lunedì 29 luglio 2013

Negare l'immortalità

Non siamo immortali. Ma ci sono  esseri umani che l'immortalità se la sono guadagnata. La loro esistenza terrena è conclusa da tempo, ma il loro nome viene ricordato con deferente rispetto. E la loro arte tramanda emozioni, sensazioni, la parte più profonda del loro essere umani. Di fronte ai quotidiani, laici rosari di notizie negative, può sembrare sciocco soffermarsi su quanto compiuto dalla misconosciuta signora Olga Dogaru. Eppure c'è chi ha proposto di accusarla di crimini contro l'umanità. E non ha esagerato. Perché quelli che lei ha distrutto per tutelare il figlio e i suoi complici non erano semplicemente quadri. Erano frammenti di immortalità. La notizia è nota. A ottobre 2012 sono stati trafugate dalla Kunsthal di Rotterdam sette tele fra Picasso, Monet, Freud e Matisse. Indagini internazionali hanno condotto gli inquirenti fino al romeno Radu Dogaru e altri due connazionali. Chissà quale insano impulso li ha spinti a rubare opere talmente note e talmente preziose da essere di fatto invendibili. L'ipotesi di un furto su commissione di qualche miliardario collezionista senza scrupoli decade davanti all'incapacità di Radu e compagni di monetizzare il furto e dileguarsi. Ed è qui che entra in campo il più ottuso degli affetti materni. Quando Radu e compagni sono stati arrestati dalla polizia di Bucarest, la signora Olga, custode del bottino, ha acceso il forno a legna e ha dato fuoco a milioni di euro, a opere darte irripetibili, a frammenti di storia che ci appartenevano, a briciole dell'immortalità di quei grandissimi artisti. Addio al Ponte di Waterloo di Monet, alla Testa di Arlecchino di Picasso, alla Ragazza che legge in bianco e giallo di Matisse. Si dirà che abbiamo perso vecchia tela, vecchi colori, legno, chiodi. Esistono cose peggiori al mondo e ne veniamo messi a conoscenza ogni santo giorno. Ma c'è qualcosa di profondamente inquietante nel gesto di prendere capolavori simili, metterli in un forno e accendere il fuoco. Non è un atto vandalico, come lo fu quello di Laszlo Toth che prese a martellate la Pietà di Michelangelo nel 1972. Lì c'era la follia imprevedibile di un uomo malato. Qui c'è la lucida decisione di una donna nel pieno delle sue facoltà, convinta che la salvezza di un figlio dal carcere valga più di opere che la gente ammira in tutto il mondo. C'è di sicuro ignoranza rispetto agli oggetti che affastellava in un forno a legna. Ma c'è, anche, l'arroganza dell'egoismo. La totale mancanza di rispetto per un valore che travalicava, dobbiamo dirlo al passato, i milioni di euro. Bruciare quei quadri è stato un atto di inciviltà, di quelli che appartengono da sempre al genere umano insieme a irraggiungibili slanci di estasi artistica. Nei millenni che compongono la nostra storia è successo tante volte. E ogni volta ci siamo dovuti specchiare nel volto di chi, per amor di conquista, per barbarie o per salvare un figlio incapace, ci ha mostrato quanto sia fragile l'immortalità della mente. L'unica che ci sia concessa.

Laura Costantini

domenica 21 luglio 2013

L'importanza del dirsi cinico

Il dizionario ci dice che il significato, non filosofico, del termine CINISMO è: "Atteggiamento di ostentata indifferenza, di beffardo disprezzo verso la morale, i sentimenti, gli ideali umani". È un atteggiamento che non mi appartiene. Diffido dell'ostentato disprezzo, tanto più se condito dall'aggettivo beffardo. Eppure questo atteggiamento va per la maggiore. Me lo ritrovo davanti in  continuazione, in ogni contesto, reale, virtuale, lavorativo e non.

Io: "Hai sentito Tizia? È stata malissimo..."
Interlocutore, con sorrisetto beffardo: "Perché, tu ci credi?"

Io: "Ho parlato con Sempronio, ha detto che si spenderà per darci una mano."
Interlocutore, con sorrisetto beffardo: "Seeee, come no..."

Io: "Ti ricordi Caio? Ho letto il suo libro, mi è piaciuto e gliel'ho detto. Mi ha ringraziato tanto."
Interlocutore, con sorrisetto beffardo: "Credici, se ti fa piacere, ma non gliene frega un cazzo."

Io: "Ho fatto una proposta di lavoro e mi sembra che sia piaciuta molto. Mi daranno una risposta domani."
Interlocutore, con sorrisetto beffardo: "Ma ci fai o ci sei?"

Il signor Interlocutore avrà sicuramente ragione, ma per quanto mi riguarda lui e il suo sorrisetto beffardo possono abbracciare forte il loro inossidabile cinismo e andarsene caldamente a... (Scegliete voi dove. Giuro che non sorriderò beffarda).

giovedì 18 luglio 2013

Che faccia hanno gli eroi

Non dobbiamo avercene a male, noi che abbiamo addosso la maturità dei decenni. Tanti decenni. Ma l'eroismo appartiene a chi vede la vita quasi esclusivamente come prospettiva futura, non a chi abbia accumulato passato. E chissà se riusciamo a renderci conto di aver assistito a un momento storico. Frase banale questa. La usiamo spesso a sproposito, a volte con ironia, in contesti che nulla hanno a che vedere con la possibilità di lasciare un segno. Ma stavolta è vero. Abbiamo guardato in faccia un eroe. Ne abbiamo ascoltato la voce. Ne abbiamo toccato con mano il coraggio. Ne abbiamo assaporato il nome, dolce come una filastrocca per bambini. Malala. Ci dicono significhi "colei che conosce il dolore" e viene da chiedersi quale genitore oserebbe segnare il destino di una figlia con questo anatema. I genitori di Malala lo hanno fatto, in un inconscio slancio di premonizione. Perché Malala il dolore lo ha conosciuto. Il dolore in tutte le sue crudeli declinazioni. Perché, pur all'interno di una famiglia illuminata, è nata femmina in un paese (ma si potrebbe dire in un mondo) dove questa è colpa che non si perdona. È nata femmina, musulmana, pakistana, intelligente e consapevole di se stessa, dei propri diritti e di quelli delle altre come lei. Era una bimba quando si è resa conto che studiare è un'arma infallibile e che una persona istruita fa paura. Lei la paura, seppure ne ha avuta, l'ha ignorata. Ha sfidato un mondo chiuso e violento. Ha studiato, ha scritto, si è connessa al mondo della Rete e ha gridato forte le proprie aspettative, di più, le proprie pretese per il futuro. Lo ha fatto con un blog, dimostrando ai suoi nemici, perché Malala ne ha tanti, che il coraggio alberga nelle menti aperte e avide di conoscenza. Menti che non si curano del corpo avuto in sorte, corpo maschile, corpo femminile, corpo forte oppure gracile. Malala è alta meno di un metro e mezzo ancora oggi che ha sedici anni. Ne aveva solo 14 il giorno in cui il suo guanto di sfida ha colpito duro maschi barbuti, armati fino ai denti, forti e vigliacchi. Ottusi. Il maschio che è salito sull'autobus scolastico carico di "femmine oscene" appena adolescenti, le ha puntato un'arma in faccia e ha fatto fuoco con la certezza di cancellarne lo sguardo, i pensieri, il coraggio. La pallottola le ha attraversato il cranio, il collo, la spalla. Impossibile sopravvivere. Eppure Malala ce l'ha fatta. Ha conosciuto il dolore del colpo, il dolore della consapevolezza di morire, il dolore delle operazioni necessarie a salvarle la vita, il dolore di capire fino a che punto quel maschio, quei maschi, la odiano. Dolori che ha affrontato senza recedere di un passo. Da oggi se proveremo a immaginare che faccia abbia un eroe, vedremo lei. Malala. In piedi davanti all'assemblea delle Nazioni Unite. Piccola, velata, immensa. Con il dito alzato ad ammonire i potenti della Terra con la saggezza di chi sa. Sa che per cambiare tutto servono i libri. E occhi come i suoi a carpirne il sapere.

Laura Costantini

mercoledì 17 luglio 2013

Soggettiva di ZG: Gli anni belli di Marco Proietti Mancini (Edizioni della sera)

È sempre riduttivo rinchiudere una scrittura in un aggettivo. Ma cercando una definizione per questo romanzo mi è venuto alla mente un aggettivo: fluviale. La scrittura di Marco Proietti Mancini ha una portata da grande corso d'acqua, di quelli che scorrono placidi in una valle solcata da secoli, millenni di ricordi. Un corso d'acqua che, però, mantiene intatta la memoria di cascate, torrenti impetuosi, rapide assassine. Ogni singola parola si incanala nel letto che l'autore ha scelto, voluto, creato scavando significati, aprendo parentesi, ordendo una trama che raccoglie ogni singola goccia, ogni spunto, ogni deviazione attraverso un ordito preciso. Romanzo di formazione, forse, romanzo sentimentale, di sicuro romanzo storico perché senza essere mai didascalico, restituisce lo spirito del tempo degli anni Trenta. Gli anni belli del protagonista, Benedetto, giovane scalpellino di Subiaco emigrato nella Roma con velleità da caput mundi del Fascismo. Gi anni dell'illusione che tutto possa andar bene, nonostante. Nonostante una dittatura ormai consolidata, nonostante le velleità coloniali, nonostante camicie nere e fasci littori, nonostante il potere nelle mani degli incapaci di ogni tempo. Nessuno schema, una trama scarna, solo la volontà di seguire il corso delle parole e delle emozioni. Solo la forza inesausta di una sorgente che chiede di farsi ascoltare, perché racconta una storia. Una storia piccola, di un ragazzo diciottenne che affronta la vita, che incontra l'amore, che ha idee e ideali ma anche la capacità di capire dove e quando piegare la testa. Una storia minima che impatta nella Storia di questo nostro paese e ci regala un personaggio senza tempo. Quello di un uomo che dà importanza alle cose che contano veramente: un cielo stellato, una stradina di paese, il sorriso dell'amore, l'abbraccio enorme e protettivo di una madre, la speranza nel futuro. Noi sappiamo che nel futuro di Benedetto e di tutti gli italiani come lui c'è stata una guerra atroce. Ma leggendo la sua storia, vivendola, seguendo il fiume delle parole, riusciamo a illuderci che sì, siano quelli gli anni belli.

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venerdì 12 luglio 2013

Di Hula Hoop, di (troppe) birre e di scrittura

Ieri sera si è svolta a Roma la festa di chiusura dell'attività pre estiva dell'Agenzia Verba di Veruska Armonioso. Lei, da ottima padrona di casa, ha convocato scrittori e scritture nella nuova sede di Eternauta/Hula Hoop al Pigneto. C'erano sei autori selezionati da un contest di racconti, c'era il vincitore della giuria popolare (votato, a quanto pare, a suon di migliaia di mi piace su Facebook), c'era una giuria di qualità composta da Carlo Sperduti (che prende pinte di birra solo se son alte quanto lui), Simone Ghelli (cui indirizzerei alcuni autori che mi accusano di essere castrante nei miei giudizi), Frank Solitario (cui affiderei il secondo passaggio dopo Simone Ghelli sempre degli autori di cui sopra), la sottoscritta e Veruska Armonioso. Devo dire che c'è voluto coraggio per i sei autori, di cui uno presente per interposta persona di una incolpevole lettrice, a leggere i propri racconti e ascoltarne il commento in diretta della giuria. Come giustamente notava Veruska, sembrava una puntata di Amici, anche perché spesso i giurati si sono trovati in disaccordo nell'esprimere pareri su questo o quel racconto. Non citerò nomi né classifiche. Posso solo dire di aver molto apprezzato Frank Solitario propugnatore della divisione degli elaborati tra "inutile" e "quasi inutile". Molto efficace la metafora dell'autore di racconti come tiratore al piattello, dove se manchi il piattello hai ovviamente fallito la tua mission. Dei sei racconti uno ha avuto da me il massimo dei voti (il voto era segreto ma visto che è risultato vincitore a man bassa, direi che eravamo tutti d'accordo) e altri due si son ben piazzati. Mi ha consolato constatare che, sebbene tra noi giurati si siano avuti percorsi e gusti spesso antitetici, la buona scrittura ci ha convinti tutti. Quella meno buona l'abbiamo riconosciuta, tutti, subito. Ergo i criteri non sono così fumosi come amano accampare coloro che apprezzano solo peana e ovazioni, possibilmente in piedi.
Di grande scuola per tutti, me compresa, ascoltare alcuni suggerimenti di editing da Veruska Armonioso. Esperienza gradevolissima di cui, ancora una volta, la devo e la voglio ringraziare.

mercoledì 10 luglio 2013

Oro al dio mercato

Il 18 dicembre del 1935, in quella che venne considerata una delle più grandi mobilitazioni di spontaneo patriottismo mai vissute in Italia, 37 tonnellate d'oro, per la maggior parte sotto forma di fedi nuziali, vennero donate alla patria in risposta alle sanzioni inflitte all'Italia fascista per l'invasione del territorio etiopico. Ovviamente, nonostante gli annali annoverino numerosi nomi illustri tra cui quello della regina Elena e di Rachele Mussolini (che consegnò mezzo chilo d'oro e un paio di quintali d'argento), il grosso delle donazioni fu popolare. Donne e uomini che gettarono sulla bilancia gli unici monili mai posseduti: la fede nuziale e la catenina col crocifisso. Un gesto importantissimo. Un gesto anche doloroso, non tanto per il valore in sé, quanto per il simbolo. Se si escludono i ricchi di ieri e di oggi, la maggior parte di noi custodisce gelosamente gli oggetti d'oro e ne piange la perdita, in caso di furto o di necessità, lamentandone il valore sentimentale. La catenina del battesimo, l'orologio della cresima, l'anello di fidanzamento, la fede nuziale, gli orecchini per l'anniversario importante, il gioiello a ricordo della laurea. L'oro ha un valore che travalica le quotazioni. Anzi, lo aveva. Da quando la crisi ha addentato con ferocia le risorse delle persone comuni, di quelle che vivono di stipendio, si sono moltiplicati come virus malefici i cosiddetti compro-oro
Una vetrina oscurata, una scritta di colore squillante, un cubicolo e una bilancia, spesso taroccata, bastano e avanzano per lucrare sul bisogno. Perché è innegabile che c'è chi si trova con l'acqua alla gola ed è costretto, nella speranza di tirare avanti un altro mese, un'altra settimana, un altro giorno, a impegnare le gioie di famiglia. Oppure a venderle, commutando ricordi e dignità in un pugno di spiccioli. Provate a sostare fuori da un banco dei pegni o davanti a un compro-oro e a spiare i volti di chi ne esce. Sono i volti di chi, volontariamente costretto e l'ossimoro è voluto, si è dovuto arrendere e consegnare l'oro a una patria matrigna. Senza averne in cambio neanche le ossidate fedi di ferro che il regime fascista consegnò a imperituro ricordo del nobile gesto compiuto. Tutto normale. Tutto nell'ordine delle cose quando l'economia vacilla sull'orlo del baratro. Quello che non è normale, e non deve neanche sembrarlo, è che a questo mercimonio dei valori e dei ricordi prestino il volto artisti di una certa notorietà. Gente cui è stato affidato il compito di sminuire la portata del gesto, cedere aurei momenti della vita propria e della propria famiglia in cambio di spiccioli, e di renderlo auspicabile. Così vediamo un famoso attore comico, che di sicuro mai si è dovuto accostare a simile rinuncia, interpretare un vacanziero soddisfatto di aver venduto i monili di casa per potersi concedere una crociera. O un altro che vanta l'uso di un'apposita app per bloccare il prezzo più vantaggioso al grammo e poi correre a liberarsi dell'inutile bagaglio aureo. Magari per acquistare il nuovo modello di smart-phone. Una volta l'oro si dava alla patria. Adesso lo cediamo al rilancio dei consumi.

Laura Costantini

mercoledì 3 luglio 2013

Se il marchio MAFIA tira...

Ci sono argomenti che, solo a nominarli, istigano la smorfia di fastidio. L'espressione dichiara senza tentennamenti: ancora? Ebbene sì, ancora. Perché ci sono argomenti sui quali non si può e non si deve abbassare la guardia. La mafia è uno di questi. Poco meno di un mese fa si verificò un mezzo incidente diplomatico con l'Austria a causa di una paninoteca di Vienna, tra l'altro gestita da italiani, che metteva in menù panini intitolati a vittime di cosa nostra, come Giovanni Falcone e Peppino Impastato, e carnefici come Buscetta o Corleone. E, non bastasse, ne venivano illustrati i metodi di cottura sottolineando come sia Falcone che Impastato fossero stati adeguatamente abbrustoliti. Sdegno, intervento del ministro degli Esteri Bonino, scuse. Finita? No, perché se provate a digitare mafia su un qualsiasi motore di ricerca, vi si aprirà un mondo di spunti, film, canzoni, videogiochi che insegnano come si diventa mafiosi e come se ne gestisce il potere. Il tutto ovviamente indirizzato a bambini e adolescenti, i massimi fruitori di questo tipo di prodotti. Non è notizia di oggi, si dirà. Ma lo è il successo commerciale di un giocattolo prodotto da una ditta di Barberino del Mugello. Non costa poco, cinquanta euro, ma sembra proprio vero il fucilino a canne mozze, meglio noto come lupara, commercializzato dallo scorso anno in una scatola dai colori brillanti e dalla simbologia evidente. Un uomo con coppola e panciotto, baffi e sguardo cupo imbraccia la lupara. Lontani, sullo sfondo, due carabinieri da cavallo. I nemici. Immediata, eppure tardiva visto che il giocattolo è sul mercato da mesi, la reazione. Il governatore della regione Sicilia, Crocetta, ha dichiarato: "Molto spesso si gioca e si scherza su queste simbologie della mafia, solo che la gente deve capire che non sono simbologie del folclore, ma sono simbologie di morte". Scontata la difesa della ditta toscana: i bambini giocano da sempre con fucili e pistole e non per questo diventano assassini. E se un bambino si calerà, con la lupara giocattolo, nei panni del mafioso, ce ne sarà un altro che interpreterà il carabiniere. Non è così che succede quando si gioca a indiani e cowboy? Ma se gli opposti schieramenti del vecchio West si rifanno a una sorta di mitologia cinematografica, noi siamo alle prese con una realtà quotidiana. Le mafie si infiltrano ovunque, controllano attività commerciali e centri di potere, infettano interi settori della società mentre passa il messaggio, anzi è già passato, che ci sia più valore nel tizio in coppola che imbraccia la lupara che non nei due carabinieri sullo sfondo. Altrimenti come spiegare le esternazioni del calciatore Fabrizio Miccoli? Ha pianto pubblicamente, si è scusato, è stato anche difeso da auguste firme giornalistiche, certe che nel privato di una telefonata tutti usiamo termini e concetti di cui vergognarci. Potremmo dimostrare il contrario, ma resta il fatto che uno che parla col figlio di un boss e definisce Giovanni Falcone un fango è degno rappresentante di un paese dove una lupara giocattolo fa il record di vendite. 

Laura Costantini

lunedì 1 luglio 2013

È la rivoluzione che ci manca


È la rivoluzione che ci manca

Dunque vediamo. Malasanità? Ce l'abbiamo. Corruzione? Ce l'abbiamo. Istruzione che fa acqua da tutte le parti? Ce l'abbiamo. Calcio come unica fede che non conosce flessioni? Ce l'abbiamo. Quello che ci manca sono migliaia di persone in piazza. A gridare che un professore, sì, un qualsiasi professore di una qualsiasi scuola di periferia, vale più di Neymar. E se non sapete chi sia Neymar siete già un passo avanti perché è solo un ragazzo bravo a correre con una palla accanto al piede. E per questo conteso a suon di milioni, di euro, in un mondo dove sono milioni, di persone, a non sapere cosa mangiare. Quello che ci manca è la consapevolezza che la misura è colma. Quello che non abbiamo è lo sdegno per la goccia che fa traboccare il vaso. In Brasile, una delle economie cosiddette emergenti insieme a Russia, India, Cina e Sudafrica, è bastato un rincaro di pochi centesimi sul biglietto dell'autobus. E la gente ha cominciato a dire basta. Perché i trasporti pubblici fanno schifo, come da noi, perché si tolgono investimenti alla scuola, come da noi, perché si investono miliardi per nuovi stadi e infrastrutture che servono solo da vetrina per il governo. Da noi questo no, stavolta non è successo. E ne parlammo quando l'allora premier Monti ci trattò dai bambini capricciosi che siamo e disse no. Alla candidatura di Roma alle Olimpiadi. Allo spreco di soldi dei contribuenti che in quel momento, e non solo, non potevamo permetterci. Ci vuole sempre qualcuno che dica basta. Che dia un altolà. E se quel qualcuno diventa milioni di persone che manifestano in piazza contro la storia che al popolino "dagli una squadra che vince e si scorderà quello che sta perdendo", allora si chiama rivoluzione. Ed è parola che spaventa e affascina. Esalta, anche, se rimane lontana da noi, fuori dai confini. Ci consoli il fatto che non siamo soli in questo. O forse no, forse è ora che non ci consoli essere nel novero di quelli che oggi guardano al Brasile come ieri hanno guardato alle manifestazioni in Turchia o agli scioperi in Grecia o alle sfortunate e tradite primavere arabe. Con rimpianto. E con una domanda che vola di paese in paese. Da noi che non andiamo oltre una massiccia astensione elettore. Nella Spagna degli indignatos. Nell'Irlanda scippata del suo boom economico. Nel Portogallo dimenticato. Nel Regno Unito dove l'unica speranza di crescita del PIL è la prossima nascita del pargolo di William e Kate con tutto il suo indotto. Tutti insieme a chiederci: perché i brasiliani hanno avuto il coraggio di dire basta e noi no? Perché a loro non è bastato vivere in un paese mediamente democratico e in crescita? Perché non si sono limitati a guardare con invidia ricchi sempre più ricchi ed evasori sempre più impuniti? Ecco, noi ci poniamo queste domande. Loro intanto lottano e l'unica cosa che veramente gli manca è l'aceto. Per annullare l'effetto dei lacrimogeni.

Laura Costantini