martedì 27 agosto 2013

I novanta anni di Giorgio Albertazzi

Indossa una giacca corallo e pantaloni bianchi cui abbina il vezzo di un foulard blu e di un panama chiaro. Ha novant'anni e non ama le celebrazioni. Ma a questa promessa di cavalcare il secolo completo si sottomette volentieri. Si chiama Giorgio Albertazzi e gli basta parlare perché qualsiasi luogo si faccia palcoscenico e qualsiasi discorso rappresentazione. Declama Dante a memoria e lo riempie di un pathos senza pudori che manca al pur grande Benigni. Declama Leopardi e ci senti dentro il dolore senza fine di un'esistenza dove la rabbia per la deformità fisica si è fatta lente di ingrandimento per osservare la realtà con disincanto. Declama D'Annunzio e ti arriva chiaro il culto per l'eroe, per il seduttore, per il poeta soldato, per la guerra, l'azione, l'illusione di una potenza italica. Albertazzi ha pagato a caro prezzo la scelta giovanile di aderire alla Repubblica di Salò. Uno stigma, quello di repubblichino e di fucilatore di partigiani, che lo accompagna ancora oggi. Non ne parla volentieri, ma il peso glielo leggi negli occhi quando accenna alle difficoltà nei rapporti con il cinema, soprattutto: personaggio ingombrante, anche motivazioni ideologiche. Non approfondisce, lascia in sospeso. Nel tempo si è difeso, ha tentato di spiegare quel ragazzo poco più che ventenne che assisté alla fucilazione pur senza prendervi parte. Poi ha smesso. In un gioco di quelli che si facevano nella sua gioventù di liceale veniva chiesto di scegliere se stare dalla parte di Ulisse o da quella di Achille. E lui, ancora oggi, pur ammirando la profonda umanità di Ulisse, simbolo della lotta dell'uomo contro i propri limiti, sposa l'ira funesta del pelide Achille. "Achille è smagliante", spiega, "è un eroe invincibile, è umorale. Si infuria, si intristisce, si chiude nel proprio accampamento. È un individualista." È, anche, fiamma che brucia rapida e senza rimpianti. Un semidio che svetta sull'uomo Ulisse. Albertazzi parteggia per l'eterna giovinezza di chi ha accettato una vita breve ed eroica. Eppure ha novant'anni e mai come oggi riesce, per sua stessa divertita ammissione, a capire quello che è il suo cavallo di battaglia: l'imperatore Adriano. Aveva 66 anni quando portò in scena "Le memorie di Adriano" per la prima volta. "E quando recitavo dovevo fingere di acciacchi della vecchiaia, i dolori alle giunture, l'accettazione della morte. Oggi no, oggi queste cose mi appartengono". Non è più agile come l'attore shakespeariano che tirava di scherma e di boxe per essere più credibile. Non con il fisico. Ma la mente è agilissima e protesa in un balzo verso i progetti futuri. Dopo mille repliche il suo Adriano è più attuale che mai e Albertazzi, insieme al suo amico e regista Scaparro, vorrebbe farne l'ideale ed emblematico trait d'union tra il semestre di presidenza del consiglio europea della Grecia, da gennaio a giugno del prossimo anno, e quello italiano, da luglio a fine 2014. Perché, dice, Adriano era nato in Spagna, governava da Roma, aveva studiato ad Atene e continua a ricordarci, oggi, che la forza dell'occidente è la cultura. Non le banche.

Laura Costantini

lunedì 12 agosto 2013

Tutto questo è criminale

Sono 81 le donne vittime di femminicidio in Italia da gennaio di quest'anno (n.b. scrivevo una decina di giorni fa, credo siano aumentate...). Il dato è stato portato alla luce in una torrida sera d'estate, nella bella cornice d'arte di un paesino laziale tra collina e mare. Notte bianca, tante iniziative, tra queste la voce del Telefono Rosa, di Se non ora quando e della vicesindaco di una giunta quasi tutta al femminile. La violenza di genere esiste e si perpetua. La vicesindaco non poteva saperlo, ma poche ore prima una bambina di otto anni, otto anni, subiva una tentata violenza carnale in pieno giorno, in piena luce, in una strada di Napoli. Linciato e sfigurato l'assalitore, ricoverato in gravi condizioni. Ma nella notte bianca di una torrida sera d'estate la voce si leva a difendere tutte le donne. Le nostre, ma anche  quelle il cui unico torto è essere nate in un paese di religione islamica. Abbiamo parlato poche settimane fa del coraggio di una piccola grande donna, la sedicenne pakistana Malala. In questi giorni tutto il mondo parla del caso di Nada. Ancor più giovane. Se possibile, ancor più coraggiosa. Nada ha undici anni e, con l'aiuto di adulti in grado di ragionare fuori dai dettami anacronistici e assurdi dell'Islam, ha lanciato il proprio grido d'aiuto su youtube. Un volto bellissimo, occhi enormi e pieni di lacrime, la voce rotta dal pianto ma non doma, Nada ha detto di essere pronta a uccidersi piuttosto che essere venduta come sposa. Pare che la famiglia volesse lucrare su di lei strappando un buon prezzo al promesso sposo adulto e, lui sì, libero di decidere un simile abominio. Ma Nada, cresciuta con la mente aperta sulle conquiste della civiltà, ha detto no. È fuggita di casa. Vuole studiare, vuole usare Internet, vuole mantenere intatti infanzia e sogni e progetti per un futuro che travalica gli angusti confini di un paese tra i più chiusi e retrivi nella galassia islamica. Lo Yemen. Quello dello splendore architettonico di Sanaa. Quello dei rapimenti di turisti da parte di bande di fondamentalisti a caccia di fondi. Quello dove più di un quarto delle donne vengono costrette al matrimonio prima dei 15 anni perché una sposa giovane sarà una moglie obbediente, farà più figli e garantirà una fedeltà basata sul disgusto per qualsiasi uomo, compreso il proprio non scelto marito. E poco importa se un corpo ancora non maturo può soccombere a una gravidanza, come accaduto nel 2010 a una bambina di 12 anni. Morta di parto parto dopo tre giorni di travaglio. Non avete compassione?" chiede Nada lo sguardo fisso in camera in quel video che tanti vogliono credere manipolato. Perché è difficile immaginare tanto coraggio in una creatura così giovane, così indifesa. E se anche dietro quel filmato, dietro quelle parole così adulte, "hanno ucciso i nostri sogni, hanno ucciso tutto quello che avevamo dentro", ci fossero degli adulti, resterebbe l'orrore reale di tante donne costrette, vendute, usate come bestie da macello. "Tutto questo è criminale" ha detto Nada. "Tutto questo deve finire" si è risposto in una notte bianca d'estate in un paese che non vende le bambine, ma massacra una donna ogni tre giorni.


Laura Costantini

giovedì 1 agosto 2013

Di banane, di fango e di inchini

A gennaio scorso un fiume ha sfondato l'argine, indebolito, tra le altre cose, ha un intero agrumeto abusivo inserito nel suo alveo. E ha sepolto sotto migliaia di metri cubi di fango un sito archeologico che qualunque altro paese europeo avrebbe protetto come un gioiello prezioso. Sibari. Oggi quel fango, ormai secco e polveroso, è ancora lì. Non ci sono i soldi per rimuoverlo. Quasi tre anni fa c'è stato un crollo in un altro sito archeologico, patrimonio dell'umanità ma lasciato all'incuria nostrana. Pompei. Pochi giorni fa era previsto uno spettacolo di beneficenza, una raccolta fondi per mettere in sicurezza almeno una piccola parte di quel tesoro. Ma la vergogna si è consumata fino in fondo: i biglietti omaggio per autorità, amici e parenti hanno lasciato senza una sedia coloro che avevano pagato. Spettacolo sospeso. Soldi restituiti. Sabato scorso una gigantesca nave da crociera, alta come un palazzo di venti piani, lunga più di un campo di calcio, ha sfiorato la città più preziosa, originale e bella del mondo. Venezia. Uno scrittore ha immortalato quel passaggio impressionante, quel gigante che rischia di investire Riva Sette Martiri, a pochi passi da piazza da San Marco. Lui parla di venti metri. La compagnia armatrice allunga a 72. Pochi, pochissimi, in ogni caso. E ancora. Una manifestazione politica, sul palco un ministro della repubblica. Qualcuno tra la folla lancia banane, perché il ministro si chiama Cecile Kyenge, è nera, si occupa di integrazione e, secondo il vicepresidente del senato, assomiglia a un orango. Quattro eventi slegati tra loro, avvenuti in tempi e modi diversi, a volte lontani. Eppure uniti da un elemento che non possiamo e non dobbiamo permetterci di ignorare: ci stiamo imbarbarendo. Giorno dopo giorno, senza soluzione di continuità, perdiamo di vista cosa conta veramente. Giovanni Papasso, coraggioso sindaco di Cassano allo Jonio, amministratore del sito archeologico di Sibari, accompagna chiunque lo chieda a prendere visione della tomba di fango che ha inghiottito Sibari e la sua storia millenaria. Ha bisogno di cinque milioni di euro, dispera di poterli ottenere ma non inveisce contro lo stato. L'agrumeto abusivo che ostacola il corso del Crati non arriva da Roma, ma dall'illegalità diffusa. Dalla mancanza di rispetto. La stessa che ha spinto Alessandro Siani a sospendere lo spettacolo a Pompei, a restituire i soldi ai pochi che avevano pagato per vederlo e a offrire di tasca propria una somma. Con la vergogna nel cuore per tutti coloro che hanno lucrato su cariche e parentele pur di vederlo gratis. Senza vergogna, invece, l'armatore della gigantesca nave davanti a Venezia, che ne annunciava il passaggio su twitter. Pubblicità a buon mercato. Visibilità, come quella che cercavano gli anonimi vigliacchi lanciatori di banane contro Cecile Kyenge. Se questo paese non fosse ormai dimentico di se stesso, qualcuno li avrebbe visti. Fermati. Derisi. Anche picchiati, perché uno schiaffo ci serve. Uno schiaffo paterno, prima che sia troppo tardi.

Laura Costantini