domenica 30 settembre 2012

Cronisti cronici apocalittici: Carlotta Borasio

E' la volta di una signorina dalla bellezza eterea, ma non lasciatevi ingannare. E' un consiglio da amica...

CARLOTTA BORASIO


Dice di sé:

Carlotta Borasio nasce a Torino nel novembre del 1986. 
Vive per un po’ a Cantalupa, piccolo paese nella provincia di Torino. Poi con gioia della famiglia se ne va a Torino. Si laurea in Lettere e prosegue con la magistrale in Culture Comparate. Collabora dal 2008 con la Las Vegas edizioni in diversi ruoli (tranne quello dell’attaccante); contribuisce alla fondazione dello Starbooks, blog collettivo sui libri; organizza per due anni Vento Letterario, fiera dell’editoria indipendente di qualità. 
Ama leggere, le serie TV, i focaccini di Mammabaila, cucina muffin al cioccolato molto buoni (anche le crepes non sono male); dice che va in palestra ma poi non lo fa; dice che non scrive ma poi lo fa; è fidanzata con Andrea Malabaila, sindaco di Las Vegas (edizioni), scrittore per vocazione, editore per follia, juventino di segno zodiacale. Carlotta ha un blog di cui ogni tanto si ricorda http://camphortree.altervista.org/ e una pianta di salvia di cui si scorda sempre.  

Diciamo di lei:

E' piccola di stazza, ma anche le vespe lo sono. E fanno male, se vogliono.
Può sviluppare improvvise allergie (specie durante le fiere librarie) così come improvvisi entusiasmi. Come barista dello Starbooks Coffee ha la pazienza di un certosino (non il gatto, il frate). Come personcina... fossi in voi non la metterei alla prova. Di sicuro ha un nucleo dolcissimo (lo dimostra il racconto apocalittico "Il giorno in cui Camilla ed Ettore salvarono il mondo"), ma il mantello roccioso che lo nasconde è pressoché inattaccabile. E non lasciatevi ingannare dallo sguardo ceruleo, se andate a fondo, trovate l'acciaio.


venerdì 28 settembre 2012

Cronisti cronici apocalittici: Giovanni Stoto

Comunicazione importante: abbiamo scoperto solo ieri che tra i 25 autori delle "Cronache dalla fine del mondo" si nasconde un affermato autore della Rizzoli, Gianmarco Perboni. Ci dicono che Perboni è uno pseudonimo e quindi tra noi potrebbe usare il suo vero nome. Non si appaleserà neanche sotto tortura, ci aridicono, ma nulla vieta che noi si cerchi di scoprirlo. Quindi, se avete indizi, parlate!
Comunque, di sicuro il Perboni non si cela dietro l'identità di

GIOVANNI STOTO


Dice di sé:
Nato a Napoli il 13 giugno 1973, si trasferisce a Latina all'età di 4 anni, a Roma all'età di 26, quindi a Bruxelles all'età di 28 per poi tornare a Roma (per amore di quella stella che diverrà sua moglie) all'età di 36 e definitivamente a Latina nel maggio 2012, all'ancor giovane età di 39 anni. Ingegnere Informatico per necessità di pecunia (ha lavorato per NATO, UE ed ora per FAO), ai bit preferisce la moto, il mare, le immersioni, la fotografia, le auto, la lettura e scrivere poesie. Ha scritto tre soli racconti in tutta la sua vita: Game Over, pubblicato in una raccolta come tra i migliori finalisti di un Premio Grinzane Cavour di cui ha perso memoria; Uno scalino al giorno, che nessuno ha mai letto; Le cose da salvare, per la presente antologia, si dice mentre fosse in ospedale con la broncopolmonite ed usando un semplice smartphone da 4 pollici. Seguitelo nel suo blog http://thegios.blogspot.com, dove laconicamente armonizza l'amore per tutte le sue passioni, bit esclusi.
Diciamo di lui:
Vanitoso, ipertatuato, palestrato, ispido e burbero per rientrare nel personaggio. Ha seri problemi a capire da che parte stare in politica, gode nella provocazione. Ma è come Jessica Rabbit, non è cattivo, è che lo disegnano così. In realtà, tolte moto, auto veloci, borchie e quant'altro, è un tenerone innamorato come uno scemo della propria moglie alla quale dedica poesie che smentiscono ogni suo tentativo di apparire un duro. Anche il suo racconto, "Le cose da salvare", rivela molto più di quel che vorrebbe.



giovedì 27 settembre 2012

Cronisti cronici e apocalittici: Alessandro Bastasi

Apriamo con questo post la serie di presentazioni dei 25 autori (anzi 26) che sono stati selezionati per la nuova antologia di Historica Edizioni "Cronache dalla fine del mondo - 21 dicembre 2012" e partiamo con un pezzo da novanta.

ALESSANDRO BASTASI




dice di sé:

Nato a Treviso il 21 ottobre del 1949. A 27 anni si è trasferito a Milano, dove attualmente vive e lavora.
A Venezia aveva recitato al teatro Ridotto con il mitico Gino Cavalieri. Ha poi continuato a calcare le scene, ultima partecipazione nell’atto unico Virginia  (2010) di Giuseppe Battarino e altri.
Ha scritto articoli di argomento teatrale per riviste del settore (Sipario, La Ribalta) e per il quotidiano La sinistra.
La permanenza in Russia dal ‘90 alla fine del ‘93 gli ha dato materia per il suo primo romanzo, “La fossa comune”, pubblicato nel 2008 da Zerounoundici edizioni.
Ha dato poi seguito alla passione per la scrittura con i noir “La gabbia criminale” (2010) e “Città contro” (2011) pubblicati da Eclissi Editrice.
Nel 2012 MilanoNera Edizioni ha pubblicato in ebook il suo racconto “Ologrammi”.
In agosto 2012 il Manifesto lo ha ospitato con il racconto “La caduta dello status” nella rassegna “Resistenze noir”.
Altri racconti in antologie e siti letterari.

Diciamo di lui:

Il suo racconto si intitola "Cronaca di un'Apocalisse annunciata" e, per ammissione dell'autore, è blasfemo un bel po'. Ma lui è una garanzia di originalità, basta leggere i suoi romanzi e ve ne accorgerete. Ha passato la perfida e impietosa selezione con la stessa facilità con cui Pantani affrontava le salite. Come dite? Pantani era dopato? Beh, anche Bastasi lo è: lui si dopa con l'amore per la scrittura.



mercoledì 26 settembre 2012

La fine di un sogno


Sabato scorso lo Space Shuttle Endeavour ha compiuto il suo ultimo viaggio a dorso di Boeing 747. E ha chiuso un’era. Shuttle in inglese vuol dire spoletta, intendendo la parte del telaio che consente di tracciare la trama lungo l’ordito. Ed era esattamente questo che il progetto Space Shuttle ci aveva promesso con il primo, entusiasmante lancio del 12 aprile 1981. Un lancio trasmesso in diretta televisiva in buona parte del pianeta. Un buffo aereo dalle ali piccole e dai grossi razzi per scavalcare l’atmosfera. Un veivolo da 85 tonnellate eppure capace di venir giù dallo spazio planando come un etereo aliante. Lo shuttle prometteva di tessere un futuro dove si intrecciavano voli dentro e fuori l’atmosfera, dove si costruivano basi spaziali, dove lo sguardo fosse sempre puntato verso l’alto, verso l’esterno. Verso quelle che trentuno anni fa apparivano come le mai raggiunte “magnifiche sorti e progressive”. Poi ci siamo accorti di non essere diversi da Icaro. Di aver fabbricato ali troppo fragili per i sogni che dovevano sostenere. Supremazia politica ed economica, certo. Non dimentichiamo che nel 1981 la guerra fredda era ancora in corso, così come la mai conclusa sfida per lo spazio e il sogno bellico dello scudo spaziale. Ma fuori dalle stanze dei bottoni c’eravamo noi, che da bambini avevamo assistito allo sbarco sulla Luna. Noi che alla nuova frontiera vagheggiata da Kennedy ci credevamo ancora. Noi che eravamo cresciuti con le immagini di Star Trek, del comandante Straker che andava e veniva dalla Luna, di Spazio 1999. Noi che vedevamo in quei sette ardimentosi a bordo degli Shuttle i precursori di una folla di viaggiatori spaziali. L’illusione è svanita presto. Dopo soli 5 anni dal primo volo, il Challenger esplose in fase di decollo uccidendo l’equipaggio. Il sole aveva cominciato a sciogliere la cera sulle ali di quell’illuso di Icaro. Era il 1986. Alla Casa Bianca viveva Ronald Reagan. Sting cantava “Russians” sperando che i sovietici amassero i loro figli abbastanza da tenerli lontani da un’escalation nucleare. Ma la storia stava per cambiare, la corsa allo spazio stava per concludersi. Gli Space Shuttle hanno volato 135 volte e sono precipitati due. La seconda tragedia, quella definitiva, data 1 febbraio 2003 e vede il Columbia disintegrarsi al rientro nell’atmosfera per un guasto allo scudo termico. È la fine, anche se ufficialmente il programma Space Shuttle si è concluso a luglio 2011. E sabato scorso uno dei tre shuttle rimasti è tristemente volato, a dorso di Boeing 747, verso una collocazione museale e californiana. Poco importa che attualmente ci siano nello spazio, anche profondo, manufatti umani in azione. Volano ancora le vecchie sonde Voyager. È ancora in orbita il telescopio Hubble, salvato proprio da una missione Shuttle. Il rover Curiosity è atterrato su Marte poco più di un mese fa. Ma sono propaggini lontane. Icaro voleva volare, affrontare l’ignoto. La realtà lo ha tirato giù, infrangendone il sogno.

Laura Costantini

sabato 22 settembre 2012

Non stampate quella foto


Ci avviamo verso un mondo senza parole. Un mondo fatto di immagini. Un mondo che sarà più povero, ma quanto più facile. Perché un’immagine è immediata. Fossimo scienziati, potremmo spiegarne il motivo. Non lo siamo, ma immaginiamo che interpretare una serie di simboli astratti, riconoscerli come parola e interpretarla, implichi l’uso di molte più sinapsi di quelle utilizzate per guardare un’immagine e recepirne il messaggio. In fondo è una questione di risparmio energetico. E magari ci convinceranno che pensare meno sia ecologico. Già oggi sono molto più diffusi i rotocalchi, i giornali con le “figure”, che non i quotidiani. La copertina di una rivista di gossip potrebbe andare in stampa senza titoli. Capiremmo immediatamente che Tizia ha la pancia e quindi è incinta, Caio sgattaiola da un albergo e quindi tradisce la sua compagna, Sempronia si è appena rifatta il lifting. Comunicazione istantanea, irrinunciabile. Per questo, nella settimana scorsa, si è molto dibattuto su due immagini. Due immagini che più diverse non si potrebbe ma che raccontano dove stiamo andando. La più choccante tra le due è stata senza dubbio la foto di Chris Stevens. Ritrae l’ambasciatore americano in Libia, ormai cadavere, trascinato fuori dal bunker che avrebbe dovuto proteggerlo dalla furia dei rivoltosi di Bengasi. La foto è impietosa e per questo efficace. Fa tranquillamente il paio con quella del cadavere di Gheddafi, insanguinato e oltraggiato. In America, come nel resto del mondo, Italia compresa, l’hanno pubblicata in tanti. È la stampa, bellezza, avrebbe detto Humphrey Bogart. È, anche, la volontà di mostrare lo strazio della vittima per rendere tanto più odioso il carnefice. Chi ha pubblicato quella foto ha voluto dire a chiare lettere: ecco, questo è quel che resta della primavera araba, questo è il mondo islamico, questo è il risultato della politica di avvicinamento di Barack Obama. Visto quante parole servono, per ottenere lo stesso risultato? La seconda foto più discussa nei giorni scorsi è di tutt’altro genere. E lancia un messaggio meno politico e più volgare: sei famoso? sei un personaggio pubblico? Allora non hai diritto alla privacy. Vittima, lo sappiamo tutti, Kate Middleton, ormai duchessa di Cambridge, principessa e futura regina d’Inghilterra. Una ragazza di 30 anni che prende il sole sul terrazzo di una lussuosa abitazione privata e si toglie il reggiseno. Adesso tutto il mondo sa come sono fatte le tette della moglie di William e nel vuoto son caduti gli appelli di Buckingham Palace affinché le foto non venissero pubblicate. Si potrebbe obiettare che se uno mette in diretta davanti a miliardi di persone il proprio matrimonio, poi ha poco da lamentarsi. Ma quel che colpisce è che un rotocalco italiano sia uscito in edizione straordinaria con tutti gli scatti incriminati. Mentre scriviamo non possiamo sapere quante copie avrà venduto. Ma saranno tante. Troppe.

Laura Costantini

giovedì 13 settembre 2012

Il fascino letterario del panino con la salsiccia.

La scena si svolge a Roma, zona periferica a due passi dalla Tiburtina. Parchetto cittadino, più sterrato che verde, ma con panchine, giochi per bambini, una pista per pattinare. Tira vento e trasporta in cielo nuvoloni, ma il tempo pare regga. Nella zona centrale del parchetto c'è una piccola piazza lastricata, gazebo bianchi, banchetti e qualche sparuto manifesto a spiegare che si tratta del Flep, Festival delle letterature popolari. Musica a palla. Libri. Non moltissimi, per la verità. Uno degli editori che spongono spiega che dovevano essere molti di più, poi qualcuno ha rinunciato. Comunque, movimento ce n'é. Un po' le mamme che portano al parco i bambini. Un po' i giovani, quelli con la borsa a tracolla, la sciarpa etnica d'ordinanza e il bicchiere di plastica pieno di vino rosso che fa tanto happening. Un po' gli addetti ai lavori (leggi autori, editori, ragazzi che devono gestire gli stand, organizzatori). Un po' gli anziani. La musica è infernale, quasi impedisce di parlare. Di leggere no, se sei bravo ad astrarti. Così succede che ti siedi, cancelli i decibel sfondatimpani e l'aroma bruciaticcio delle salsicce che rosolano, prendi il libro per cui sei lì (Roma per sempre di Marco Proietti Mancini, Edizioni della Sera) e cominci a leggere.
"E' libera quella sedia?"
Alzi gli occhi. Uomo. Anziano. Evidentemente in vena di chiacchiere. Preferiresti di no, ma annuisci. Poi torni alle pagine, Marco ti sta raccontando di un giro in scooter per Roma e tu lo segui assorta, vedendo la tua città come mai prima.
"Di che si tratta?"
Alzi gli occhi. L'uomo anziano ti sta guandando.
"Chiedevo, di che si tratta? E' un mercatino?"
Beh, le bancarelle ci sono pure, ma lo vedrebbe anche un cieco che sono cariche solo di libri.
"E' il festival delle letterature popolari", rispondi. E ritorni alla pagina dove Marco, dallo Zodiaco, sogna di fare l'amore con Roma sdraiata e discinta.
"Ah, allora solo libri..."
Alzi gli occhi. Lo sguardo da inceneritore.
"Cosa c'è di meglio?", provochi.
"Ah, guardi, non lo dica a me. Ho tre lauree io. Ma proprio per questo poi con i libri ho chiuso."
E non fa una piega, siete d'accordo?
Vorresti tornare a leggere, ma sai che non è possibile. L'uomo ormai è lanciato.
"Per attirare la gente ci vuole altro. Non so, un po' di musica."
Avete davanti un sistema di amplificazione e un microfono che preludono a una qualche esibizione. E la musica, martellante e insopportabile è ovunque grazie agli altoparlanti.
"Magari un po' di teatro."
"I libri non bastano?", chiedi. "Cosa c'è di più bello del leggere?" (a parte non trovarsi accanto un rompicoglioni, aggiungeresti, ma tralasci).
"Guardi, non lo dica a me (e sono due!). Io mi sono portato questo."
Esibisce un libercolo vecchio e attorcigliato, spessore iPhone, tanto per essere moderni. E' una dispensa sulla storia d'Italia, una di quelle che alle volte regalavano con i quotidiani.
"L'ho letto un sacco di volte, ma me lo rileggo per ricordarmi come è stata fatta l'Italia."
Annuisci e ributti lo sguardo sul racconto di Marco che ti chiama a gran voce.
"Ma la gente ha bisogno di altro. Una piccola esibizione, magari un drink, uno spuntino..."
Alzi gli occhi, ancora. Il fumo delle salsicce è ovunque e satura l'olfatto, ma forse l'uomo ha il raffreddore.
"Penso che a breve provvederanno a esporre panini con la salsiccia", rivelo.
Gli occhi dietro gli occhiali si illuminano come mai farebbero per una copertina.
"Ecco, lo vede? Ci vuole il richiamo per la gente. Ma dove..."
Lo previeni. Punti l'indice in fondo alla piazza, lì dove si elevano le fumigazioni gastronomiche. Un attimo e sei libera. Saperlo prima...

martedì 11 settembre 2012

E se chiamassimo le cose col loro nome?

La nuova stagione televisiva è cominciata. Il palinsesto autunnale, anche a uno sguardo superficiale, non mostra sorprese o novità. Semmai aggiustamenti di tiro per ottenere il massimo risultato (audience) col minimo sforzo (idee). Il privilegio dell’apertura di stagione, per quel che riguarda la Rai, è toccato a due corazzate ampiamente sperimentate sul campo: “Ti lascio una canzone” con la sempre più bionda Antonella Clerici e “Miss Italia 2012” con l’immarcescibile Fabrizio Frizzi. Tralasciando l’eterno duello del sabato sera con “C’è posta per te” della De Filippi (che in media ha vinto la serata), osserviamo i cambiamenti del varietà dei bimbi canterini. E scopriamo che stavolta c’è una giuria: Massimiliano Pani (che c’è sempre stato, nelle vesti di benevolo opinionista ed esperto di discografia), Cecilia Gasdia (grande cantante lirica qui calata nel look e nelle movenze di una signorina Rottermeier), Pupo (che si sforza di apparire preparato sulla storia di ogni singola canzone proposta). Lo scopo, dichiarato, è quello di passare da uno Zecchino d’Oro con le canzoni dei grandi a un talent-show. Un XFactor in sedicesimo, dove però i giurati si sforzano, mentre danno voti e giudizi tranchant, di ricordare a tutti che non stanno giudicando i bambini, ma le esibizioni. È un talent-show, ma nessuno dovrebbe mai sognarsi di dire al bimbo/a sul palco che sì, la simpatia, sì, la tenerezza, sì, la storia d’amore (avete capito bene) che dura da quattro anni tra due bimbi di sette, ma per sfondare nel mondo dello spettacolo ci vuole voce, talento, fortuna e, magari, un Tony Renis che ti porta in America, come è successo ai tre ragazzi del Volo. Nessuno dovrebbe. Invece i tre giurati, pur tra le righe, lo dicono, riportando la gara tra infanti alla crudeltà che è propria di tutte le gare. Perché non chiamare le cose col loro nome? I bambini sono lì per dimostrare bravura. Il più bravo (o il più tele votato grazie alle conoscenze di mamma e papà) vince. Punto. E veniamo all’eterna domanda: schermo, schermo delle mie brame, chi è la più bella del reame? Miss Italia ha più di sessant’anni e nei decenni non ha fatto altro che far sfilare su una passerella delle ragazze in costume da bagno. Più o meno succinto, il costume, più o meno smaliziate, le ragazze. Ma di questo si tratta: di stabilire chi abbia le gambe, i fianchi, il sedere e il seno più ben fatti, il volto più espressivo. E’ un concorso di bellezza. Non di bravura. Non di intelligenza. Non di preparazione culturale o professionale. Perché non ammetterlo una volta per tutte? Leggiamo che quest’anno Patrizia Mirigliani ha deciso di dare nuovo smalto al concorso, affidandosi al migliore degli agenti. Garanzia di ospiti illustri, di nomi di richiamo. Ma il succo non cambia: osannare il valore dello studio e dell’impegno in costume da bagno è decisamente poco credibile.

Laura Costantini

domenica 9 settembre 2012

I miei articoli per "la Sesia": L'ultimo weekend


La fila è stata di tutto rispetto. Ordinata e multicolore. I modelli c’erano tutti, dalle due alle quattro ruote. Uomini, per la maggior parte, perché era domenica e le donne, di domenica, stanno a casa a preparare l’unico vero pranzo della settimana. In verità la fila esisteva da ventiquattrore e sarebbe continuata per altre diciannove. Poi basta, perché quello del 2/3 settembre è stato l’ultimo week-end. C’è chi si è portato le taniche e le ha riempite in fretta, magari spandendo in terra un po’ del prezioso e olezzante liquido. Ha lanciato sguardi di scusa a chi attendeva dietro di lui, ma non ci sono state proteste. La fila era tranquilla, silenziosa. Solidale. Perché lo sapevamo tutti che era l’ultima occasione. Certo, potranno esserci altre offerte, ma è stata fin troppa la guerra scatenata dall’estemporanea iniziativa. “Se non parti così, quando ripartiamo?” ci ha ricordato per tutta l’estate la maschera da lucano rassegnato di Rocco Papaleo. All’inizio, ammettiamolo, non gli avevamo prestato attenzione. Uno spot perso tra i tanti. Poi ha funzionato il passaparola e il colpo d’occhio. Ci hanno insegnato a controllare i prezzi esposti prima di alzare la freccia ed entrare in una stazione di servizio. Un po’ come facciamo, da sempre, tra i banchi del mercato. Ci hanno costretto, anche, a rassegnarci a quei numeri in fase di decollo e senza decimali. L’euro che si maschera da vecchio conio e gioca a confonderci, a illuderci. Non un euro e trenta (che equivale a duemila e seicento lire), ma mille e trecento. Poi mille e quattrocento, mille e cinquecento e via moltiplicando. A duemila (due euro al litro, quattromila delle vecchie lire) ci siamo arrivati in scioltezza, letteralmente. Sciolti dal caldo di un’estate eccezionale, ammorbiditi dalla rassegnazione, costretti dalla quotidianità che imponeva comunque le partenze estive. Alla ricerca di un fuggevole refrigerio e dell’illusione che tutto fosse come sempre. Come prima. Ma non lo è. Non può esserlo. Quello appena trascorso è stato l’ultimo week-end. Adesso tutto ricomincia. Da qualche parte ha ricominciato a piovere. Dappertutto chi un lavoro ancora ce l’ha ha ripreso il suo posto. In quasi tutte le case si è rimessa mano ai conti. Il pieno di carburante per l’auto è un investimento, ormai. Un investimento che non rende. Certo, c’è stato l’ultimo week-end e quella fila così compatta e obbediente. Mille e settecentocinquanta per la verde, milleseicentocinquanta per il diesel. Abbiamo riempito i serbatoi con un liquido che costa più di un litro di latte, più di tre litri di acqua minerale, più di un chilo di pane. Li abbiamo riempiti tutti, sorbendoci la fila tante volte quanti erano i veicoli in famiglia: la monovolume di papà, l’utilitaria della mamma, lo scooter del figlio. Abbiamo riempito anche le taniche, e non si potrebbe, per poi stiparle in cantina. Ma non durerà. E Papaleo, con quella sua faccia triste, lo sapeva che non si ripartiva. Neanche così.

Laura Costantini