giovedì 21 febbraio 2013

Il gran rifiuto


Ci sarà un tempo per guardare a questi giorni con il necessario distacco. Ma non è oggi. Ci siamo lasciati alle spalle gli allarmi millenaristici dei Maya, ma l'impressione è di vivere un tempo sospeso, in bilico sul ciglio di un cambiamento che non riusciamo a immaginare. Inutile girarci intorno. In barba alla crisi economica mondiale, alla silenziosa (per i nostri media) agonia della vicina Grecia, alle difficoltà quotidiane e alle incombenti elezioni, la notizia che più ci avvicina al clima da fine del mondo è quella delle dimissioni del Papa. Il giorno dell'annuncio siamo stati in molti a pensare a uno scherzo carnevalesco particolarmente riuscito. Poi, mentre si impennavano le visite su google per scoprire chi, a parte il celeberrimo Celestino V, avesse osato tanto prima di Joseph Ratzinger, ci ha pensato il cielo sopra la Città del Vaticano a fornire un suggello dalle enormi suggestioni apocalittiche. Un fulmine che si scarica sulla cupola di San Pietro. Un monito? Un avvertimento? Di sicuro una casualità atmosferica, eppure quella foto rimarrà nella storia insieme alle incertezze di questi giorni. Sapremo mai perché Benedetto XVI ha gettato la spugna? Inutile lanciarsi in esercizi da navigati vaticanisti. Lo stato più piccolo del mondo è di sicuro il più grande nel custodire i propri segreti. E non è bastato un maggiordomo infedele, o forse più fedele di tutti gli altri, a svelare le trame e gli equilibri di potere. La macchina per il più anomalo dei conclavi da seicento anni a questa parte sta avviando i motori, con tutto il corollario di milioni di pellegrini in marcia su Roma, di istant-book di verità assortite, di rivelazioni mai confermate, di diagnosi improvvisate. Il presidente Napolitano che lo ha visto stanco e provato, gli incidenti tenuti nascosti durante i lunghi viaggi in giro per il mondo, la fragilità di un uomo che ha 85 anni e regge sulle spalle il peso di una potenza bimillenaria dalle molteplici contraddizioni. Ammettiamolo senza riserve: Benedetto XVI non è stato un papa simpatico. Ci ha provato, gliene va dato atto. Ha accarezzato bambini, stretto mani, benedetto teste, ma mai, neanche per un istante, ha saputo raggiungere il carisma inarrivabile del suo predecessore. Teologo dall'immensa cultura, non ha mai fatto mistero del suo non essere personaggio pubblico. La sua appare come una fede meditata, una fede da intellettuale di Dio più che da pastore di anime. Non è un trascinatore di folle il papa tedesco. O meglio, non lo era. Poi è arrivato quello che Dante definì il gran rifiuto. Stanco, troppo vecchio, fragile e deciso a sgravarsi del fardello. Eppure Joseph Ratzinger, dall'insopprimibile e un po' comico accento tedesco, non è mai apparso forte come adesso. Perché quel suo chiamarsi fuori, declinato in una lingua morta omaggiata del più grande scoop del secolo, risuona come un gigantesco, liberatorio basta. E chissà che un giorno non ci tocchi scoprire che quel basta ha cambiato la storia.

Laura Costantini

mercoledì 13 febbraio 2013

Si dice il peccato...

Nella scorsa settimana abbiamo assistito a due eventi che contraddicono il vecchio adagio si dice il peccato, non il peccatore. Abbiamo visto indici puntati, abbiamo seguito la direzione indicata e abbiamo trovato due volti, due nomi, due realtà. E abbiamo assistito a due reazioni diametralmente opposte sulle quali riflettere. Partiamo dal caso più dibattuto, quello che ha visto crearsi, come spesso accade in questo nostro paese, due opposte fazioni. La chiameremo Brava Editor perché è il concetto che conta, non l'identità. E poi, nonostante pagine e pagine di dibattito su giornali e web, il nome della Brava Editor direbbe qualcosa a poche migliaia di addetti ai lavori. Il fatto in sé è semplice: la Brava Editor oggi è una signora, quando era ancora una ragazza una grande casa editrice l'assunse in pianta stabile aprendole una carriera che lei ha saputo rendere importante. Il problema è che la Brava Editor è figlia di una persona di un certo peso e quel cognome, questa l'accusa di chi le ha puntato l'indice contro, ha fatto la differenza tra un precariato a vita e un'assunzione prestigiosa. Se poi consideriamo che chi ha rivelato peccato e peccatore è persona condannata al precariato da sempre, possiamo capire, se non giustificare, lo sfogo. Eppure, immediatamente, la Brava Editor ha visto sorgere frotte di difensori armati di dialettica e di nomi prestigiosi che ribaltavano il discorso condannando senza appello l'incauta accusatrice. Definita forcaiola, invidiosa, incapace e via insultando. E passiamo al caso che, invece, non ha suscitato alcuna reazione visibile. La chiameremo Cantante Giovanissima, perché non bastasse l'umana compassione ci sarebbero comunque delle regole che ci vieterebbero di identificarla. Perché la Cantante Giovanissima ha solo tredici anni e la maggior parte dei nostri giornali se ne sono fregati, sbattendola sulla gogna mediatica con foto, nome e cognome. Perché? È presto detto: suo padre è stato arrestato con una pesante accusa di affiliazione alla camorra. Casa perquisita, vengono trovati centinaia di telefonini che l'incauto padre non usava per i suoi traffici illeciti, bensì per incentivare il televoto a favore della sua bambina durante una gara canora di prima serata. Scandalo. Ora va chiarito che la Cantante Giovanissima quella gara non l'ha comunque vinta. E lo avrebbe pure meritato, visto che ha un talento innegabile e una voce impressionante a fronte di un'età così tenera. Tredici anni. Pensiamoci: avere tredici anni, trovarsi in televisione davanti a milioni e milioni di persone (che conoscono il tuo nome e la tua faccia mentre ignorano quelli della Brava Editor), cantare benissimo, realizzare un sogno. Poi ti arrestano tuo padre. Ti perquisiscono la casa. Scoprono quei telefonini e il mondo ti crolla addosso. Perché milioni di persone adesso sanno che, incolpevole, hai barato. E che tu abbia solo tredici anni non importa a nessuno. Meno che mai a chi difende le Brave Editor e dimentica le bambine.

Laura Costantini

mercoledì 6 febbraio 2013

Zapping domenicale

Il gioco lo abbiamo già fatto, ma proviamo a riproporlo e immaginiamo che in un ventoso e gelido pomeriggio domenicale un osservatore esterno si trovasse davanti una serie di teleschermi dove sfilano immagini e dichiarazioni e dovesse, da questi, farsi un'idea chiara di quello che siamo. Potrebbe cominciare con le immagini di un disastro aereo sfiorato. Una grande compagnia di bandiera che vende voli con i prezzi di una grande compagnia di bandiera a bordo di aerei che appartengono ad altra nazione e che già due volte sono stati protagonisti di incidenti. Sedici feriti, di cui uno grave, terrore, choc. A bordo casualmente anche una giornalista Rai atipica (significa che fa la giornalista ma viene pagata come un usciere). Ci fa sapere che non le restituiscono il bagaglio. L'aereo è sotto sequestro, soprattutto per permettere alla grande compagnia di bandiera di cancellare, nella notte, i propri loghi dalla carlinga. Come se bastasse a cancellare le responsabilità. Però succede, anche, che qualcuno le responsabilità se le prenda, come l'amministratore delegato di una grande casa automobilistica che aveva promesso mari e monti e che, pubblicamente, annuncia che quelle promesse erano, citazione testuale, un'imbecillaggine. Mentre non lo è oggi, con un mercato automobilistico in caduta libera, promettere di non chiudere fabbriche italiane delegandole alla produzione di auto di lusso. Da esportare da chi i soldi ancora ce li ha. A meno che non si voglia aspettare che il leader di un partito che ha cara la libertà, dopo aver spiegato che solo gli imbecilli aumentano le tasse mentre gli intelligenti tagliano le spese, restituisca con bonifici diretti l'Imu sulla prima casa agli italiani. L'osservatore esterno potrebbe notare che l'imbecillità è particolarmente cara a coloro che contano nel nostro paese. Poi potrebbe accorgersi che chi promette di eliminare una tassa che un governo di tecnici ha imposto per ripianare i conti, quei conti li ha mandati a farsi friggere in anni e anni di leadership indiscussa. Intanto però la sua attenzione verrebbe catturata dal premier in carica, tecnico ma mica poi tanto, che ci dice che lo statuto dei lavoratori è superato e che ci vuole flessibilità. La stessa che ha creato un precariato insanabile in circa un decennio di co.co.co e co.co.pro. Non ci spiega però perché il licenziamento facile dovrebbe invogliare i datori di lavoro ad assumere quando è tanto più facile prendere laureati disperati, tenerli pochi mesi e sostituirli con una nuova ondata, al nero possibilmente. L'osservatore esterno saprebbe ormai che di cose possibili in Italia ce ne sono tantissime. Come il leader di un movimento che ha la qualifica di un albergo di lusso che, arringando la folla in piazza, fornisca le coordinate esatte di un luogo della capitale e inviti un'organizzazione terroristica, già nota per un affare di torri gemelle, a bombardare. Lo hanno sentito tutti, ma lui smentisce. È stato frainteso da giornalisti bugiardi. All'osservatore esterno non resterebbe che reclamare un telecomando e cercare una consolante replica di Don Matteo.
Laura Costantini