martedì 30 aprile 2013

Se la squilibrata è la realtà


Due carabinieri feriti davanti a palazzo Chigi, mentre il governo Letta, a neanche un chilometro, si insediava. È successo da poche ore. Uno squilibrato con gravi problemi psichici. Poi no, non lo è, lo dicono i suoi familiari. Un maghrebino, poi no, è calabrese. Ha un nome e cognome, che non ripeteremo. Quando leggerete queste righe di lui, dello sparatore di palazzo Chigi, saprete tutto. Ha 46 anni. Poi no, ne ha 49. Aveva una moglie e un lavoro, li ha persi. Tutti e due. Un piccolo imprenditore disperato, come tanti. È ferito, uno dei carabinieri contro i quali ha aperto il fuoco con otto colpi, poi no, solo cinque, gli avrebbe sparato. Poi una smentita. È ferito alla testa, è successo durante la colluttazione con gli altri carabinieri. Ce lo mostrano in diretta, quasi. Uno zoom impietoso contraddice qualsiasi regola deontologica: la guancia premuta contro il selciato, la smorfia di dolore, le braccia ritorte dietro la schiena, ammanettate. I capelli corti, il colorito mediterraneo. La suggestione del maghrebino c'è tutta, ma la Calabria, terra di 'ndrangheta e degrado, va bene lo stesso. Come fa uno squilibrato, ma il fratello dice no, non lo è, ad avere una pistola? E mentre il carabiniere più grave ci viene mostrato, il sangue che scende dal buco nella gola e imbratta il selciato, vivido, impressionante, un giornalista ci ricorda che, con tutto il rispetto, anche i molti suicidi di disoccupati e imprenditori rovinati dalla crisi nascondono gente sull'orlo della crisi di nervi. Perché sparare o spararsi, tentare di uccidersi o di uccidere non può trovare motivo nella disperazione. Lo dice chiaro il giornalista in studio, una firma importante, lui. Intanto il pensiero di tutti, firme importanti e gente qualunque, sfiora la paura delle paure: gli anni di piombo, carabinieri e poliziotti uccisi nelle strade da chi, per combattere il sistema, se la prendeva con i servi. Ma servi di chi? I due carabinieri feriti sono persone, gente che si guadagna da vivere dignitosamente, niente di più, con un lavoro difficile e pericoloso. E non è un caso che la parola più lucida, tra tanti opinionisti e firme importanti, venga proprio da un anonimo carabiniere, sentito dall'Huffington Post: "E' il gesto di un disperato. I politici non lo sanno che vuol dire prendere 800 euro al mese, entrare in un negozio e non poter comprare nulla a tuo figlio... Ecco cosa succede se non lo sanno [...] È una guerra tra poveri." Intorno a quell'uomo a terra che avrebbe gridato ai carabinieri "Sparatemi!" si scatena la polemica. È colpa della crisi. No, è colpa della politica. No, è colpa degli arruffapopolo. In Rete i riferimenti a Grillo sono chiari almeno quanto i rilanci di chi inneggia allo sparatore in giacca e cravatta, abbigliamento strano per un attentatore squilibrato, dicono quelli che ne capiscono. E consigliano, la prossima volta, di mirare meglio. Qualcuno suggerisce altrove, più in alto. E viene da dire che sì, uno squilibrio grave c'è. Ma è la realtà a soffrirne.
Laura Costantini

mercoledì 24 aprile 2013

Sta arrivando la nostra prima produzione erotica


Tre racconti, quattro autrici. Francesca Mazzucato, una che di eros se ne intende, l'ideatrice del progetto, la direttrice della collana. MariaGiovanna Luini, una che SA di donne. E poi noi due che non ci volevamo mica credere quando ci è stato proposto di partecipare. Noi che ci siamo chieste, in tutta sincerità, ma saremo capaci? Noi che, con l'incoscienza che ci contraddistingue, abbiamo comunque deciso di provarci. Ebbene, questo e-book sta per vedere la luce e solo i lettori, che speriamo siano tanti, sapranno dirci se la fiducia di Francesca era ben riposta. Restate sintonizzati.

martedì 23 aprile 2013

Santa tv pensaci tu




Ne parliamo male. Forse solo dei politici riusciamo a dire di peggio. Eppure  la televisione è assurta, insieme a chi la fa, al ruolo di deus ex machina. A fronte di ingiustizie patenti e di situazioni disperate, nella totale e ingiustificata assenza delle istituzioni preposte, l'ultima spiaggia è chiamare una telecamera, un microfono e denunciare dal piccolo schermo il male che ci è stato fatto o l'aiuto che non ci è stato dato. Raggiungere milioni di persone, sentirsi dar ragione dall'opinionista di turno, gongolare dell'indignazione dell'ospite in studio. Poi, aspettare. Spesso e dolorosamente invano. Due casi che valgano d'esempio per quelli che giornalmente ci vengono sottoposti. Il primo. Si chiama Luigina, è una madre. Nelle categorie che piacciono alla tv, è una madre coraggio. Ha tre figli, due grandi e indipendenti, una no. Si chiama Michela, ha diciotto anni, è affetta dalla nascita da tetraparesi spastica. Un corpicino contorto, una mente forse inconsapevole, una totale incapacità cui solo una madre può sopperire. Per questo Luigina e Michela vivono in camper, in riva al mare. Solo lì Michela riesce a respirare e sopravvivere. Ma un camper, ancorché attrezzato, non è una casa. Luigina ha perso il lavoro, Michela percepisce solo 250 euro mensili di pensione di invalidità. Una storia atroce, di quelle che alla tv piacciono. Va in onda due volte nel giro di due mesi col corollario di indignazione per quella casa che non si trova. Ma nessuna soluzione è arrivata. Il secondo. Si chiama Gilda, è una madre disoccupata e disperata. Non è sola, accanto a lei c'è Eduardo, anche lui disoccupato e disperato. Insieme, dopo anni di lotta e di speranza, se ne stanno chiusi in una casa spogliata di mobili e suppellettili e posta sotto sequestro giudiziario, cercando di mettere insieme pane e frutta per il loro figlio undicenne. Di più non si può. Il gas e la luce stanno per essere staccati per morosità. Tutto ciò che potevano vendere l'hanno venduto. Tutto ciò che potevano tentare per trovare lavoro, l'hanno tentato. Lui era maître d'hotel, parla quattro lingue. Lei era assistente cuoca. Si sono ingegnati: turni di notte da operai, lavapiatti, addetti alle pulizie. Soffocati dai debiti e dall'impotenza, non possono neanche tornare nella natia Napoli. Finché la casa che non sono riusciti a pagare non passa all'asta, un tetto, là nella provincia senese, ce l'hanno. Dopo? Non lo sanno. Per questo hanno chiamato la tv. Per questo attendono con ansia che il servizio vada in onda. Sono incappati nella buriana delle elezioni presidenziali, il servizio è slittato. E forse è un bene. Il ritardo mantiene intatta la speranza che la tv risolva, che la tv faccia il miracolo. Salvo poi, se il miracolo non dovesse arrivare, chiamare ogni tanto il giornalista. E implorare aiuto. Continua a farlo Luigina, lo farà anche Gilda. Ottenendo in cambio il profondo e insanabile senso di colpa di chi  telecamera e microfono li ha portati fin lì
Laura Costantini

venerdì 19 aprile 2013

Spingi, scrittore, spingi

Questo post è ispirato a una citazione di Zafon per il quale ispirazione vuol dire sudore, mal di testa da spremitura di meningi e sofferenze assortite. Se la pensate come lui, astenetevi.

Mi capita spesso, molto spesso, troppo spesso, di sentir perpetuare sul web lo stereotipo dello scrittore macerato. Che non vuol dire prendere uno che scrive e metterlo a bagno in alcool e zucchero per i prossimi 40 giorni. Vuol dire che colui (o colei, ma si usa sempre il maschile/maschio/omino) il quale si fregia del titolo di scrittore, spesso aggiunto dopo nome e cognome dell'intestazione del profilo FB (o, peggio, del fan-club autogestito), soffre. Sì, amici, romani, concittadini, egli soffre. Soffre perché, posto davanti a uno schermo bianco da riempire digitando, egli si contorce, suda, si spreme, iperventila... No, non è un parto (occhio, ricordare sempre che egli è maschio), sembra piuttosto una colica intestinale. Alla fine della quale egli comunica all'universo mondo che ha evac... sorry, prodotto un incipit, dieci pagine, la parola fine, insomma qualcosa di letterario. Occhio, ancora, non di narrativo, di letterario. La differenza è fondamentale. Vado a spiegare: narrativo attiene alla narrazione, al contar storie, è una roba leggerina ancorché avvincente. Intrattiene il lettore. Lo sentite come suona volgare? Intrattenere il lettore, orrore! Lo scrittore, quello vero, quello con la S maiuscola, quello che soffre, non intrattiene. Mai. Lui perpetua il verbo, instilla verità, spinge alla riflessione, fa soffrire. E soffre. Ha da soffrì, credo sia inserito nel contratto di edizione, articolo 7 b: Tizio e Caio, da qui in poi detto Autore, garantisce alla pizza e fichi editions, da qui in poi Editore, che non si asterrà, per nessun motivo, dal soffrire, sudare, vergare col suo proprio sangue la pagina bianca. E i lettori, spesso frequentatori del web, finiscono col crederci e convincersi che così debba essere: scrittura=sofferenza ---> lettura=chedduepalle. Quando poi capita una persona che scrive e che a scrivere si diverte proprio e che scrivere le viene proprio facile e che insomma intrattiene se stessa e poi anche i lettori (lettori felici, pensa un po') il passo successivo è così strutturato: occhiata incredula che vira sullo sdegnato, arriccio di labbro laterale e sentenza più definitiva della Cassazione: ah, ma tu non scrivi, tu fai narrativa di intrattenimento. 
Un marchio a fuoco, fidatevi.

mercoledì 17 aprile 2013

Soggettiva di ZG: "Non toccatemi il sangue" di Diana Lama (Mezzotints)

Una bella sorpresa, così potrei definire questo e-book ricco di sette racconti noir. Neri, è il caso di dirlo, nel senso più proprio del termine. Perché la perfida ironia che caratterizza la narrazione gronda, sì, sangue, ma strappa il sorriso. E appassiona pennellando personaggi, Peppiniello su tutti, che con l'ingenuità di una visione del mondo disincantata e priva di schemi, come solo quella dei bambini può essere, racconta orrori quotidiani risolti con una cattiveria che non si esita a definire profondamente giusta. La napoletanità imperante nella narrazione, poi, non si configura come limite, ma fornisce una cornice mai scontata e ricchissima di sfumature che testimonia, se ce ne fosse ancora bisogno, che l'humus narrativo partenopeo non conosce crisi. Anzi, promette di stupirci ancora e ancora. Fermo restando che Diana Lama è autrice ormai nota e che non ha bisogno di conferme. Mai come in questo caso... Accattatevillo! Basta cliccare QUI

martedì 16 aprile 2013

Ding dong, la strega è morta

Ci sono cose che alle donne non si perdonano. Una di queste è il potere. Una donna può essere potente, ma per interposta persona. Di sicuro sono state o sono tuttora potenti le first ladies americane, ma lo sono in quanto mogli del presidente di turno. È la solita solfa della grande donna dietro il grande uomo. Dove dietro è la parola chiave. Se la donna non sta dietro, ma davanti, magari affiancata da un marito tenuto nell'ombra ottiene ciò che sta ottenendo in questi giorni Margaret Thatcher. La Iron Lady è morta. Mentre scriviamo in Rete e sui giornali impazzano pareri, foto e polemiche. Grande imbarazzo per la BBC perché una canzone degli anni '30, inserita nella colonna sonora del film "Il mago di Oz", ha scalato le classifiche. La canzone inneggia alla morte della strega. Nel film la strega dell'Est, ma in occasione del solenne funerale in preparazione per domani, la fattucchiera è la Thatcher. Trasmetterla o meno alla radio è l'amletico dilemma per la BBC. Un dilemma che fa sorridere a fronte dei cartelli inalberati da dimostranti subito dopo la notizia della morte: the bitch is dead, la cagna è morta. Sappiamo che gli undici anni di governo della premier conservatrice hanno imposto lacrime e sangue alle classi medie del Regno Unito. Sappiamo che è stata spietata e priva di scrupoli nel perseguire una nuova grandeur per la Gran Bretagna. Ma colpisce che l'odio, che spesso accompagna politici potenti e controversi alla tomba, sia evidentemente amplificato dall'essere donna della Thatcher. Una canzoncina di gaudio per la morte della strega. Cartelli di giubilo per la morte della cagna. E poi capita di trovare in Rete la riflessione di un giovane uomo italiano sull'opportunità che le donne gestiscano il potere e di leggere queste parole: "il problema è che le donne  [...] dimenticano di avere una settimana al mese in cui sono caratterialmente instabili e imprevedibili e in questa settimana specifica non si attengono al copione previsto. Così succedono cose singolari [...] È stato dato il potere economico, politico e militare di due nazioni incredibilmente influenti sulla scena politica, a due donne: negli anni '80 a Margareth Tatcher, e nel duemila alla sua erede spirituale e caratteriale, Condoleeza Rice [...] con i seguenti risultati: la prima ha dichiarato guerra alle isole Falklands e, in quel decennio, non c'era ombra di guerra sparsa per il mondo in cui non spuntavano fuori i royal marines armati fino ai denti; la seconda ha dichiarato guerra all'Iraq e tutt'ora, non c'è ombra di guerra nel mondo, in cui non spuntano fuori i marines americani armati fino ai denti." Tutto questo, a quanto se ne desume, determinato dall'instabilità ormonale della Thatcher e della Rice in quei giorni. Indifendibili le istanze guerrafondaie di Regno Unito e Stati Uniti nelle due occasioni citate, certo, ma di guerre ne abbiamo viste tante, decise da uomini che non potevano neanche appellarsi agli squilibri mensili. Eppure, davanti a simili riflessioni, un presidente della Repubblica italiana donna è impossibile. Oggi più che mai.
Laura Costantini

lunedì 15 aprile 2013

Incipit in regalo: un uomo frustrato, un paio di occhiali persi e, all'improvviso, la svolta nella vita...

La sveglia di casa Melchiorri aveva quattro zampe gelide, un folto pelo nero e l’alito di un fogna. Fausto aprì gli occhi alla quarta leccata e spinse via Amleto con lo stesso movimento con cui si estrasse dal calore delle coperte. Oltre le tende il buio era totale e si insinuava nella stanza insieme al freddo umido regalato dal parco. Rinunciò alle ciabatte e zampettò sul pavimento freddo fino al bagno. Amleto lo seguì e rimase a guardarlo mentre vuotava la vescica evitando accuratamente il proprio profilo riflesso dallo specchio a figura intera. Un’idea di Patrizia, mutuata da non sapeva più quale rivista di arredamento. Messo lì per lusingare la vanità di sua moglie, ma con l’effetto collaterale di sbattergli in faccia la lenta eutanasia dei suoi addominali. Fausto azionò lo sciacquone e il mugugnare infastidito di sua moglie alleviò la quotidiana umiliazione dello specchio. Infilò la vecchia tuta di pile, chiuse la lampo del giubbotto e prese il guinzaglio zuppo di bava dalle fauci di Amleto.
La notte sembrava intenzionata a condividere con lui la passeggiata tra le nebbie del parco e la sigaretta. Il sapore della Camel Light era l’equivalente dell’alito fetido del terranova che gli trottava giulivo accanto, ma quello era l’unico momento in cui poteva concedersi di aspirare il tabacco fino in fondo con la soddisfatta consapevolezza di farsi del male. E lo doveva ad Amleto. L’unico fottuto momento di libertà che gli restava, lo doveva a un cane che non aveva voluto, che gli contendeva gli spazi vitali e che se non fosse stato per lui avrebbe vuotato le viscere sul parquet da 350 euro al metro quadro.

martedì 9 aprile 2013

Nessuna più, ancora

Esce oggi su "La Sesia" questo mio articolo:

È capitato a tutti di vedere una di quelle scene da film, di solito americano, dove il protagonista sosta davanti a una parete trapunta di stelle. Ogni stella un eroe morto per la causa. Che ci siano o meno i nomi, degli eroi, quel che colpisce è la quantità delle stelle. Che sono lucide e splendenti, ma mai e poi mai potranno raccontare cosa si cela dietro quel nome, dietro quella morte. Se oggi ci si fermasse un attimo a pensare al fenomeno del femminicidio, l'immagine della parete irta di stelle potrebbe essere attinente, soprattutto per l'impossibilità di un nome, di una foto, di una stella di rendere giustizia a ciò che quella persona, quella donna, è stata per tutti coloro che l'hanno amata. Succede allora che si richieda ai familiari di raccontare, ancora e ancora. Di rivivere la tragedia della perdita. Di testimoniare, giorno dopo giorno, che quel nome non può e non deve, mai, diventare un numero su un giornale o una stella su una parete. È il valore della memoria in quest'epoca di olocausto delle donne. Così accade che ti ritrovi in una casa dignitosa sulle colline di Napoli, ma potrebbe essere in qualsiasi altro luogo d'Italia, a raccogliere il grido di dolore e le lacrime di rabbia di una madre. Perché sua figlia, Fiorinda, è stata fatta a pezzi con l'accetta dall'uomo che non si rassegnava a perderla. Accadeva nel 2009 e il processo si trascina da allora. E succede che dopo tre perizie psichiatriche che avevano dichiarato quell'uomo capace di intendere e di volere, una quarta decida che no, che non conta se aveva posizionato un'ascia in sala da pranzo prima ancora di attirare Fiorinda nella trappola letale. Perché quell'uomo, che aveva già scontato anni di carcere per il tentato omicidio della ex moglie, ha agito d'impeto, ha perso il lume della ragione. E quindi per aver massacrato una donna di trentacinque anni, madre di un bimbo di otto, dovrà scontare solo 10 anni in un ospedale giudiziario. Succede che i genitori e le sorelle di Fiorinda accettino di farti entrare in casa, accettino di raccontare ancora, si rassegnino a offrire le lacrime in pasto a una telecamera. Ma dicano no quando chiedi loro qualche foto. Perché le foto raccontano attimi felici, raccontano una donna bella, giovane, curata, una donna che sapeva sorridere e abbracciare stretto il suo bambino. E fa troppo male, lo capisci, riguardarle e capire che mai più quel sorriso potrà essere immortalato. Quel no urla più della rabbia, della delusione. Quel no urla che qualcosa deve cambiare. Per questo è giusto parlarne. Per questo è giusto che siano usciti tanti libri sul femminicidio. Per questo è importante segnalare "Nessuna più" (Elliot edizioni): 40 autori raccontano e restituiscono un'identità a 38 donne assassinate. Storie di femminicidi, ispirate alla cronaca ma elevate a simboli di tutte le centinaia di vittime appuntate su quella parete. I proventi dell'antologia sono interamente devoluti al "Telefono rosa".

Laura Costantini

giovedì 4 aprile 2013

Soggettiva di ZG: La bambina dai capelli di luce e di vento di Laura Bonalumi

E' stato una bella sorpresa questo libro.
Un'autrice italiana (vivaddio),
un'idea originale (era ora),
una protagonista che resta nella mente.
Eppure non è una maga, non è una vampirella, non è un'adolescente problematica.

Viola è una bambina di quelle che il mondo superficiale di oggi si ostina a chiamare "strane". Perché ha una passione che esula da quelle che uniformano i suoi coetanei. Viola ama visceralmente la neve, i suoi paesaggi fatati, le geometrie perfette dei cristalli, le stupefacenti dendriti stellari e la decine e decine di parole inuit per definire la neve in ogni suo momento e trasformazione.
Viola non ama i computer, non gioca alla play, scrive a mano su un quaderno azzurro.
Viola ha genitori separati, una madre in affanno, un padre confuso, una sorella maggiore che si atteggia a stronza e un'amica "speciale": Emily.
Emily che è viva, ma non lo è del tutto. Emily che le regala un fermaglio magico con un fiocco di neve. Emily che le chiede aiuto per tornare dal coma in cui è confinata. Viola sa che è un compito difficile, soprattutto perché nessuno le crederebbe se chiedesse aiuto. Eppure...
L'autrice ci regala pagine di poesia, momenti che strappano sorrisi, una nonna che tutti vorremmo e la fiducia nell'infinita capacità dei bambini di credere nella magia, di affidarsi alla vita, di accettare le sfide impossibili. E magari anche di vincerle, chissà.
Un romanzo per ragazzi che è stato definito crossover, perché un adulto può tranquillamente infilarsi nella stanza di Viola, stringersi con lei in una coperta e, armato di lente di ingrandimento, tremare di freddo nell'attesa che dalla finestra aperta entri la magia del fiocco di neve perfetto.
Da leggere.


Qui per comprare il libro.

Qui per leggere la mia intervista all'autrice Laura Bonalumi

mercoledì 3 aprile 2013

Incipit in regalo: un castello, quattro eredi, una traccia da seguire

Piccoli assaggi di scrittura, piccoli omaggi per chi vorrà leggere. Romanzi inediti ed editi, terminati oppure incompiuti, pubblicati ma anche introvabili. Tutti di produzione propria. Se vi va, commentate.


La Mercedes si inserì nello spazio tra la Ferrari e il voluminoso suv con un ultimo, aggraziato ruggito. Lo sportello del guidatore si aprì e ne sgusciò fuori l’eleganza senza tempo di un tailleur nero. La luce smagliante di una mattinata d’ottobre non riuscì a superare l’ombra che la tesa del cappello gettava sul volto di colei che tutti stavano aspettando. Melania oltrepassò la cortina di disapprovazione che l’accolse e varcò il portone della piccola chiesa di Boscolungo.
Le campane suonarono a morto mentre i pochi presenti si avviavano per l’ultimo omaggio a Bartolomeo Zoldan. Erano tre anni che Melania non vedeva suo suocero e deplorò la scelta di esporlo ai loro sguardi, seppur offuscato da un fitto velo bianco. Evitò di soffermarsi sui lineamenti induriti dalla morte e tenne gli occhi fissi al Cristo cui toccava lo spiacevole compito di accoglierlo tra le proprie braccia. Si segnò e passò oltre.
Nessuno occupò il posto accanto a lei sulla panca annerita. La singola navata era pressoché deserta e i convenuti si disposero quanto più lontano possibile uno dall’altro. Il sacerdote fu breve, come se avesse fretta di affidare al suo diretto superiore l’anima di quell’uomo che Boscolungo non aveva mai imparato ad amare.
Quando la bara, finalmente chiusa, venne trasportata all’esterno, la luce era ancora quella di mezzogiorno...