giovedì 30 maggio 2013

Ciao Franca

Di Franca Rame ho un ricordo personale pur senza averla mai incontrata fisicamente. 
Volevo essere giornalista. Esce un bando per una borsa di studio per un corso di giornalismo. Partecipo. Supero la selezione scritta. Mi ritrovo alla selezione orale. 
Allora non potevo saperlo, ma il tutto era praticamente la copia dell'esame che si sostiene per ottenere l'iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti. Tra le domande di cultura di generale, diritto dell'informazione e quant'altro, c'era una prova particolare. 
I membri della commissione aprivano alcuni giornali, coprivano le didascalie e mostravano le foto agli esaminandi. "Chi è?", chiedevano. 
Perché un giornalista, tra le molte altre cose, deve essere fisionomista. 
A me, tra altre foto, capitò quella di Franca Rame. 
La riconobbi subito. "Franca Rame", risposi. 
"Bene", disse la signora che mi stava esaminando, una giornalista anche lei. "E chi è Franca Rame?"
"La moglie di Dario Fo", risposi impavida. 
L'esaminatrice mi fulminò con lo sguardo. 
"Soltanto? Rame è attrice, autrice, scrittrice, militante. Una donna non si definisce mai come moglie di, figlia di, madre di... Se lo ricordi. Sempre."
Fu una lezione giusta, che non ho mai dimenticato. La scena che ho raccontato risale al lontanissimo 1994. Oggi, a 19 anni di distanza, una giornalista racconta Franca Rame così:




martedì 28 maggio 2013

Abbiamo un problema


Abbiamo un problema. Ne abbiamo moltissimi, si obietterà. Vero. Ma ne abbiamo uno più grande degli altri. Un problema la cui urgenza dovrebbe devastarci ogni volta che guardiamo un bambino, un ragazzino, un figlio. Sabato scorso un diciassettenne ha scritto a un grande quotidiano per dichiararsi omosessuale e chiedere, semplicemente, il diritto di esistere. Domenica gli ha risposto, sullo stesso quotidiano, la presidente della Camera, Laura Boldrini, prendendo un impegno ufficiale ad ascoltare la sua voce e a non dimenticare quelle di si è tolto la vita. L'ha nominato la Boldrini, ne abbiamo parlato anche noi qualche tempo fa. Si chiamava Andrea, si è impiccato a dicembre dello scorso anno, schiacciato da chi gli dava del frocio per un paio di pantaloni rosa. Aveva 15 anni e secondo alcuni commenti in Rete consumava aria a sbafo perché voleva essere fashion e non ha retto botta agli sfottò dei compagni. Abbiamo un problema. Lo stesso problema che ha spinto Carolina giù dal terzo piano. Adolescente, anche lei. Messa alla berlina dalla Rete, anche lei. Spinta alla disperazione a soli 14 anni per un video e per il bullismo di otto ragazzini, come lei. E sembra di sentirli i genitori di quegli otto: ragazzate, niente di grave, lo fanno tutti. I social network sono così e sbaglia chi dà troppa importanza a quel che si dice, sbaglia chi è troppo fragile. Sbaglia chi pretende che anche dei ragazzini siano consapevoli di quel che fanno e di come lo fanno. Un recente rapporto Istat afferma che ci sono migliaia di posti di lavoro vacanti a fronte di milioni di giovani disoccupati. Sono i lavori che nessuno vuole: panettiere, falegname, installatore di infissi, barista. Troppa fatica, orari scomodi, fine settimana impegnato. Guardiamoci intorno e cerchiamo un esempio banale: il parrucchiere. Titolare italiano, lavoranti straniere. Una scelta? No, spiega il titolare. Ma le italiane non ci vengono. Il negozio apre alle otto e trenta. La lavorante deve arrivare almeno mezz'ora prima. Una levataccia. E racconta, il parrucchiere: "Avevo preso una ragazza italiana, vent'anni, diplomata a un corso della regione. Ma erano più le volte che non veniva, con una scusa qualsiasi, che quelle in cui si presentava. Ho chiamato a casa e la madre, come se fosse una giustificazione valida, mi dice che sua figlia fa fatica ad alzarsi al mattino. È stanca, perché la sera fa le due su Facebook." Abbiamo un problema e dobbiamo rendercene conto. Il nemico non è il social network. Il nemico siamo noi adulti che non siamo riusciti a trasmettere alla nuova generazione la necessità di rispettare se stessi e gli altri, di assumersi la responsabilità dei propri atti e dei propri errori. Il nemico sono le dichiarazioni che arrivano puntuali ogni volta che a commettere un reato, un reato grave, è un giovane. Il nemico è il termine "ragazzate". Il nemico è ogni genitore che corre a scuola a insultare un insegnante per difendere il proprio figlio da un brutto voto. Se lo individuiamo, il nemico, possiamo risolverlo, il problema.
Laura Costantini

venerdì 24 maggio 2013

Roulette russa con la vita degli altri


Succede a Roma, un sabato sera che sconfina in una domenica notte. Una grande città non dorme mai. A Roma, durante la notte clou del week-end ti può capitare di fare la fila, incolonnato tra nugoli di automobili dai finestrini aperti e dalla musica che rimbomba. Si chiama movida e assomiglia a una transumanza coatta. Coatta nel senso di obbligatoria, se non esci il sabato notte sei uno sfigato, e nel senso di tamarra, con i look, le musiche e gli atteggiamenti del caso. Niente di grave. Anzi, il fatto che molte di quelle auto siano occupate da donne sole, a loro agio nella notte metropolitana, è un bel segnale. Significa che è possibile e giusto. Nonostante la paura sottile che rimane ai margini. Una donna sola è più sola degli altri. Una donna sola, anche al centro di una colonna di automobili in lenta marcia verso il divertimentificio di zona, lo sa di rischiare di più. Rischia perché è donna. Non date retta, non importa come sia vestita, non importa che ora della sera o della notte sia, non importa il perché e il per come di quella sua solitaria presenza. È donna. In quanto tale possibile preda. Ma le moltissime donne che frequentano la notte romana (o milanese o di qualunque altro luogo) non accettano di esserne escluse. E vanno. Stavano andando, anzi, tornando a casa anche le due donne che sabato scorso erano alla guida delle loro vetture in una zona periferica di Roma. E l’aggettivo periferica è importante. Non per contestualizzare degrado o quant’altro, ma per avere una vaga idea di quella che in una fiction chiameremmo location. Viale Palmiro Togliatti è una grossa arteria di scorrimento a sud-est della capitale. Collega tre consolari importanti: Tuscolana, Casilina e Prenestina sconfinando poi nella Tiburtina. Di fatto attraversa quartieri popolosi, ma con le caratteristiche di molte periferie urbane: sono quartieri dormitorio. La movida del sabato notte non abita qui. Parte da qui, alla conquista del centro o del litorale. Ma viale Palmiro Togliatti di notte è e resta uno stradone a tre corsie da percorrere rapidi. Sulla Togliatti si corre. Se non corri, c’è sempre qualcuno che ti si inchioda al lunotto e ti acceca con gli abbaglianti. Può capitare che ti innervosisci, lasci passare, lampeggi a tua volta. Può capitare che quell’automobilina, una smart nera, abbia a bordo due balordi (non ancora identificati) che non ci stanno a farsi lampeggiare. Può capitare, è capitato, che tirino fuori una pistola e sparino. Due donne si sono sentite fischiare pallottole davanti alla faccia. Sono vive. Scioccate, impaurite, decise a non frequentare più la notte, ma vive. È un caso però. I due balordi, che hanno sparato anche a un’auto in sosta, che hanno inseguito una delle due donne fin quasi al garage, che sono descritti come due trentenni, uno olivastro, hanno giocato con le loro vite. Una roulette russa, assurda e codarda. Perché quei due hanno giocato con le vite degli altri. E potrebbero averla fatta franca.

Laura Costantini

lunedì 20 maggio 2013

Di Torino, di una bella presentazione e di un bel libro (che Soggettiva di ZG consiglia caldamente)

Piove, governo di larghe intese! (cit. Geppy Cucciari)
E' stato questo il mio pensiero appena approdata (il verbo marinaro non è una forzatura) in quel di Torino. Cielo plumbeo, freddo umido, pioggia costante, imperterrita, tenace. Ma non sarà questo a fermarci. Stazione, albergo, deposito bagagli, taxi direzione Salone Off, quello dove vanno gli autori che contano davvero (cit. Vito Ferro), ovvero là dove osano le idee, come recita lo slogan. Il Salone Off è un tendone/palazzetto dello sport con l'acustica da tendone/palazzetto dello sport che diffonde con entusiasmo il canto di alcuni tipi che si cimentano sul palco. Ma no, non abbiamo sbagliato posto perché, costanti, imperterriti e tenaci, eccoli lì: Carlotta Borasio, bellissima in trench panna e sciarpina dai colori di una primavera data per dispersa, e Andrea Malabaila con un bustone di libri. E poi c'è Vito Ferro, zucchetto, siga e piercing d'ordinanza. L'umidità si taglia col coltello, il freddo costringe a stare ingobbiti, ma il posto è denso di gente che è venuta nonostante tutto. Bello. Si comincia. Prima una presentazione in chiave musicale per quattro libri e quattro autori: Vito Ferro (che conduce da par suo e non si rende conto che ha un futuro come intrattenitore) con Festival Maracana, Andrea Malabaila con Revolver, Fabrizio Terreno con Strawberry & Beatles e Alba Beiras con I miei Tu-li-pan. Quest'ultimo libro narra una vicenda legata al Trio Lescano, presente in sala la mamma dell'autrice e terza del trio per gli ultimi cinque anni di carriera. Bellissima dolce signora che ci delizia con due canzoni. Intanto sono arrivati i relatori del nostro western: Elisabetta Ossimoro, giovane e appassionata blogger scrittrice, e Massimiliano Valentini, bel figaccione col pizzetto western, esperto di fumetti e storie di frontiera. Il nostro romanzo non potrebbe essere in mani migliori e, infatti, la presentazione scorre via piacevolissima e interessante. Il pubblico è numeroso e attento e riconosco i volti di Remo Bassini con la sua compagna e il piccolo Federico Libero, ormai un abituè (non si scrive così, ma avete capito lo stesso) delle nostre presentazioni, di Milvia Comastri, mito di donna e scrittrice tutta da scoprire, di Elisa Strobbia che ho il piacere di conoscere di persona. Insomma, un'ora di chiacchiere tra western, domande sul come di scrive a quattro mani, riflessioni sul perché uno scrittore debba per forza chiudersi in un genere senza spaziare e progetti per il futuro, vola via che è un piacere. Alla fine Federico Libero, che ha tre anni e un faccino da furbetto, agguanta il microfono e dichiara, da vero professionista, signore e signori buonasera.
Fuori continua a piovere, governo di larghe intese. Scoviamo una pizzeria grazie ai potenti mezzi di connessione (leggi mio tablet), agguantiamo un taxi e ce ne andiamo a cena con Remo e famiglia, Milvia ed Elisa. Smettiamo di tremare dal freddo grazie a pizze e primi piatti del Luna Rossa (in via Pietro Micca, ve lo consiglio). Poi tutti a nanna.
Come dite? Il Salone, quello vero? Confesso che l'ho dribblato. La mattina dopo non pioveva più, il sole è apparso e la voglia di andare a chiudersi al Lingotto è volata via. Molto meglio una passeggiata sotto i portici, la visita al Museo Egizio (di una suggestione unica) e al Duomo, ma la Sindone era solo un'immagine su uno schermo con tanta gente in raccoglimento davanti.  E' bella Torino. Lo immaginavo, ma ho avuto conferma. Le ore son volate nonostante il mal di piedi. Gelatone per merenda e poi alla stazione. 
E qui veniamo a parlare del libro che ho letteralmente divorato durante il viaggio di andata e ritorno: Nix di Elisabetta Ossimoro (sì, la relatrice della presentazione). Lo avevo in versione digitale sul tablet già da tempo, la versione cartacea si è persa insieme alle brutte vicende della casa editrice che non cito, tanto non esiste più. Ennesimo caso di un esordio letterario di valore che impatta con un'editoria raffazzonata e cialtrona. E' un peccato che non possiate leggerlo, perché Nix, pur necessitando di un lavoro di editing che, ovviamente, l'editore non ha svolto, merita. Resta nella mente. Ecco cosa ne direbbe la soggettiva di ZG:

Un romanzo che, come mi succede sempre più spesso di dire, avrebbe meritato ben altra visibilità. Perché riesce a inserirsi in un genere, vogliamo chiamarlo young adult?, toccandone i punti classici senza scadere nella banalità delle produzioni più gettonate. Nicodemo Orsini è un personaggio che resta nella memoria, che vorrebbe essere antipatico e respingente e, proprio per questo, affascina da subito. Perché è bello, certo, perché ha successo con le donne. Ma ha occhi e cuore e anima troppo sensibili per non andare oltre ed avere, di se stesso, un'opinione scarsa e disincantata. Nicodemo, Nix, ha amici speciali: Ottilia (indimenticabile figura di giovane donna dai capelli rossi e dal carattere forte) ed Ermanno (un personaggio che, da solo, avrebbe meritato un romanzo). Ha una fidanzata, Giulia, che appare stupida e bellissima ma che si rivela a Nix e a noi meno insensibile e incapace di quanto ci piaccia pensare, Nix ha una sorella, Isabella, con una grandissima passione per la danza e un corpo troppo massiccio per una danzatrice. Nix ha, anche, un'ammiratrice occulta che riesce a ritrarne la vera bellezza e a vederne, fino in fondo, la paura di vivere e l'incapacità di scorgere un futuro oltre la maturità. Molti di noi hanno avuto un Nix nella loro adolescenza, da amare, da odiare, da invidiare e da rimpiangere con tutte le nostre forze. Esattamente come accade a chi, giunto all'ultima pagina, si trova costretto ad abbandonarlo. Un libro che non troverete in libreria e, fidatevi, è un vero peccato.

lunedì 13 maggio 2013

Il peso delle parole


Ne usiamo tante, tutti i giorni. E crediamo di saperle dosare, dando loro  giusto significato e peso. Ci sbagliamo. E alle parole manchiamo di rispetto. Tutti. Ma se il peccato è grave in chi comunica per le normali esigenze quotidiane, diventa tragico in chi con la comunicazione lavora. Facciamo esempi concreti. La cronaca giornalmente ci rende conto di persone di sesso femminile assassinate nei modi più brutali da persone di sesso maschile. Spesso i carnefici avevano rapporti di parentela o sentimentali con le vittime. E non mancano mai le formulette delitto passionale o, peggio, raptus della gelosia. Passione deriva dal greco pathos, parola che indica un sentimento forte al limite della sofferenza. Personale, però, non inflitta ad altri. Raptus, invece, rimanda a un moto irrazionale e momentaneo che mal si concilia con un coltello messo in tasca in previsione dell'incontro, una bottiglia di acido pronta in vista dell'appuntamento, una tanica di benzina approntata il giorno prima per mettere al rogo la strega rea di non essersi sottomessa. Non finisce qui. Ci sono parole apparentemente innocue nel contesto di una frase. Rumeno rapina anziana, maghrebino tenta di violentare studentessa, moldava partorisce in bagno e getta neonato nella spazzatura, ghanese prende a picconate passante. Sono notizie reali, titoli, fatti. Eppure, lo tocchiamo con mano tutti i giorni, identificare una persona in base alla sua etnia non è azione priva di conseguenze. Lo si fa scientemente, cavalcando un'onda. Perché quegli aggettivi sostantivizzati, rumeno, maghrebino, moldava, ghanese, rendono esplicito il messaggio. E il giudizio. Altrimenti ci capiterebbe di leggere: italiano rapina una banca. Stona? Certo che sì. Perché il termine italiano non caratterizza il rapinatore, lo colloca in un contesto neutro. In Italia, per lo più, siamo italiani quindi quel titolo non ci aiuta a capire, non descrive, non indirizza il nostro pensiero. Vale quanto scrivere sconosciuto rapina una banca. Risponderemmo: e allora? E allora vogliamo, chi più chi meno, essere aiutati, sostenuti, indirizzati. E scaricati dalla responsabilità. Se la rapina la commette un rumeno, la cosa ci tranquillizza da una parte, noi italiani brave persone, e ci fa infuriare dall'altra, tutti da noi i delinquenti. Le parole hanno un peso. Un peso grande, accresciuto da coloro che su quelle parole cavalcano per arrivare a un risultato, per sostenere una tesi precostituita, per convincere noi fruitori della comunicazione mediatica. Un raptus non è colpa di nessuno, quindi il problema della violenza di genere riguarda quella vittima e quel carnefice. Un clandestino africano che dà fuori di matto è colpa di chi i clandestini non li rispedisce al mittente. E tutti coloro che ritengono di essere vittime di un errore giudiziario possono dire di essere come Enzo Tortora. Almeno fino a quando non interviene Silvia, la figlia di Enzo, per ricordare che suo padre fu sì, vittima della giustizia, ma si difese nel processo. Non dal processo. Due paroline innocue per una differenza enorme. 

Laura Costantini

martedì 7 maggio 2013

L'arroganza del profitto


Sembra un evento lontano, di quelli che non ci riguardano. Se non fosse accaduto, pochissimi di noi avrebbero avuto presente uno stato chiamato Kentucky e quasi nessuno avrebbe sentito nominare Burkesville. Poi succede che un bambino di cinque anni prende un grazioso fucilino, lo punta contro la sorellina di due e fa bang. Lo abbiamo fatto tutti, da piccoli, anche col dito: bang e la vittima cadeva inscenando una morte eroica. Ma a Burkesville il bang detto con le labbra è stato soffocato dal bang vero. Perché il fucilino era piccolo e grazioso, a misura di braccia di bambino, ma non era un giocattolo. Era un fucile vero, con una pallottola vera. E non c'é stato niente di divertente ed eroico nel cadere a terra di un corpicino di bimba di due anni. È successo anche da noi, raramente, ma è successo. Solo che il bambino era andato a pescare, con la curiosità imprudente che è propria dei più piccoli, la pistola di papà. La tragedia, quando il grilletto è stato premuto, ha distrutto una vita e una famiglia. Ma. Ma negli Stati Uniti delle stragi nelle scuole e nei cinema. Dei pazzi che impugnano un'arma e decidono di farne fuori a decine prima di uccidersi. Di un presidente che sta cercando in tutti i modi di mettersi contro le lobbies dei costruttori di armi. In quel paese così vicino eppure così lontano, ci sono genitori che in occasione della quarta candelina sulla torta, si collegano al sito di una fabbrica di armi, cercano la pagina "my first rifle" (il mio primo fucile) e spendono circa 200 dollari per un fucile calibro 22 Crickett. Disponibile anche in rosa, per le femminucce. Non è un giocattolo. È un'arma funzionante. Porta una sola pallottola, quella che i genitori del bambino di Burkesville non ricordavano fosse ancora in canna. La mamma lo aveva lasciato solo con la sorellina, pochi minuti. Era uscita in veranda. Il bambino era comunque autorizzato a giocare col fucile. Era il suo fucile. L'azienda che lo ha prodotto, la Keystone Sporting Arms, si trova a Milton, in Pennsylvania, produce circa 60 mila armi destinate ai bambini e dichiara che "l'obiettivo è insegnare la sicurezza dell'uso delle armi ai giovani". Possiamo sperare che il piccolo di Burkesville, se e quando si renderà conto di quanto accaduto, avrà le idee piuttosto chiare sull'opportunità di tenere un'arma carica in casa. Possiamo sperare che, in nome della sorellina di due anni, crescendo diventi un oppositore della libera detenzione di armi e possiamo spingerci a credere che, quando sarà grande, le regole che Obama sta tentando di imporre abbiano fatto la differenza. Ma la realtà di oggi, quella che rende questa vicenda così vicina a noi, è l'arroganza del profitto. Le armi procurano un giro d'affari di miliardi di dollari e la vita di tanti innocenti è un prezzo da pagare a cuor leggero in nome del dio denaro. Vale anche qui. Morti sul lavoro, morti per il lavoro, morti per aver perso il lavoro. Tutte vittime dell'arroganza del profitto.
Laura Costantini