martedì 28 agosto 2012

Oggi su "La Sesia": Eppure il mondo è rimasto lo stesso



È successo domenica scorsa. Neil Armstrong, il primo uomo a calcare il suolo lunare è morto. Non era vecchissimo, 82 anni. Gli è stato fatale il quarto by-pass coronarico. Eppure il suo cuore aveva retto all’emozione più grande mai provata da essere umano. Lui, per primo, ha mosso un passo al di fuori del nostro pianeta. Chi c’era, quel 20 luglio 1969, fosse pure stato un pargolo, ricorda quell’eterna nottata in diretta, in attesa dell’allunaggio. Domenica, nel dare la notizia della scomparsa dell’astronauta simbolo di tante speranze, un po’ tutti i media si sono dilungati sulle aspettative enormi che quell’evento scatenò nel mondo. Era l’entrata ufficiale nel futuro, era la fantascienza che si faceva realtà. Ci aspettavamo moltissimo. Immaginavamo un domani di navette che facevano la spola tra la Terra e la Luna, basi lunari con affascinanti astronaute, viaggi interstellari a velocità di curvatura. Ci aspettavamo che quell’impronta sulla sabbia grigiastra della Luna ci rendesse, per magia, tutti migliori. Perché l’assioma era: se siamo arrivati lassù, allora possiamo sconfiggere le malattie, possiamo eliminare la fame nel mondo, possiamo conquistare uguaglianza, libertà, giustizia sociale. Possiamo. Era questa la parola chiave. Una parola che quarantatre anni hanno lentamente eroso e depotenziato. Ha voluto usarla Obama per la sua campagna elettorale del 2008: yes, we can. Sì, possiamo. Ma neanche lui, in realtà, ha potuto granché. Così, mentre si diffondeva la notizia della morte di Neil Armstrong lo sguardo tornava a terra. Un effetto che GoogleEarth renderebbe bene: lo spazio, il pianeta Terra e poi una vertiginosa zoomata fino alla superficie. Per scoprire che nella Siria dello scontro tra l’esercito di Bashar al Assad e le forze ribelli i morti si contano a migliaia, compresi vecchi, donne e bambini. Che negli Stati Uniti c’è un uomo politico per il quale neanche un legittimo (legittimo?) stupro può giustificare un aborto. Che nel Cairo del dopo Mubarak bande di ragazzini aggrediscono, insultano e picchiano le donne in strada. Che nella civilissima Italia una donna che denuncia uno stupro avvenuto in un parco cittadino della capitale viene guardata con sospetto. Perché, e citiamo testualmente le parole del cronista: “Sono quelle sere in cui la vita non ti fa sconti, ma lei l’ha realizzato troppo tardi. Altrimenti non avrebbe ingaggiato una stupida lite… con l’uomo che… l’aveva strappata a un’esistenza fin troppo randagia. Altrimenti non si sarebbe precipitata per le scale… per andare a rimuginare su una panchina di un parco spelacchiato, all’una di notte, dove il suo carnefice l’aspettava.” Quarantatre anni fa eravamo tutti lì a guardare il cielo col fiato sospeso, convinti che quel piccolo passo nella sabbia lunare fosse, come ci disse Armstrong con efficace retorica, “un grande balzo per l’umanità”. Quarantatre anni dopo è la Luna a guardarci e a vederci come ci ha sempre visti: piccoli, litigiosi, incorreggibili.

Laura Costantini

mercoledì 22 agosto 2012

Soggettiva di ZG: La neve in tasca di Patrizia Di Donato


Le antologie raramente hanno mercato. Soprattutto se l'antologia raccoglie racconti di un'autrice che non è famosa. Eppure questo libro meriterebbe una ben maggiore visibilità. Sei racconti uniti dal tratto comune di una sensibilità femminile che smentisce le note accuse di autobiografismo e sentimentalismo che vengono mosse alla scrittura delle donne. Qui troviamo ironia, troviamo il graffio della realtà e la dolcezza della memoria. Troviamo un racconto di sé, anche, che si eleva al di sopra dell'autobiografismo e si traduce in condivisione. Ma tutto questo non basta a raccontare la bellezza di questa scrittura, la cura dello stile, la densità delle singole parole e la volontà dell'autrice di mettere alla prova il lettore, costringendolo a rileggere, riflettere, osservare, capire anche quello che viene volutamente sottaciuto. Ecco, il pregio, uno dei pregi di questo piccolo volume, è di non voler essere facile e accattivante pur nella sua semplicità, pur nella simpatia dei personaggi delineati, pur nel permettere al lettore di riconoscersi. La scrittura di Patrizia Di Donato è poesia in prosa. E' estremamente lirica, a volte, ed estremamente sferzante, altre. Merita. Anche per lo squarcio che apre sul passato recente, sulla gente d'Abruzzo, sull'emigrazione, sulla condizione della donna e delle donne di quel tempo. Lasciatevi ammaliare. Non ve ne pentirete.

P.S. Unico appunto: a me la copertina non piace. La trovo fuorviante.
ZG

martedì 21 agosto 2012

Oggi su "La Sesia": In morte di uno di noi


N.B. Questo articolo è stato scritto immediatamente dopo l'uscita della notizia.
Il lancio d’agenzia è scarno. Poche righe affidate, nei telegiornali di domenica scorsa, alla voce dei conduttori. Angelo Di Carlo è morto. Un nome, un numero. Aveva cinquantaquattro anni e le foto sui quotidiani online lo ritraggono sorridente: baffoni da pirata, stempiatura importante e una coda di capelli scuri, da irriducibile. Da uno che non si rassegna alla calvizie, figurarsi alle avversità della vita. Eppure. Una notizia breve in un rosario di disgrazie: la crisi che brucia migliaia di miliardi, il rientro da bollino rosso che brucia carburante al prezzo di champagne, la stangata prossima ventura che brucerà gli stipendi di chi ancora un lavoro ce l’ha, l’anticiclone Lucifero che brucerà l’ultimo (si spera) scampolo di un’estate rovente, i piromani che bruciano boschi, riserve naturali, campeggi e parchi cittadini. In tutto questo bruciare si perde la morte di Angelo Di Carlo, che di fuoco è morto. Romano d’origine ma da anni residente a Forlì, Angelo era vedovo. Nelle poche righe disponibili la sua vita appare snocciolata come la scaletta di un tg: perse la moglie, perse il lavoro, era in lotta con i fratelli per una questione di eredità. Storia di tanti e forse per questo facile da riassumere senza alcuna specifica. Che lavoro faceva Angelo? Era un operaio, recita l’Ansa. Altri aggiungono che da tempo era in lotta con la precarietà. Aveva l’età giusta per appartenere a quella generazione che è cresciuta col mito del posto fisso per poi scoprire di essere arrivata a festa ormai conclusa. In ritardo su tutto e col dovere di accettare il diktat della flessibilità, dei co.co.co, dei contratti a progetto e della disoccupazione. E se ti ritrovi senza un lavoro a cinquantaquattro anni, che flessibilità vuoi sfoderare? Come fai a reinventarti? Angelo era uno di noi, uno dei tanti. Aveva anche un figlio e quelle poche righe del lancio d’agenzia ci indugiano sopra con accanimento giornalistico: al figlio ha lasciato una lettera in uno zaino e un’eredità di 160 euro. Forse è questo che ha pensato Angelo quando, tornato nella sua Roma, ha raggiunto la piazza davanti alla Camera dei Deputati e si è dato fuoco. Forse ha realizzato, durante il tragitto o mentre si cospargeva di liquido infiammabile, che quello fosse il valore di tutta una vita: centosessanta euro. Poi, quando le fiamme lo hanno avvolto, ci piace illuderci che abbia smesso di pensare, che abbia smesso di essere cosciente dello scempio che si era inflitto. A soccorrerlo, spegnendo le fiamme con un estintore, sono stati i carabinieri che vigilano su Montecitorio. Ma le ferite erano troppo gravi e dopo otto giorni di agonia, Angelo Di Carlo ha raggiunto lo scopo che si era prefisso: arrendersi. Un gesto eclatante, ma non sminuiamolo elevandolo a simbolo. La morte di Angelo ha un valore perché è la sua. Perché gli ha ridato un nome e un volto, dopo l’anonimato disperante nella folla di precari, disoccupati e disperati che stiamo diventando.

Laura Costantini

lunedì 13 agosto 2012

Se l'università deve a tutti i costi diventare privilegio


Hanno proposto di aumentare le tasse universitarie in base al reddito. 
Hanno proposto di aumentare le tasse universitarie anche in proporzione agli eventuali anni fuori corso. 
Hanno proposto di mettere il numero chiuso a tutte le facoltà per evitare un surplus di laureati inutili (come se ne avessimo troppi. Noi?). 
Hanno messo test di ingresso ad alcune facoltà, test a pagamento, ovviamente. 
Vogliono, dicono, ridare valore alla laurea. E garantire ai privilegiati, che riusciranno a superare i test di ammissione e a mettere insieme i soldi necessari per arrivare alla fine del corso di studi, un posto di lavoro.
Io mi ricordo che negli anni del liceo classico, studiando, dibattendo, partecipando ad assemblee e quant’altro, mi venne spiegato che nel paradiso rosso dell’Unione Sovietica (c’era ancora chi lo considerava così), a tutti era consentito di accedere all’istruzione universitaria. Ma che c’era un limite oggettivo: se non servono ingegneri, ma medici, tu studi medicina. Se non servono medici, ma agronomi, tu studi agraria.
Ricordo che tra i mille difetti che già allora mi apparivano evidenti nella dittatura del proletariato, questo mi sembrava uno dei peggiori
Mi piaceva scrivere, già allora. Anzi, già da prima. Per questo dopo le medie scelsi il classico. E feci il liceo classico pensando alla facoltà di Lettere. 
State sogghignando? Beh, sogghignavano anche allora. Erano i tempi in cui andava per la maggiore Economia e Commercio e un buon 70% dei miei compagni di maturità si indirizzarono verso dichiarazioni dei redditi e partita IVA. Io no. Io tenni duro. Mi dissero: che ci fai con la laurea in Lettere? Di insegnanti ce ne sono anche troppi e poi guadagnano una miseria. Vero, ma io non volevo neanche fare l’insegnante. Io volevo scrivere. Non che la facoltà di Lettere avesse un corso di scrittura, ma volevo studiare le materie che mi sentivo e mi sento affini: storia e letteratura.
Sebbene viga, ancora oggi, la inveterata convinzione che una laurea in Lettere sia praticamente regalata, un percorso da bamboccioni pigri, fu dura.
Gli esami erano 20, all’epoca. Non c’erano crediti. C’erano libri da studiare, una marea di libri per ogni esame. Ricordo la prima annualità di storia dei partiti politici, docente Paolo Spriano. Dodici volumi dodici, nessuno al di sotto delle 200 pagine, molti al di sopra. Ricordo i seminari: di latino medievale con Raul Manselli; di storia moderna con testi in spagnolo, docente Rosario Villari. Ricordo la passione per la storia dell’India e dell’Asia centrale e quella per storia della Russia e dell’Europa centrale. Ricordo una sfilza di 30 e lode, di 30, un 29 e un 27 (storia contemporanea con Giuliano Manacorda) che tentai invano di rifiutare. Ricordo la passione. Ricordo la delusione quando un infarto, credo, si portò via Paolo Spriano e la tesi che avrei voluto chiedergli. Tutto da rifare.
Fuori corso? Sì, senza vergogna alcuna lo ammetto. Ma mi sono laureata con 110 e lode in storia del Risorgimento con una tesi su Giuseppe Rovani, giornalista e scrittore della Scapigliatura nella Milano del 1870. Relatore Giuseppe Monsagrati.
Rifarei ogni singolo esame. Li ho amati tutti, nonostante mi abbiano fatto sudare. Il giorno dopo essermi laureata, andai a sostituire per il periodo estivo un portiera in un condominio romano. Sapevo che volevo scrivere e scrissi, non ho mai smesso. Intanto facevo la precaria portalettere, la precaria impiegata allo sportello, la venditrice di libri porta a porta, l’agente assicurativo a provvigione, la segretaria in una tipografia e la dattilografa a cottimo in un’altra. Dovevo battere per la stampa offset testi in spagnolo e il latino.
Dice: e la laurea a che ti è servita? A essere quella che sono, con un bagaglio culturale di tutto rispetto nell’attesa dell’occasione buona. Arrivò con un corso di giornalismo finanziato dalla Comunità Europea. Una borsa di studio. Sostenni l’esame, lo passai. Iniziarono gli stage, le collaborazioni. Iniziò tutto quello che mi ha portata, oggi, a fare esattamente quello che volevo fin dai tempi delle medie.
Non volevo studiare Economia e Commercio. Non l’ho fatto, a mio rischio e pericolo. 
Ritengo ingiusto imporre una strada a coloro che si sono appena maturati. 
Ritengo ingiusto alzare il costo dell’istruzione. 
Ritengo ingiusto punire chi si trovi fuori corso. 
Ritengo ingiusto ritenere un corso di laurea un ufficio di collocamento. 
La laurea non può e non deve garantire un posto di lavoro. Deve essere, prima di tutto, accrescimento personale. E deve essere alla portata di tutti perché l’istruzione è un diritto, non un percorso a ostacoli per famiglie danarose. La meritocrazia, sacrosanta, non si ottiene punendo chi va fuori corso, oppure mettendo sbarramenti all’accesso in facoltà. Perché non saranno i più bravi a entrare, ma i più ammanicati. Lo sappiamo tutti e allora perché non dircelo chiaramente?

domenica 12 agosto 2012

Soggettiva di ZG: Cinquanta sfumature di grigio di E.L.James


Ebbene sì, l’ho letto il famigerato 50 sfumature di grigio. Me lo sono sciroppato in un paio di pomeriggi. Devo dire che mi è bastato poco per capire in che zona ci trovassimo mentre ne scorrevo le pagine. Intanto, tranquille, quello che ci viene raccontato è sesso alla vaniglia, con buona pace del confuso, tenero, indifeso mister Gray. L’operazione “confezioniamo una bella trappolona da lettrice annoiata” è perfettamente riuscita e cercherò, pur senza addentrarmi in meandri psicologico e antropologici che non sono il mio pane quotidiano, di analizzarla sotto vari aspetti.
Intanto la nostra E.L.James è chiaramente debitrice della Meyer e dei suoi vampiri di Twilight. Mister Gray ci viene descritto come bellissimo (dio santo, quante volte ce lo ripete durante la narrazione, e ogni volta con il tono da “ma vi ho già detto fino a che punto è fico questo?”), ricchissimo, misterioso, pericoloso. Esattamente come Edward Cullen con il quale condivide capelli dal colore astruso (biondo con riflessi assortiti Gray, bronzo Cullen) e sguardi che inchiodano la preda. La quale preda, in entrambi i casi, è una giovincella tutto sommato anonima che le due autrici si sforzano di descrivere come ignara della sua bellezza e del fascino che sa sprigionare. Potremmo discutere per ore di che tipo di fascino ascrivere a Bella o alla qui presente Anastasia Steele. Potremmo semplificare affermando che le autrici hanno voluto in qualche modo riscattare la donna normale rendendola capace di irretire fino al completo rincoglionimento sentimentale uomini che non devono chiedere. Mai. Resta il fatto che il plot di 50 sfumature è la fotocopia esatta di migliaia di altre storie, da Cenerentola a salire, passando per Jane Eyre con puntatine salgariane (avete presente Marianna con Sandokan oppure Honorata col Corsaro Nero?). Lui è bello, è irraggiungibile, ti schianterà il cuore, spesso ha anche dei difettucci niente male (Sandokan è un ribelle; il Corsaro Nero è un delinquente; Edward ha un tipo di appetito che può nuocere gravemente alla salute; Christian Grey, bene che vada, ti fotte senza pietà dopo averti preso a cinghiate le chiappe). E cosa c’è di meglio, di più appetibile per la verginella di turno? Qui siamo oltre la sindrome della crocerossina. Io ti salverò, certo, ma soprattutto io ti cambierò. Guarderò nel tuo mistero, nel tuo tenebroso passato, nei tuoi precedenti penali, nella tua stanza delle torture perché sono curiosa come una scimmia. E ne uscirò indenne e trionfatrice. Perché tu, maschio fascinoso dallo sguardo magnetico, un lato buono ce l’hai. Non lo sai, ma ce l’hai. E io te lo tirerò fuori. Poi, certo, se nel corso dell’impresa tiro fuori anche qualcos’altro… ben venga.
L’idea geniale di E.L.James è che dopo la forzata (ma quanto erotica) castità imposta dal vampiro Cullen alla vogliosa Bella, era ora di darci dentro alla grande. E allora eccolo qui Mister Gray, il cucciolo mal riuscito del marchese De Sade. E’ bello (ancora?), è sexy ed è, ovviamente, superdotato. Dichiara che lui non fa l’amore, lui fotte senza pietà. Ricarica l’arnese tipo quindici volte per notte e Anastasia, che fino a due minuti prima era vergine e inesperta, diventa un’assatanata da manuale delle fantasie erotiche (verrebbe da dire maschili, ma a quanto pare i tempi cambiano). Gli orgasmi non si contano mentre Gray minaccia regole e limiti assoluti e Anastasia si gode il momento (chiamiamolo così) e procrastina la firma del contratto. Gray ha, per sua stessa ammissione, 50 sfumature di tenebra nel petto (unica parte del corpo che non gli si deve toccare, pena sfuriate e cinghiate, tutto il resto sì, e vorrei vedere) e sono certa che nel resto della trilogia capiremo anche perché sono proprio 50 e non 45. Il problema, perché c’è un problema, è che il trappolone narrativo funziona se si ha voglia di una lettura frivola, disimpegnata e rassicurante. Sì, rassicurante. Perché Christian Gray come Dominatore fa veramente pena e solo quella stordita di Anastasia può continuare a nutrire dubbi sul fatto che può disinnescarlo in qualsiasi momento. Posto che veramente innescato sia. Il fatto che sia una donna ad aver immaginato tutto questo è evidente. E non per la pruriginosità alla vaniglia e la capacità quasi soprannaturale di Gray nell’eccitare una donna e farla godere con la sola imposizione della più tenera delle sculacciate. A una donna, e non chiedetemi perché, piace immaginare un uomo irraggiungibile, un uomo potente, un uomo bellissimo e apparentemente cattivo, crudele, perfido. In una parola: stronzo. Per poi plasmarlo come creta, scavarlo e scoprire che in realtà è solo una tenera anima ferita, un bimbo abusato, un adolescente torturato. Un cucciolo indifeso, a dispetto di frustini e del potere, che aspetta solo di essere salvato dall’eroina di turno.
Operazione riuscita, signora E.L.James e, se è tutta farina del suo sacco, complimenti per l’idea. Ma io mi fermo al grigio. Il nero e il rosso me li risparmio volentieri.

venerdì 10 agosto 2012

I miei articoli su "La Sesia": Il dipendente che si ammala è perduto


È capitato a ciascuno di noi il collega furbo. Quello che i diritti conquistati in anni di battaglie sindacali li usa per far rimpiangere al datore di lavoro i tempi di Kunta Kinte. Il problema è che di colleghi furbi alla fine ce ne sono stati, e ce ne sono, talmente tanti da rendere necessaria una frenata brusca. Ed è a questo punto che noi, lavoratori normalmente produttivi, ci rendiamo conto che quelle furbate ci hanno danneggiato. Tutti. Capita, anche a fronte di un’estate con temperature record, di sentirsi male. Una banale infezione, un bel febbrone aggravato dalla gara tra temperatura interna e bollore esterno. Ed è qui che comincia la nostra odissea. Mettiamo di lavorare per una grande azienda da migliaia di dipendenti. Mettiamo che sia arrivata da poco una circolare di una cinquantina di pagine sulle nuove procedure per comunicare la malattia. Mettiamo che in soldoni si tratti di mettersi al computer e, nonostante il febbrone, mandare un’e-mail in burocratese all’ufficio del personale annunciando che si è malati e che ci si appresta a consultare il medico per poi comunicare il numero di protocollo del certificato telematico. Fatto. Mettiamo che poi chiamiamo il medico che, febbrone o non febbrone, ci vuole nel suo studio. Bene, ci mettiamo in macchina, cerchiamo parcheggio, lo troviamo distante, ci facciamo una bella scarpinata sotto il sole cocente. Il medico si guarda bene dal visitarci. Si chiama diagnosi a colpo d’occhio: tre giorni di antibiotici, solo due di prognosi. Fatto. Si torna a casa, ci si rimette al computer. Il febbrone è sempre lì, ma il numero di protocollo parte alla volta dell’ufficio del personale e adesso siamo liberi di buttarci nel nostro letto di dolore con una borsa del ghiaccio in fronte. Mettiamo che però la febbre non se ne vada e che allo scadere del secondo giorno di prognosi l’idea di tornare a lavoro sia da escludere a priori. Chiamiamo il medico. Ancora la febbre? Bene, venga a studio e poi vediamo. Mettiamo che siate lì, con un’invettiva pronta a partire e che il telefono squilli. Chiamano dal lavoro. L’ufficio del personale è imbufalito perché non ha ricevuto comunicazioni. L’invettiva si ingigantisce mentre spiegate e scoprite una situazione fantozziana: l’indirizzo e-mail del personale fa parte di una rete aziendale che accetta solo comunicazioni da un altro indirizzo aziendale. Detto in parole povere: che vi ammalerete lo dovete sapere prima di lasciare il posto di lavoro, in alternativa, tornate a lavoro, mandate l’e-mail aziendale e poi riguadagnate il letto di dolore. Tutto chiaro? Intanto siete tornati dal medico il cui sguardo dice: ma guarda, questa qui sta male sul serio, non voleva farsi le ferie a spese dell’Inps. E vi concede altri due giorni. Morale: la prossima volta che incontriamo un collega furbo, guardiamolo in cagnesco. Perché è colpa sua se oggi anche una semplice febbre estiva diventa un’odissea.

Laura Costantini

martedì 7 agosto 2012

Se il protagonista è bello, ovvero dei pregiudizi maschili sulla scrittura femminile


Cominciamo dall’inizio. Correva l’anno 2009, se non vado errata, e chiesi a un mio amico scrittore e giornalista se aveva voglia di presentare un nostro romanzo. Accettò. Lo lesse. Mi disse a chiare lettere che non gli era piaciuto. In sede di presentazione lo paragonò a Dallas e Dinasty perché si trattava di una saga familiare. Ma l’appunto principale fu: “Questi so’ tutti belli come protagonisti dei fotoromanzi!”. Se considerate che delle due donne protagoniste una era storpia e sulla sedia a rotelle. Se considerate che spesso i lettori ci hanno chiesto una maggior descrizione dei personaggi. Se considerate che il tema fondamentale di quel romanzo era la violenza familiare, l’incesto, la vendetta e il perdono, magari vi fate un’idea del pregiudizio alla base di quel parere. Anche perché l’amico scrittore ha a sua volta scritto romanzi dove ci sono donne molto belle e maschi molto fichi.
Oggi si parla moltissimo di “50 sfumature di grigio”. Non l’ho ancora letto. Me lo hanno prestato, ce l’ho a casa. Ma ancora non mi decido. Però ho letto un sacco di recensioni. Tutte di donne, tutte negative, a dimostrazione che ci sono anche femmine che non vanno in calore al pensiero di farsi frustare. Uno degli appunti mossi nei commenti (maschili) a queste recensioni è che il protagonista, Mister Grey, è un fico della madonna. E pare che questo immaginare maschi apollinei, ancorché armati di frustino e pronti a imporre un dilatatore anale, a) sia caratteristica tutta femminile, b) dia molto fastidio al maschio medio che magari userebbe pure i due attrezzi di cui sopra, ma di sicuro di apollineo ha ben poco. Succede anche che io abbia appena finito di leggere un gran bel romanzo: “Canale Mussolini”. Che c’azzecca? Ci arrivo subito. Siamo, credo, tutti d’accordo che Antonio Pennacchi sia quanto di più distante da Liala si possa immaginare. Sarei anche dell’idea che sia rigorosamente eterosessuale. Eppure nel suo libro le descrizioni di omaccioni fascistissimi e fascinosi si sprecano. I Peruzzi, la famiglia di cui ci racconta le gesta, ha la prerogativa di generare una miriade di figli. Le femmine sono quasi ininfluenti (l’unica di cui ci parla è Bìssola, la più stronza di tutte, mai veramente descritta), mentre i maschi... Ne nascono in alternanza uno biondo biondo e uno moro moro. Tutti dotati di occhi azzurri, spalle possenti, lombi scolpiti, schiene muscolose e sudate come in un calendario dei Village People. Non solo, a una delle donne (Armida, anche lei biondissima, con tettoni sodi che ama farsi “morsegare”) basta passare una spugna su una di quelle maschie schiene per bagnarsi tutta. E non aggiungo altro. Ora, se Pennacchi di nome facesse Antonia, ve lo immaginate che putiferio si sarebbe scatenato sulla scrittrice che elargisce materiale onanistico a lettrici sessualmente insoddisfatte? Mentre, a quel che ne so, visto che Pennacchi è decisamente un Antonio, nessuno ha trovato da ridire su questo proliferare di uomini da paginone centrale di Playboy. Faccio un altro esempio. Maurizio De Giovanni è uno degli scrittori che amo di più, oltre che un caro amico. Di lui ho letto l’opera omnia, come suol dirsi. Ebbene, il suo commissario Ricciardi (protagonista di una fortunatissima serie oggi pubblicata da Einaudi Stile Libero, ve la consiglio caldamente) è uomo che farebbe innamorare qualsiasi donna: alto, magro, sofferto, volto affilato, ciuffo folto sulla fronte, occhi verdi e trasparenti come schegge di smeraldo. Fosse figlio di un’autrice, staremmo tutti lì a parlare di personaggio da romanzetto Harmony. Per non parlare dell’ispettore LoJacono, protagonista de “Il metodo del coccodrillo” (Mondadori) sempre a firma De Giovanni: anche lui sofferto, moro moro, con occhi penetranti e dal taglio orientale. Non vuole essere una critica. Ho già detto che ritengo De Giovanni un grande scrittore, destinato a lasciare il segno. Voglio puntualizzare l’evidente tendenza a perdonare (posto che sia un peccato) allo scrittore l’enfasi posta sul protagonista. Mentre una scrittrice che ponga la stessa enfasi è, per forza di cose, una donnetta insoddisfatta della vita (sessuale, of course) e pronta a sognare uomini perfetti e inesistenti.
Di libri ne ho letti molti e mi viene da dire che nella rappresentazione letteraria della realtà, tutti gli scrittori (da Omero in poi, i suoi eroi omerici erano tutti omaccioni fascinosi) hanno sentito la necessità di fornire alle proprie creature una marcia in più. Perché protagonista viene dal greco e significa primo attore. E senza che ci siano in giro poi tante registe assatanate, sfido i pregiudizi maschili a trovare un protagonista, ovvero un primo attore, brutto da far schifo.

lunedì 6 agosto 2012

Soggettiva di ZG: Canale Mussolini di Antonio Pennacchi




Questo è un grande libro, un'operazione letteraria giusta. Ha ragione Pennacchi nel dire che si tratta del suo libro definitivo, che tutto quanto fatto in precedenza puntava a questo. L'ho letto solo ora, dopo parecchio che ce l'avevo e quando ormai tutta la cagnara post premio Strega si era finalmente esaurita.
L'ho letto con sommo piacere. Amo il lavoro di ricerca storica, un lavoro paziente, certosino, evidente eppure mai didascalico. Pennacchi ci ha restituito un'epoca difficile e controversa. E lo ha fatto partendo dalla storia minima, quella che tutti siamo chiamati a vivere, per poi approdare alla Storia con la S maiuscola. Certo, proprio lo stile narrativo scelto (la prima persona con un testimone che racconta a un ascoltatore che mai si appalesa) consente all'autore di cantarsela e suonarsela, dimostrando in qualche modo che le scelte politiche, quelle che poi fanno la differenza nella vita e nei libri di storia, spesso son frutto di circostanze che con gli ideali hanno ben poco a che vedere. Così un nonno diventa socialista perché gli frustano il cavallo, un'intera famiglia di socialisti diventa fascista perché Mussolini era simpatico e gli ripara l'erpice, due figli vanno in guerra perché il regime ha regalato loro i poderi nell'Agro pontino. E per lo stesso motivo un'intera famiglia aiuta i tedeschi a respingere l'avanzata degli alleati che, in fin dei conti, stavano bombardando proprio il loro podere. Un nipote finirà repubblichino per essere spedito lontano dall'amore proibito che lo ha incatenato. E' un'analisi impietosa, quella che ci regala Pennacchi, un'analisi che si può riassumere in una frase ricorrente: tutti hanno le loro ragioni. Le avevano gli abissini, che non ci volevano invasori della loro terra; le avevamo noi, che rispondemmo a quella rivolta con crudeltà, ferocia e gas micidiali; aveva le sue ragioni Mussolini, per allearsi con Hitler e condurci alla rovina; aveva le sue ragioni il Re per permetterglielo e poi defilarsi davanti alla disfatta. Lo sguardo che ne esce è disincantato eppure romantico, i personaggi che Pennacchi tratteggia sono a tutto tondo, indimenticabili. E la bonifica dell'Agro Pontino trova il suo cantore principe, perché fu un'impresa titanica, una delle poche cose di cui si possa ancora oggi ringraziare il ventennio. E, certo, le piante, la fauna, le zanzare e le rane sterminate avevano le loro ragioni. Ma la ragione che prevale è quella del più forte. Dove, ci insegna Pennacchi, il più forte sono il contadino, la sua tenacia e le sue donne. Indimenticabile la nonna nella sua granitica difesa della famiglia, indimenticabile l'Armida delle api che affronta un campo minato e vi partorisce un figlio della colpa e dell'amore assoluto. Da leggere.

ZG



domenica 5 agosto 2012

I miei articoli per "La Sesia": Il prezzo della rivoluzione industriale


Venerdì 27 luglio, attraverso gli schermi delle tv di tutta Italia, abbiamo assistito a due situazioni: la cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Londra e il blocco dell’intera città di Taranto da parte degli operai dell’Ilva. Della cerimonia di Londra è stato detto che è stata una delle più belle delle ultime edizioni, forse la più bella in assoluto. Dagli operai della più grande acciaieria d’Europa che tenevano in scacco Taranto ci è giunta la peggior dichiarazione di sconfitta mai pronunciata. Quella che sancisce il prezzo definitivo della rivoluzione industriale: “meglio morire di tumore che di fame.” Cosa lega questo meglio e questo peggio in un caldo venerdì di fine luglio? La concomitanza e un rapporto di causa – effetto. Durante la splendida cerimonia londinese la magia degli effetti speciali ha fatto fiorire dal verde impareggiabile della campagna inglese svettanti, oscure ciminiere. Il regista Danny Boyle ha voluto ripercorrere la storia della Gran Bretagna e non si poteva prescindere dall’impatto devastante della rivoluzione industriale. Fu la forza del carbone, delle macchine a vapore, delle ciminiere a portare il Regno Unito in cima al mondo. E nessuno si oppose alla coltre di polvere nera che rese la campagna meno verde e il cielo meno azzurro. Si chiamava progresso. Ma le ciminiere di Danny Boyle venerdì erano di cartapesta, circondate dal tripudio di un intero stadio osannante. Le ciminiere dell’Ilva di Taranto sono reali. Reali come l’atroce verdetto emesso da un abitante della Zona Tamburi, il quartiere di Taranto detto anche “dei morti viventi”: “meglio morire di tumore che di fame.” Sono passati due secoli dall’avvio della massiccia industrializzazione del pianeta e la contraddizione tra sviluppo e tutela dell’ambiente è ferma ai tempi dell’Inghilterra dickensiana. A Taranto lo chiamano “il minerale”. È la polvere che cala dagli scarichi delle ciminiere. A volte rosa, a volte scura, sale in alto portata dai vapori della lavorazione dell’acciaio, dal calore degli altoforni, poi scende a posarsi sui giardini, sulle strade, sui panni stesi, sulle coltivazioni, sulle persone. La gente lo sa. Le donne spolverano via quella polvere tutti i giorni, più volte al giorno. Ma è una lotta persa in partenza. Perché, proprio come accadeva nell’Inghilterra delle prime fabbriche, respirare quei fumi, quelle polveri, era il prezzo da pagare per mettere a tavola il necessario. Le voci che salgono dalla Zona Tamburi si possono idealmente sovrapporre a quelle degli operai inglesi dell’Ottocento. Racconta una casalinga di Taranto: “Il dottore mi ha chiesto dove lavoro, perché i miei polmoni sono neri come il carbone. Ma non mi importa, la fabbrica deve rimanere aperta.” Non è una voce isolata, il coro è pressoché unanime. Certo, l’Ilva andrebbe risanata. Ma se l’alternativa al minerale che li intossica è la disoccupazione, gli operai di Taranto non hanno dubbi: nell’anno domini 2012, meglio morire di tumore che di fame.

Laura Costantini