di capire se quel talento ce l’ha oppure no. Partiamo dal presupposto che il talento ci sia e procediamo. Scrivere non è una colpa. Questo deve essere chiaro, soprattutto alla luce di quanto troverete in Rete giorno dopo giorno. Interviste ad addetti ai lavori disperati perché costretti a leggere manoscritti ( fare l’idraulico no?), siti di case editrici che avvisano che i manoscritti verranno espressamente richiesti (chiamano un numero a caso e chiedono: avrebbe mica un inedito da sottoporci?), scrittori affermati che lamentano che in Italia non si legge abbastanza e si scrive troppo (e potremmo discuterne). All’inizio mi arrabbiavo. Ricordo scontri epici ai tempi del nostro primo blog, quello su Splinder ormai sparito nel gorgo del web. Hanno cercato in tutti i modi di convincermi che:
- se non hai all’attivo almeno un paio di corsi di scrittura creativa non puoi saper scrivere, è lampante;
- se per guadagnarti da vivere non fai l’idraulico ma (tappatevi le orecchie) il giornalista, allora non puoi pretendere di scrivere narrativa perché la tua è una penna ormai impura (giuro, mi accusarono – testuale - di aver prostituito la mia penna!);
- se insisti nell’insano proposito di voler scrivere, allora non ti azzardare a cercare di pubblicare;
- se, non si sa bene come, ottieni di pubblicare, allora è evidente che la tua unica vera aspirazione è andare ospite in qualche talk show a dire la qualunque sulla cronaca spicciola;
- se hai pubblicato con una piccola casa editrice, sei un povero sfigato (giuro, mi venne sbattuto in faccia insieme alla scansione di un contratto Fazi e un elegante “Rosica!” da uno scrittore che oggi va di moda. E lo scrittore non era Martone in incognito);
- se scrivi, pubblichi e sei pure femmina, allora è ovvio che sforni roba che vorrebbe avvicinarsi alla collana Harmony ma non ne è all’altezza (giuro, un tipo mascherato sotto un nickname mi ha sbattuto in faccia questa considerazione aggiungendo un “ti piacerebbe!”).
Dite voi se non ce n’era abbastanza per scoraggiarsi. Ecco, forse questo è l’insegnamento principale. Perché leggere con avidità, attenzione e voglia di imparare, scrivere scavandosi dentro fino a toccare le corde più intime e vere, rifinire come un artigiano curando la materia prima (la scrittura) e gli strumenti (la documentazione) con tutta la cura di cui si è capaci, non basta. Senza la consapevolezza, dei propri limiti ma anche del proprio valore, e la capacità di considerare fuffa della Rete ciò che è fuffa della Rete, non si va da nessuna parte. E visto che non volevo certo accodarmi alla folla dei vari autoeletti tutor per esordienti, aggiungo solo una cosa: per pubblicare non si deve pagare. Mai. A me non servirono i guru della Rete per capirlo, anche quando avevo solo 18 anni.

Laura

lunedì 27 febbraio 2012

I racconti del lunedi': E lontano fischia il treno


Ce lo chiedono spesso, a me e Lory: "ma voi non scrivete mai da sole?" Si', scriviamo anche da sole e quello che segue e' un racconto di Lory che io amo moltissimo perche' e' emozione pura. Ve lo consiglio caldamente.
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E lontano fischia il treno.
Nina lo sente che cavalca il vento, si insinua nei filari di uva nera che attraversano l’orizzonte, si perde lungo i binari della ferrovia.
E allora le dita si chiudono sulla pasta lievita, stringono e stringono e stringono fino a toccare il palmo imbiancato di farina. Non può piangere Nina, la sua missione è il sorriso, lo stesso che incide la pagnotta, un grande sorriso buono come il pane.

Non vuole correre alla stazione Nina. Non questa volta, anzi mai più. E allora impasta, tira e schiaccia quel miracolo di acqua e grano per sfogare il tormento che le si agita dentro.

Concentrati Nina, impasta, pensa a come sarà buono il pane. Dietro la finestra il sole sta calando,  presto schiaccerai sul cuscino la delusione e la malinconia.

Perle di sudore le fioriscono sulla fronte. E’ fatica, è dolore che torna a percorrere i solchi che le ha inciso nel cuore. Un’intera autostrada, come quella che schiene cotte dal sole stanno tracciando tra montagne, campi e colline.

E’ arrivato il lavoro, è arrivata la speranza. Quella che a lei è stata negata. Quella che ha perso per sempre in un giorno che non ricorda più.
Le donne in paese si affaccendano nei campi, raccolgono le messi, lanciano grida ai bambini. La sera, a casa, accoglieranno tra le braccia i loro uomini stanchi, li terranno al caldo sul seno, cancelleranno la fatica con i baci, con le carezze.

Il tempo degli addii è finito. Finito è il lento stillicidio di vite nella piccola stazione del paese. Pasquale ora può leggere il giornale, può attraversare i binari per zappare l’orticello che ha messo su dietro le carcasse delle locomotive. Esce di rado dalla postazione, prende la paletta, sistema il berretto, di tanto in tanto lancia un’occhiata ai pochi visi che spuntano dai finestrini. Facce straniere, sguardi curiosi, sorrisi storti come l’insegna scolorita dal tempo tenuta lì a ricordare che quel posto esiste, non è solo un puntino su una vecchia cartina del sud d’Italia, un’insegna verde fiammante di quella che i paesani chiamano l’Autostrada del sole.

Ogni tanto Pasquale prova a parlarle a Nina. La vede entrare in stazione, i capelli biondi raccolti dietro la nuca, il vestito della festa liso dal tempo a fasciarle il corpo ancora giovane. Lo sguardo a nord a scrutare l’arrivo dell’unico treno che ancora consumi le traversine, cieco alle occhiate dei pochi uomini rimasti liberi e di quelli che la libertà la portano nel cuore, e nella patta. Si siede accanto a lei Pasquale, sulla panchina. Vorrebbe dirle che non le fa bene scendere alla stazione. Che deve rassegnarsi. E invece le chiede di Luca. Se sta bene, se è felice, se si comporta da uomo.

Nina risponde che si, Luca sta bene, è felice e si comporta da uomo. Va alla scuola elementare, fa i compiti e l’aiuta a fare il pane. E’ suo il dito che disegna il sorriso sulla pagnotta, lo stesso che gli scopre gli spazi vuoti lasciati dai denti che un topino dimentica spesso di portar via in cambio di una monetina.

Risponde Nina alle domande di Pasquale ma il suo pensiero è altrove. Rincorre una promessa, quella che Antonio le ha fatto prima di salire sul treno. Quando ha lasciato il sole del suo paese per il freddo e la nebbia del nord.

Un paio d’anni amore mio. Un paio d’anni e qualche sacrificio. Poi torno e ti costruisco con queste mani la casa più bella del paese. Voglio che Luca abbia tutto quello che è stato negato a noi. Un paio d’anni di lavoro alla miniera e ti faccio fare la signora per sempre. Non piangere amore mio, sei così bella…

E lontano fischia il treno.
Non serve a nulla tapparsi le orecchie con le mani. Lo sente che fischia, fischia… Allora lascia il pane, lascia Luca a giocare nei campi e esce di casa. Non ha il vestito della festa, i capelli le sfuggono dalle forcine mentre si precipita lungo la strada bianca di ciottoli, ondeggiano liberi sulle spalle quando attraversa l’atrio ed esce sui binari. Il treno è passato. Lo sa, ne sente ancora le vibrazioni sotto i piedi. E sa che è arrivato il momento, che deve gridargli dietro il suo addio.
Corre Nina, corre come se avesse ancora sedici anni, come se ad attenderla dietro la collina ci fossero le braccia aperte di Antonio, i suoi capelli neri, i suoi baci. Corre fino a sfiancarsi, fino a cadere in ginocchio con il respiro che le scoppia nel petto.
E allora urla, urla tutto il dolore che ha tenuto dentro, urla fino a coprire il fischio del treno.

E poi arriva sera. Presto Luca rientrerà in casa, sporco di fanciullezza e affamato di cibo e di carezze. Lei taglierà il pane, lo tingerà di rosso pomodoro e ritrovando in quei suoi occhi neri lo sguardo che la fece innamorare, gli racconterà di suo padre.  Dei suoi sogni, del suo coraggio, di come l’8 agosto 1956 lasciò la vita abbracciato ai duecentosessantuno compagni nella miniera di Marcinelle.

Loredana Falcone


martedì 21 febbraio 2012

Oggi su "La Sesia": Quando papà dice no

Non che non se ne sia parlato. Ma la notizia ha subito ceduto il passo a questioni più importanti: le prediche anticlericali di Adriano Celentano sul palco dell’Ariston e la farfalla inguinale liberata da Belen in assenza di fiori festivalieri. Eppure quel NO, chiaro e forte, meritava una riflessione. Ci siamo passati tutti, a meno di non esser nati in una famiglia facoltosa. I bambini, si sa, vivono in un mondo tutto loro che raramente fa i conti con la realtà. Così può succedere che non ci si renda conto della situazione economica della propria famiglia. E va benissimo così, perché l’infanzia ha i suoi diritti, primo fra tutti quello di non farsi gravare addosso pensieri e responsabilità che attengono agli adulti. Poi il giorno della consapevolezza arriva. È inevitabile. A seconda della generazione può esser stata la richiesta di una Barbie superaccessoriata, di un Subbuteo, di un motorino, dell’ultima Playstation, di un iPhone. Egoisticamente ignari del conto in banca dei nostri genitori, ci siamo presentati loro con la richiesta delle richieste. Quella da cui, in quel momento, facevano dipendere la nostra felicità presente e futura. Il no era un’opzione che ci sentivamo in diritto di non prendere neanche in considerazione. Eppure quel no è arrivato, prima o poi, per tutti. E il velo pietoso dell’illusione è caduto. Abbiamo pianto, inveito, pestato i piedi, minacciato fughe se non soluzioni estreme. Ma non è servito. Non poteva servire davanti all’unico argomento incontestabile: non ci sono i soldi. È esattamente questa la realtà che papà Mario Monti ci ha sbattuto in faccia la settimana scorsa. E niente come il no alla candidatura di Roma per le Olimpiadi del 2020 ci ha dato la misura esatta dei nostri conti. Non ci sono i soldi. Avremmo dovuto saperlo, a fronte del giro di vite dato ai consumi, del rincaro dei carburanti, delle tasse a pioggia battente. E, in fondo in fondo, lo sapevamo. Ma se Monti avesse dato l’ok alla candidatura di Roma, tutto ci sarebbe apparso in una luce diversa. La luce che promana dai grandi progetti che possono pure restare sulla carta, tra un appalto truccato e l’altro, però danno l’impressione di magnifiche sorti e progressive. Come quando il passato governo quando ci abbagliava col miraggio di un avveniristico ponte sullo Stretto di Messina. Ma papà Monti è fatto di un’altra pasta. “Il governo non ritiene che sarebbe responsabile, nelle attuali condizioni dell’Italia, assumere l’impegno di garanzia dei costi delle Olimpiadi che il Cio richiede”. Poche, sobrie parole per ribadire il concetto: ragazzi, non ce li abbiamo otto miliardi e mezzo per non fare una brutta figura davanti al mondo. “Essendomi occupato di economia qualche volta - ha spiegato con la consueta ironia - so che […] ci possono essere scostamenti molto rilevanti fra preventivi e consuntivi”. Quindi inutile frignare e battere i piedi. Meglio distrarsi: pro o contro Celentano, pro o contro la farfallina di Belen.

Laura Costantini

lunedì 20 febbraio 2012

I racconti del lunedi': Lo spazzolino da denti

Questo racconto venne scritto per il sito http://www.horrorwebsite.com/ su invito di Marco Candida. Devo dire che ci piace oggi quanto ci piacque allora scriverlo. Buona lettura.

Era la quinta sera di seguito che Rodolfo che rientrava tardi. Oddio, tardi per i canoni di Giovanna, Giò come la chiamava quando voleva farsi perdonare qualcosa. In realtà il suo Lorentz segnava a mala pena le due del mattino. Un orario plausibile per chi, come lui, era a capo di ben tre società di leasing.
L’appartamento di via delle Medaglie d’Oro era al buio, fatta eccezione per il debole chiarore che proveniva dalla lampada a stelo del salotto, quella vicina al computer il cui ronzio era percepibile nel silenzio ovattato della notte.
Rodolfo accompagnò lentamente la porta d’ingresso e, con tutta la delicatezza di cui era capace, lasciò cadere soprabito e ventiquattrore sulla poltrona in anticamera.
Avrebbe volentieri fatto una doccia, si sentiva addosso i vapori di cucina dell’Osteria dell’Angelo dove, alla faccia del suo 180 di colesterolo, aveva ingurgitato un’intera porzione di coda alla vaccinara. Ma Giò aveva il sonno leggero così si spogliò in fretta e si infilò in bagno per lavarsi almeno i denti. Le fibre del sedano gli erano rimaste incastrate negli interstizi. Si accorse subito che nel bicchiere di porcellana mancava il suo vecchio spazzolino. Sostituito a ben guardare da un rozzo manufatto in legno e setole di… cinghiale? pensò saggiandone la durezza. La solita mania di sua moglie di portare alle estreme conseguenze il rispetto dell’ambiente. Mettersi in bocca quell’affare non doveva essere diverso dall’usare lo spazzolino del cesso, o’ stuppolo avrebbe detto nonna Grazia.
Per fortuna il dentifricio era un classico, Pasta del Capitano, lo stesso da quando ricordava di aver fatto del lavarsi i denti prima di andare a letto una pratica da non dimenticare.
Il sapore di menta piperita offuscò l’allappamento da cena pesante mentre lo spazzolino gli invadeva il palato. Era scomodo, affatto ergonomico, ingombrante e la vibrazione era esagerata al punto da fargli tremare i denti nelle gengive... La vibrazione? Riflettere ed estrarselo dalla bocca fu un tutt’uno. Lo fissò, impastato di schiuma di dentifricio. Non aveva tasti, l’impugnatura in legno ruvido non avrebbe potuto in alcun modo contenere una batteria. E poi Giò era contraria a quel genere di piccoli elettrodomestici. Si faceva un culo così per montare la maionese a mano. Lo spazzolino ricambiava ottusamente il suo sguardo senza muovere una setola. Rodolfo si convinse che doveva essere stato il cocktail tra il vinello dell’osteria e la stanchezza di quell’eterna giornata a procurargli quella specie di stupida allucinazione. Che non fosse del tutto convinto lo evinse dalla cautela con cui riposizionò lo strumento tra i denti. La vibrazione riprese al primo leggero sfioramento degli incisivi. Ma era più delicata, tutto sommato piacevole ed efficace nel rimuovere quell’ostinata fibra di sedano tra premolare e canino. Troppo stanco per procedere a una seconda ispezione, lasciò che lo spazzolino facesse il suo vibrante lavoro. E cominciò anche a goderselo quel momento, di più, cominciò a muovere il bacino come se alla vibrazione corrispondesse una musica che solo lui riusciva a sentire. Sputò nel lavandino schiuma, residui di cibo e una grossa, grossa dose di stanchezza. Respirò a bocca aperta per gustare la freschezza della menta poi, senza neanche accorgersene, rinfilò lo spazzolino in bocca per un’ultima passata.

A svegliarlo fu il profumo del caffè che gli riempì le narici. Scacciò l’idea di essere al bar e aprì gli occhi sul volto stranamente sorridente di Giò.
“Buongiorno, stallone”, lo accolse sedendo sul bordo del letto.
Bastò quella parola a riportargli alla mente la performance di poche ore prima. In vent’anni di matrimonio non era mai successo che sentisse il bisogno di svegliare Giovanna nel cuore della notte per fare sesso. Che lei avesse gradito era evidente non solo per il caffè ma anche per l’espressione soddisfatta che le toglieva dieci anni.
“Anche tu non te la cavi male, avevo dimenticato cosa significasse.”
“Tutto questo per farti perdonare i tuoi orari impossibili?”
“A proposito di cose da farsi perdonare: che ti è saltato in mente di sostituire il mio spazzolino con quel manufatto da terzo mondo?”
“Non è adorabile? L’Ecobottega ne ha importati una decina dalla Costa d’Avorio e Allegra me ne ha tenuti due da parte.”
“Che culo!”
“Lo sai che se tutti adottassimo degli spazzolini in fibra naturale ridurremmo significativamente la quantità di diossina presente sul pianeta?”
“Sicuro, e abbatteremmo il doppio degli alberi.”
“Non essere disfattista e datti una mossa o farai tardi a lavoro… stallone!”

Rodolfo non aveva fatto tardi a lavoro, anzi. Si era presentato in ufficio prima del solito e più dinamico che mai. Il suo entusiasmo aveva contagiato i collaboratori e dato una svolta decisamente positiva alla giornata. La stanchezza aveva cominciato a mordergli la base del collo quando era già davanti all’ascensore di casa. Aveva promesso a Giovanna di rientrare per cena e quando aprì la porta fu investito dall’aroma del mitico risotto alla crema di scampi che era, da sempre, la sua specialità. Ma erano anni che non lo preparava.
“Tesoro, metto in tavola tra cinque minuti.”
“Arrivo, il tempo di darmi una rinfrescata.”
Entrò in bagno e si concesse una doccia veloce, tre minuti esatti. Gliene restavano due per lavarsi i denti. Fu mentre le setole cominciavano a prendere vita contro i suoi molari che si rese conto di aver aspettato quel momento per gran parte della giornata. Solo per una conferma del benessere che quel massaggio alle gengive gli procurava. Non ne restò deluso e raggiunse Giò pronto a godere a pieno di quella ritrovata intimità familiare.

“Non sono stati i crostacei, vero?”
Rodolfo rotolò via da lei e si concesse un sospiro.
“E’ la seconda giovinezza”, rispose carezzandole un fianco lasciato scoperto dal lenzuolo. “Avresti il coraggio di lamentarti?”
Lo sguardo di Giovanna si fece serio mentre lo fissava appoggiata su un gomito.
“Tutt’altro. Cominciavo a convincermi che tu avessi un’altra. Erano mesi che non facevamo l’amore.”
“E sono bastate due notti a cancellare tutti i tuoi dubbi?”
Stavolta lei sorrise.
“Beh, alla tua età è un po’ difficile pensare che tu riesca a soddisfarci entrambe.”
“E se mi sottovalutassi?”
“Lo vedremo nel proseguo del campionato.”

La pulizia dei denti diventò la priorità di Rodolfo. Trascorse un intero pomeriggio alla ricerca di una custodia in cui riporre lo spazzolino. E una volta che l’ebbe trovata non si separò più dall’oggetto che aveva cambiato il corso della sua vita.
Era nella toilette dell’ufficio a spazzolarsi per la quarta volta nel corso di quella giornata quando la consapevolezza che le setole cominciavano ad aprirsi lo gettò nel panico.
Afferrò il cellulare e chiamò Giò. Doveva assolutamente avere l’indirizzo dell’Ecobottega. Facile che Allegra avesse ancora qualche esemplare di spazzolino invenduto e, nella malaugurata ipotesi che li avesse smerciati tutti, le avrebbe chiesto, ordinato, di procurarsene ancora.

“… mi sta dicendo che quei fottuti spazzolini erano pezzi unici? Che glieli ha portati qui, per sbaglio, un fottuto sconosciuto e che averne ancora è praticamente impossibile?”
Allegra, la proprietaria dell’Ecobottega ebbe prima un moto di compassione per la signora Giovanna al pensiero che l’invasato che le vomitava in faccia parole e schizzi di saliva fosse suo marito, poi, esaurito il self-control che faceva di lei una professionista del rapporto con il pubblico, si lasciò invadere dalla collera.
“Ora mi ha davvero stancata. Abbiamo decine e decine di spazzolini da denti, di tutti i materiali, di tutte le fogge e persino a batteria. Ha due possibilità: sceglierne uno o uscire in strada e mettersi alla ricerca del fottuto sconosciuto che mi ha venduto il suo!”
I suoi, pensò Rodolfo, facendo mentalmente riferimento a quello di Giovanna che, ne era sicuro, riposava avvolto nel cellophane in uno dei cassetti del mobile da bagno.

Lasciò Allegra al proprio collerico stupore e, ignaro di ogni altro impegno, si precipitò a casa. Fu sollevato nel non trovare Giovanna, non avrebbe saputo spiegarle la necessità di profanare l’intimità del suo bagno. Tralasciò ogni precauzione e senza alcun rispetto per l’elaborata confezione, portò lo spazzolino allo scoperto. Lo specchio gli rimandò l’immagine di un’idiota dallo sguardo invasato. Non se ne curò. Aprì il getto dell’acqua, vi passò sotto le setole e attaccò i denti con l’accorata speranza di sentir partire la nota vibrazione.
Strofinò, strofinò e strofinò fino a quando il sapore del sangue fu qualcosa di più di un vago sentore. E fu sangue quello che sputò nel lavabo insieme all’ultima speranza che lo spazzolino di Giò possedesse le prodigiose virtù del suo.

Nella settimana che seguì lo spazzolino, il suo spazzolino, restò al sicuro della custodia, immobile e inusato come il suo sesso. Giò diede sfogo a tutta la sua fantasia in cucina ma le loro notti tornarono a essere un pacifico, duplice russare ai lati opposti del letto. Non poteva rischiare di rinunciare all’energia che lo strumento sapeva donargli, non poteva consumarlo fino al momento in cui, perse le setole, sarebbe diventato inutilizzabile. Ma l’astinenza lo rendeva nervoso, irritabile, depresso. Aveva bisogno di quella vibrazione, di quella silenziosa musica interna che lo riconciliava col mondo e lo faceva sentire più giovane, più forte, più uomo.
La decisione lo colse durante una notte insonne, mentre fissava il soffitto buio e rifletteva su quanto inutile poteva essere la vita senza quella marcia in più. Si alzò d’impeto, senza alcun riguardo per il sonno di Giovanna, che si mosse cambiando posizione. Tentoni raggiunse il bagno, accese la luce e si trovò faccia a faccia con il fisico bisogno di usare lo spazzolino. Ora. Subito. Lo cercò nel cassetto, lo trasse dalla custodia, lo spalmò di dentifricio poi rimase immobile, davanti allo specchio, pregustando quello che sarebbe seguito. La rinascita, la rinnovata energia, la sferzata di giovinezza. Stavolta la vibrazione, quasi avesse capito, cominciò prima ancora che le setole trovassero il contatto con i denti e lo spazzolino andò, sempre più veloce, sempre più potente mentre Rodolfo gli  si abbandonava, tentando di sorridere a bocca aperta.

Allegra aveva appena aperto e stava allestendo il bancone dei dolci biologici quando la signora Contini, mattiniera come mai prima, irruppe nel negozio cantilenando ‘povera Giovanna, povera Giovanna’, poi davanti al suo sguardo interrogativo, diede fiato alle trombe: “Il marito di Giovanna. Un infarto, dicono, mentre si lavava i denti. La poverina lo ha trovato sulle piastrelle del bagno con ancora lo spazzolino in bocca.”
Allegra visualizzò la faccia congestionata del signor Bruni l’ultima volta che era venuto in negozio. Rabbioso e disperato, come se da uno stupido spazzolino da denti in legno e setole naturali dipendesse la sua stessa vita. Un brivido la percorse. Lo stesso brivido che l’aveva spinta a comprare quegli insoliti spazzolini. Lo aveva fatto d’impulso. Lo sconosciuto si era intrufolato in negozio quando la serranda era abbassata per metà. Era sabato sera e lei si era attardata per chiudere la cassa. Ma non era stato il timore di una rapina a convincerla che doveva liberarsi in fretta di quell’ambulante mai visto prima in zona. A farle scattare il campanello d’allarme era stato il contrasto ipnotico tra la pelle nerissima e lo sguardo. Uno sguardo che, alla luce di quello che era successo, non avrebbe mai dimenticato.

Lauraetlory

martedì 14 febbraio 2012

Oggi su "La Sesia": Cosa abbiamo imparato?


Nell’abc del giornalismo c’è una regola: se un cane morde un uomo, è normale; se un uomo morde un cane, è una notizia. Sembra lapalissiano, ma non lo è alla luce di quanto abbiamo vissuto dall’inizio di febbraio a oggi. Diamo atto ai mezzi di comunicazione che, per una volta, le iperboli erano giustificate: gelo polare, vento siberiano, emergenza maltempo. Ce lo ricorderemo questo inverno 2012, così come ricordiamo quello del 1956 o quello del 1985. Eventi eccezionali. E senza star qui a riflettere se queste eccezionalità finiranno per diventare regola nel marasma climatico che abbiamo innescato, torniamo al concetto di notizia. Perché sabato scorso i notiziari nazionali hanno dato risalto a una notizia che è la negazione della regola del perfetto cronista: un lupo ha assalito un cervo. Il povero predatore, stremato da giorni e giorni di gelo e neve ed esasperato dalla carenza di cibo, ha fatto l’errore di seguire il proprio naturalissimo istinto a favore di telecamera. Ha avvistato il cervo proprio mentre transitava il fuoristrada di una troupe televisiva. In un altro momento si sarebbe dileguato, fedele all’indole schiva che tutti gli conosciamo. Ma la fame aveva argomenti più convincenti che la necessità di mantenere un basso profilo. Così il lupo ha aggredito il cervo con la dichiarata intenzione di cibarsene. Il cronista si è premurato di dire che le immagini erano troppo cruente per essere trasmesse. Quindi ci ha mostrato soltanto il cervo ferito e sconvolto dall’aggressione. La neve intorno era chiazzata di sangue, ma l’erbivoro era in buone condizioni mentre un veterinario si prendeva cura di lui. Il lupo, evidentemente costretto a mollare la preda, si è dato a una fuga disordinata che le telecamere hanno immortalato e riproposto in più edizioni. Dove la notizia evidente era che si sono ribaltati i canoni. Pur comprendendo le ragioni del cervo, che deve essere ben lieto di aver incontrato la troupe televisiva, un lupo che caccia in una valle intasata di neve fa parte di quegli eventi naturali cui non siamo più abituati. Mentre un lupo cui viene impedito di nutrirsi per mettere in salvo un cervo con tanto di soccorso veterinario immediato, racconta più di mille parole la nostra distanza dalla realtà. E spiega l’atteggiamento scomposto davanti all’emergenza maltempo. Perché non c’è niente come gli eventi naturali per sbatterci in faccia che il vantato progresso tecnologico non può metterci al riparo da una circolazione atmosferica impazzita. E che gatti delle nevi, mezzi spargisale, jeep quattro per quattro e indumenti termici nulla possono contro quei fiocchi inconsistenti e inesorabili che cadono per giorni. Che si accumulano, pesano, abbattono. È stato detto che l’emergenza neve una volta si chiamava inverno. Ma oggi la regola è questa: quando l’uomo aggredisce la natura, è normale. Quando la natura si prende la rivincita, è una notizia.

Laura Costantini

lunedì 13 febbraio 2012

I racconti del lunedi': La panettiera di Arquata

Scrissi questo racconto su richiesta di un'amica di Facebook e con l'occasione scoprii l'esistenza di Arquata e della sua storia. Vorrei visitarla, un giorno...



Piove. Non forte. Le gocce restano sospese, come impigliate allo spessore dell’aria. Perché l’aria è più spessa in questi giorni d’autunno e di ricordi. La nonna è morta. Avrebbe voluto spegnersi quassù, a metà strada tra cielo e mare. Ma oggi non si muore a casa propria. La nonna si è spenta a Genova, in ospedale. Oggi avrebbe compiuto 110 anni. Era andata oltre gli acciacchi dell’età, oltre l’usura del corpo. La nonna era un’anima distillata dal tempo prima ancora di lasciare il suo corpo. Un involucro che adesso è qui, ad Arquata. Ma non qui, dove sono adesso, dove lei avrebbe voluto essere. Le gocce di pioggia mi accarezzano come un tendaggio mentre percorro i vialetti del piccolo cimitero di guerra britannico. Il foglio che ho in mano si accartoccia di umidità ma resiste, come ha resistito per anni nella tasca del grembiule della nonna. L’inchiostro, come la nonna, ha travalicato il tempo. Seppia contro la carta ingiallita. La scrittura è larga, quella di una bambina. Chissà che fatica queste righe per la mano già greve di artrite.

Si chiamava Henry e io non lo capivo quando parlava. Avevo diciassette anni quando arrivò insieme a tanti altri ragazzi come lui. Venne per combattere la nostra guerra. Era alto, biondo, elegante. Aveva solo pelucchi sul labbro e occhi dello stesso colore del fiume quando la pioggia non dà tregua. Si muoveva come si muovono i padroni e per questo, lui e i suoi compagni, abitarono nel palazzo dei padroni, palazzo Spinola. Ma non era un padrone, Henry. Non lo mandavano a prendere il pane alla fornace della Vaie, se era un padrone. Io lavoravo al panificio militare. Impastavo farina e acqua. Me ne stavo dietro, lontana dai maschi. Il paese era pieno di maschi in divisa che parlavano parole strane, che non capivamo. Ma gli occhi, quelli, parlano la lingua di tutti. Henry mi guardava. Mi guardava sempre…

Alzo gli occhi dal foglio. La pioggia e’ una corona di perle trasparenti sui capelli, sul cappotto, sulle semplici croci del cimitero di guerra. Terzo corridoio, quarta fila. La nonna è stata precisa. Mi fermo e fisso l’iscrizione: Henry O’Brien 1899 – 1918. No, nonna, non era un padrone il tuo Henry. Era irlandese, figlio di una terra aspra e povera come la nostra. E il colore dei suoi fiumi quando la pioggia non dà tregua era lo stesso dello Scrivia. Figli di povera gente, lui come te. E chissà quante cose in comune avreste scoperto se non ci fosse stata la barriera della lingua, tra voi.

Mi guardava sempre. E mi aspettava lungo la strada dalla fornace a casa. Non si avvicinava mai. Camminava sul lato opposto della strada e si fermava finché non entravo in casa. Neanche una parola, neanche una carezza. Ma il paese ha fatto presto a sparlare della panettiera e del soldato. Mio padre mi prese a cinghiate e mi impedì di tornare alla fornace. Poi Henry prese la spagnola…

Che ironia. Partire per la grande guerra e morire di influenza in uno sperduto paesino a metà tra cielo e mare. Mi abbasso sulla croce e la sfioro con una carezza. L’ultimo desiderio di mia nonna. La carezza della panettiera per il soldato.

Laura Costantini

martedì 7 febbraio 2012

Oggi su "La Sesia": Siamo tutti reporter

L’ondata di freddo siberiano in Italia. La tragedia della Costa Concordia. L’alluvione di Genova. La strage di Utoya. A unire questi avvenimenti la presenza in Rete di video girati da coloro che li hanno vissuti in prima persona. Torna in mente un film di qualche hanno fa, “The Core” (il nucleo). Vi si immagina che il nucleo della Terra smetta di ruotare a causa di un avventato esperimento. Un gruppo di ardimentosi, che nei film non mancano mai, viene spedito al centro del pianeta per tentare di rimettere in moto il nucleo. Della spedizione fa parte anche un brillante scienziato, responsabile dell’avventato esperimento, il quale per tutto il tempo non fa che registrare in diretta gli appunti per la pubblicazione che ne trarrà. Succede che gli eventi lo portano all’estremo sacrificio. Chiuso in una capsula destinata alla distruzione, seduto su un ordigno nucleare, il nostro continua a registrare appunti finché non si rende conto della futilità della cosa. E allora comincia a ridere. Solo l’esplosione finale riuscirà a zittirlo. Il film è datato, altrimenti nella sceneggiatura non sarebbe mancato l’accenno alla volontà di postare su Youtube o Facebook la telecronaca diretta della discesa al centro della Terra. In una sceneggiatura di oggi, solo un’inopinata mancanza di campo (al centro della Terra può succedere) lo impedirebbe. Perché questo siamo diventati: spettatori delle cose che ci accadono. Non protagonisti, spettatori. Tutto viene filtrato attraverso l’obiettivo di un telefonino, tutto viene sublimato attraverso l’investitura giornalistica di un contributo su Youreporter. Ed è un rincorrersi tra professionisti della notizia e l’orda degli aspiranti reporter, sempre più numerosi e sempre più agguerriti. È un male? No, se si pensa che tante situazioni trascurate dagli organi di informazione possono salire alla ribalta dell’opinione pubblica. Sì, se succede che l’evento catastrofico, il rischio, la tragedia vengano vissute come mezzo per un guadagno personale. Ha scritto Marco Travaglio che in ogni italiano si nasconde uno Schettino. Ma gli è sfuggito che c’è di peggio. Il signor Zara era a bordo della Costa Concordia insieme alla sua famiglia. Ha vissuto in prima persona le tragiche ore del naufragio. Lo sappiamo perché il signor Zara, per tutta la durata del naufragio, non ha mai mollato la telecamera. I figli piangono? Lui li riprende mentre li consola. La moglie è sconvolta? Lui stringe l’inquadratura. La folla lotta per le scialuppe? Lui è lì a documentarlo. E mentre la scialuppa lo porta in salvo bordeggiando lungo la Concordia che si inclina, si sente Zara commentare: “Queste immagini me le vendo subito a Mediaset.” Per la cronaca, le ha vendute anche all’estero come neanche il più navigato dei paparazzi avrebbe saputo fare. Dovendo scegliere in chi identificarsi, forse l’irresponsabilità di Schettino è meno premeditata del fiuto affaristico di Zara.

Laura Costantini

lunedì 6 febbraio 2012

I racconti del lunedi': Cara mamma

Cara mamma,
da domani comincio uno nuova vita.
Lascia stare i piatti nell’acquaio, fermati e ascolta cazzo!
Si ho detto cazzo, e adesso siediti… dindolino, dondolò questa bimba a chi la do…

Cara mamma,
non riuscirai a comprendere ciò che sto per fare. Forse è soltanto il bisogno di essere diversa da te, dalla regina della casa, la regina del castello… o che bel castello marcondirondirondello…

Cara mamma, stai piangendo? Ti stai domandando in cosa hai sbagliato, di cosa voglio punirti?
Di avermi messa al mondo, cara mamma, di aver scelto che valesse la pena nascere e crescere in questa terra di pazzi, insulsi, inutili parassiti, attaccati alle cose come una tartaruga al carapace. Questa terra dove una come me non trova neanche uno straccio di buco in cui rintanarsi a leccarsi le ferite, ad invocare la fine. Un mondo di merda, un mondo del quale faccio parte.  Per colpa tua, mamma. Giro giro tondo casca il mondo, casca la terra, tutti giù per terra…

Cara mamma,
se davvero mi amassi saresti tu a togliermi questa cazzo di vita, Mi abbracceresti forte e con l’unico slancio di tenerezza di cui sei mai stata capace, mi lambiresti i polsi con una lametta. Mi canteresti una dolce ninna mentre il mio stupido sangue scorre via liberandomi, liberandoci da questa schiavitù. Ninna nanna mamma, portami con te, nel tuo letto grande solo per un po’, una ninna nanna io ti canterò, e se ti addormenti mi addormenterò…

Cara mamma,
tu non sai quanto mi sia impossibile e difficile e angoscioso il solo pensare a te. Ai tuoi lamenti, alle tue paure, a quella tua voce cantilenante che mi raggiunge ovunque, nel sonno e nella veglia, in salute e in malattia, in ricchezza e povertà… finché morte non ci separi. Quando, quando la morte verrà a separarci? Quando questo matrimonio ignobile, incestuoso, schifoso avrà fine? Ambarabaciccicoccò tre galline sul comò che facevano l’amore con la figlia del dottore, il dottore s’ammalò ambarabaciccicoccò…

Cara mamma,
come vorrei che quel tuo viso gonfio per lo sforzo del pianto, quella tua espressione attonita ti scoppiassero sulla faccia, tra rughe mendaci, scavate da una preoccupazione che era solo per te, per la tua squallida, inutile esistenza.
Perché mi hai voluta? Per compiacerti della tua capacità di procreare? Per dimostrare all’unico, povero, stupido maschio capace di sopportarti che bramavi il suo seme? Povero stronzo, mio padre.  Ottuso, incapace, illuso di poter creare qualcosa di positivo insieme a te.  Hai visto mio marito? Di che colore era vestito?

Cara mamma,
cosa c’è stato di positivo nella vostra vita? Nulla, nulla, nulla. Avete sottratto aria, e acqua e cibo e spazio ad altri. Siete stati un ingombro e tale avete creato me.
Vi maledico, e maledico i vostri genitori per avervi creati. Un ammasso di carne, di acqua e sangue schiavo di bisogni fisiologici e deleteri impulsi. Questa la vostra condanna. Questa la mia. Sette, quattordici, ventuno, ventotto, questa è la conta di paperotto…



Cara mamma,
continui a mescere aride lacrime da quei tuoi occhi bugiardi e chiedi pietà, chiedi il silenzio. E tu, tu ci hai mai fatto un simile regalo? Per un volta, una volta soltanto, hai tenuta chiusa quella cazzo di bocca lasciandoci il diritto di pensare, fare, baciare, lettera… testamento…

Cara mamma,
non sono pazza. La mia unica e sola ricchezza è la consapevolezza di quale grande sbaglio stavo per compiere.
Cara mamma, si, sono i tuoi ferri da lana e no, in nome di Dio, non mi fermerò. Mannaggia al diavoletto che c’ha fatto litigà, pace, pace e LIBERTA’

Loredana Falcone

venerdì 3 febbraio 2012

Io non faccio testo

Vi avviso, trattasi di post autoreferenziale, quindi potete evitare di leggerlo. Io pero' ho un riflessione da fare. Mi capita sempre piu' spesso, parlando con colleghi, amici, parenti e conoscenti, di sentirmi dire queste quattro parole, anzi, sei: si', ma tu non fai testo.
E allora mi piace riassumere le cose per cui, a detta di tutti, io non faccio testo:
- mai comprato un giornale o un libro per la copertina (ma non faccio testo);
- mai provata invidia per il successo di uno scrittore, amico o nemico che sia (ma non faccio testo);
- ritengo che l'alternanza delle stagioni sia essenziale per goderne al meglio (ma non faccio testo);
- ritengo che il sacrificio sia, in ogni campo, giusto viatico al conseguimento dei propri obiettivi (ma non faccio testo);
- mai usate le cosiddette armi femminili per farmi strada nella vita (ma non faccio testo);
- mai chieste o ricevute raccomandazioni sul lavoro (ma non faccio testo);
- ritengo che pagare le tasse sia giusto, necessario, anche bello si' (ma non faccio testo);

Potrei continuare, ma avete capito il concetto. E questo essere messa sempre fuori categoria non e' gratificante, perche' dietro il "tu non fai testo" c'e' un evidente sarcastico commento il cui significato spazia da "ma a chi vuoi darla a bere" a "povera mentecatta". Dice: va beh, ma a te che ti importa? A pensarci bene, niente. Ma anche in questo io non faccio testo.

Laura

mercoledì 1 febbraio 2012

Le antologie sono come le ciliegie, una tira l'altra: CRONACHE DALLA FINE DEL MONDO

BANDO DI CONCORSO

Ci dicono che il prossimo 21 dicembre il mondo per come lo conosciamo dovrà finire. E allora prepariamoci a modo nostro, immaginando quale potrà essere la fine o il nuovo inizio. Siamo dalle parti dell’utopia (per chi vuole vederla col bicchiere mezzo pieno) oppure della distopia (se siete dalle parti del bicchiere mezzo vuoto). Per una volta i padroni del destino siete voi. Potete immaginare scenari apocalittici, potete riscrivere grandi classici partendo da presupposti totalmente alieni a quello che siamo stati fino ad oggi, potete anche prevedere che non succederà assolutamente nulla. Lasciate andare la fantasia senza porre altro limite che la qualità di scrittura. Pronti?

Andiamo con le regole di partecipazione:

- il concorso è aperto a tutti;

- i racconti dovranno:
essere assolutamente inediti, sia in cartaceo che in digitale;
avere una lunghezza massima di 10.000 (diecimila) battute spazi inclusi, tolleranza zero per chi sfora;
essere presentati dopo un accurato e autocritico lavoro di editing, completi di titolo definitivo;
essere accompagnati da una breve ed esauriente autopresentazione (max 1000 battute, spazi inclusi);
essere corredati di indirizzo e-mail dell’autore.

- i racconti dovranno pervenire alla casella di posta elettronica cronachefinemondo@gmail.com  entro e non oltre il 30 giugno 2012. Ai concorrenti che hanno un profilo Facebook è consigliata l’iscrizione al gruppo preposto CRONACHE DALLA FINE DEL MONDO 21/12/2012, onde facilitare la comunicazione.

- tutti i racconti pervenuti verranno letti e selezionati dall’insindacabile giudizio di una giuria così composta: Laura Costantini (giornalista e scrittrice), Loredana Falcone (scrittrice), Francesco Giubilei (direttore editoriale Historica), Daniele Dell’Orco (caporedattore del sito www.scrivendovolo.it) e Paolo Melissi (scrittore e redattore di Satisfiction).

- la selezione porterà alla scelta di 21 (ventuno) racconti che entreranno a far parte dell’antologia “Cronache dalla fine del mondo 21/12/2012” edita da Historica (uscita prevista fine novembre 2012).

- ai ventuno autori selezionati verrà chiesta la cessione dei diritti tramite apposito contratto di edizione.


BUON LAVORO!