martedì 26 novembre 2013

Ambasciatrici del Telefono Rosa: Nessuna più (Elliot Edizioni) ancora

















"Per essere riuscita con il suo lavoro di scrittrice, a dare voce a chi, da viva, ha parlato poco o è stata poco ascoltata, infondendo la forza e il coraggio a chi può ancora fare in tempo a salvarsi".

L'attestato di cui sopra è il mio, ma Loredana ne ha ricevuto uno uguale. Pioveva e faceva freddo ieri a Ceccano. Ma il teatro Antares era gremito e caldo dell'entusiasmo di Patrizia Palombo, instancabile e inesauribile presidente del Telefono Rosa di Ceccano - Frosinone.
Ci sono state ragazzine che hanno cantato con voce d'angelo canzoni dure, difficili, tanto più grandi e consapevoli di loro. C'è stata una giovane e bravissima attrice che ha letto i testi. E tra i testi il nostro racconto "Fuoco amico", pubblicato all'interno della raccolta "Nessuna più" (Elliot Edzioni). Ogni volta è un pugno allo stomaco. Loredana, che per motivi mille era mancata alle molte presentazioni svolte a Roma e fuori Roma, lo ha sentito interpretare per la prima volta e più volte mi ha bisbigliato nell'orecchio: "Ma lo abbiamo scritto noi?"
Sì. E no. Perché continuo a pensare che gli autori di "Nessuna più", tutti gli autori, abbiano vissuto una sorta di transfer, una possessione. Tutti sono, siamo, riusciti a dare voce a chi, da viva, ha parlato poco, oppure non è stata ascoltata. Tutti sono, siamo, riusciti a scorticarci l'anima per calarci in quei panni, in quei momenti, in quelle sofferenze.
I moltissimi complimenti che ci sono stati fatti, ieri sera, non sono solo nostri. Appartengono a Marilù Oliva, che ha fortemente voluto che Nessuna più sorgesse nel mare magno e spesso inutile delle pubblicazioni. Appartengono ai quaranta autori che hanno prodotto racconti che sono vita vissuta, anzi, vite spezzate. Appartengono a tutte coloro che, purtroppo, non sapranno mai di aver trovato una piccola voce sulle pagine di carta e dentro le anime di chi ieri sera, e tante altre sere, ascoltava e deglutiva mentre il destino di una donna si compiva per incuria, per pressappochismo, per matrici culturali marce, per vigliaccheria, per la malvagità ottusa di un maschio incapace, imbelle, meschino.
Tra le moltissime emozioni, tra le grandissime emozioni di ieri sera, voglio segnalare quella di una sala gremita, anche, di uomini. Uomini qualunque, uomini delle istituzioni, uomini giovani e meno giovani. Uomini che sono saliti sul palco perché vogliono cambiare le cose. E anche se nessuno di loro ama il termine "femminicidio" (e chi lo ama?), nessuno ha negato, nessuno ha chiuso gli occhi, nessuno ha cominciato con la sequenza del "sì però, ma forse". Si sono detti schierati accanto alle donne, insieme alle donne. Per cambiare quella cultura che, ancora oggi, fa cadere dalle nuvole il violento di turno che, interrogato da un inquirente (testimonianza di un uomo, un procuratore della repubblica) sulle percosse, sulle violenze verbali e psicologiche, scuote la testa e dice: "Ma in fondo che ho fatto di male?"

Oggi più che mai gridiamolo forte: NESSUNA PIU'

mercoledì 6 novembre 2013

Giusto e sbagliato

E se ci riappropriassimo dei concetti di giusto e sbagliato? Se ci liberassimo di quel comodo relativismo per cui c'è sempre un ma, un però, un forse che giustifica, comprende, tollera? Proviamo a guardarci intorno cercando di eliminare le sfumature. Un mondo cosiddetto civile, dove un ragazzo di 21 anni entra nel più alto palazzo del circondario, sale all'ultimo piano, esce sul terrazzo e si butta di sotto per schiantarsi su un'utilitaria non può permettersi giustificazioni. Quel ragazzo era omosessuale e si è ucciso perché era stanco di sentirsi discriminato, additato, vilipeso e umiliato. E un mondo che discrimina le persone per orientamento sessuale, colore della pelle, genere, credo religioso non è un mondo giusto. Prendiamone atto. Una società dove nugoli di distinti e danarosi professionisti dalla specchiata reputazione fanno la fila davanti a un appartamento dove due ragazzine di quattordici e sedici anni si prostituiscono, non può permettersi di far finta di non vedere. Una società che non trasmette valori alle nuove generazioni e non condanna duramente uomini maturi che comprano sesso da minorenni non è una società giusta. Diciamolo chiaramente. Un paese dove la situazione nelle carceri è allo stremo, dove i detenuti vengono tenuti nelle stesse condizioni dei polli in batteria, dove accade che un arrestato venga malmenato e abbandonato e lasciato morire, non può chiamarsi civile. Tanto più se, invece, la situazione di disagio di una singola detenuta appartenente a una famiglia disonesta ma importante, viene portata all'attenzione di un ministro della repubblica. Tanto più se quel ministro è amico della famiglia disonesta ma importante. Ancor più se il figlio del ministro per quella famiglia ha lavorato. Non ci può essere comprensione umana, non ci può essere simpatia, non ci può essere stima a consentirci di chiudere gli occhi. A permetterci di ignorare che un ministro che chiama per risolvere il problema di un amico non fa una cosa giusta. Perché è un potere che interviene a favorire un singolo, contro centinaia di altri singoli nella stessa situazione. Quel ministro ha fatto una cosa sbagliata. E gli sbagli si pagano. Poi, certo, possiamo prendere atto che tutto questo accade nello stesso posto dove ci sono voluti quasi vent'anni per rendere pubbliche le rivelazioni di un pentito. E per scoprire che avremmo potuto quanto meno tentare di evitare il consumo di mozzarelle e ortaggi e pane e pasta provenienti da una terra violentata, contaminata, avvelenata dai suoi stessi figli per amore del dio denaro. Ma se singolarmente non possiamo fare altro che indignarci nel chiuso delle nostre case, tentiamo almeno di tornare a dare valore alle parole che usiamo. E quando leggiamo che un boss della camorra pagava gli amministratori locali, facendo loro cambiare colore politico a seconda delle necessità del momento, possiamo dirlo forte, possiamo gridarlo chiaro che quello che hanno tentato di farci credere negli ultimi venti anni, meglio furbi che onesti, non è giusto. È sbagliato. E la cosa peggiore è che il prezzo lo paghiamo noi. Tutti.
Laura Costantini

lunedì 4 novembre 2013

Stereotipi, un tanto al chilo

Se la mia metà oscura fosse meno sfuggente, questa recensione potrebbe essere la prima di una serie dedicata ai romanzi infarciti di stereotipi un tanto al chilo. Ma la mia metà oscura non accetta scadenze e appuntamenti fissi, ergo...

Sulla copertina dei gioielli, un biglietto da visita e una sega che, non tutti presumo, sono in grado di riconoscere come uno strumento chirurgico. Poi il titolo, “L'allieva”. Niente di strano che la prima cosa che venga in mente sia di essere alle prese con un romanzo in stile E. I. James. 
Non si potrebbe essere più lontani. Se proprio volessimo fare riferimento all'inflazionato cardinale, al massimo potremmo pensare a 50 sfumature di banalità. Ma lasciamo stare, anzi, restiamo sulla copertina, sul virgolettato per la precisione. Perché se è vero che Luciana Littizzetto ha rischiato di morire dal ridere nel leggerlo... beh, io ho un conto milionario alle Cayman. 
Ci tengo a precisare, e più avanti capirete il perché, che non ho acquistato il libro, me lo hanno regalato in considerazione della mia passione per i gialli. Che poi se “L'allieva” è un giallo il mio conto alle Cayman non è milionario, ma miliardario. 
Ma veniamo alla trama: la protagonista, Alice Allevi, è una specializzanda in medicina legale. Bella (vaga somiglianza con Sophie Marceau), intelligente (si fa per dire), ingenua (al limite della deficienza), un po' provinciale (come le sia venuto in mente Sacrofano a una che è nata a Messina è un mistero che non me la sono sentita di approfondire), con la propensione alla gaffe, distratta, facilona, maldestra e sufficientemente “sciocchina” (il termine è dell'autrice) da aver bisogno del macho, in senso letterale, quando finisce nei guai (praticamente una pagina dopo l'altra).
Per un vezzo del caso Alice è in una boutique di via del Corso a scegliersi il vestito per l'ennesimo party in stile Grey's Anatomy quando incontra una giovane donna della Roma bene che la indirizza verso un abito nero, molto frou frou (il termine è dell'autrice). Poche ore dopo la stessa giovane donna è sul tavolo dell'istituto di medicina legale. Gli inquirenti sono indecisi fra suicidio e omicidio, la morte è dovuta a choc anafilattico, ma la Allevi propende per la seconda ipotesi.
Perché? Perché mentre era nel camerino, Alice ha involontariamente spiato una telefonata della morta, in cui l'ha sentita pronunciare queste parole:
“Non so di cosa stai parlando, sei impazzita? No? Be, allora, hai un po' troppa fantasia. Non intendo più parlarne e se vuoi delle risposte non sono certo io a potertele dare.”
Voi non ci crederete, ma tutto comincia da qui. E il peggio non è questo, ma il fatto che si protragga per 374 pagine, ringraziamenti e note dell'autrice compresi. Trattandosi di un giallo (?) non svelerò come la nostra specializzanda riuscirà a dimostrare di aver colto nel segno, ma sono sicura di non togliere nulla alla suspence parlandovi del dottor Claudio Conforti, praticamente il clone di George Clooney in E.R., la cui bellezza è direttamente proporzionale alla stronzaggine (Alice lo ammira da un punto di vista professionale, lo teme come superiore e ovviamente è succube del suo fascino), e di Arthur Paul Malcomess, doppia nazionalità, laurea in scienze politiche, fotografo free lance per scelta, al cui fascino vengono dedicate ben sedici righe. Ciliegina sulla torta, Arthur è il figlio del capo della Allevi, il “supremo”, come lo chiama nell'intimità dei propri pensieri (piuttosto confusi in realtà). Quelli più intimi, di pensieri, si dividono tra questi due campioni di mascolinità. A chi donerà il cuore la bella e perspicace dottoressa? Se ve lo dicessi svelerei l'unico vero enigma di tutto il romanzo. Gli altri protagonisti maschili non sono degni di nota, nemmeno il commissario Calligaris, un ibrido tra il tenente colombo e monsieur Travet con la tipica faccia dell'uomo cui puzza l'alito, cito testualmente. 
Ora, come sia la faccia di uno a cui puzza l'alito io lo ignoro, ma non sono riuscita a ignorare l'acronimo che la Gazzola mette in bocca alla sua protagonista per descrivere una giornalista tv: 
S.C.V.S.E.C.R.M. che sta per 
sgallettata con voce stridula e capelli rosso menopausa. 
Così come non ho potuto ignorare che il bel dottor Claudio, parlando delle possibilità di carriera delle sue sottoposte, ammette candidamente che la più dotata tra loro non ha chance per via dell'aspetto che, ricito testualmente: le nuoce come non immagini.
Se è vero che ogni scrittore mette un po' di sé nei protagonisti dei propri romanzi, mi riesce difficile separare la Gazzola dalla ragazza emotiva, immatura, consumista e con una visione della vita tra il disincantato e il perfido (n.d.a.) che risponde al nome di Alice Allevi, specializzanda in medicina legale. Ma la Gazzola è giovane, ha poco più di trent'anni. Concediamole il tempo necessario a crescere e a maturare il convincimento che, fin quando saremo noi donne ad appoggiare l'idea che ci svalutiamo come un auto, che non abbiamo possibilità se a un bel cervello non si accompagna un bel culo o che la menopausa segna la fine della nostra sessualità e l'entrata nel mondo del ridicolo, gli uomini faranno fatica a dissociare il binomio che li ha resi il sesso forte per secoli: figa=sesso, e niente altro. Perdonate la volgarità.
Quanto detto ovviamente mi consente di dissentire dalle note entusiastiche della Littizzetto e della Schisa (Il Venerdì di Repubblica) che saluta la nascita della Kay Scarpetta tricolore. L'anatomopatologa della Cornell è una 
donna non più giovane, professionale, decisa, con una grande considerazione del proprio sesso e della vita umana. Paragonarla ad Alice Allevi è come paragonare il Conte Dracula di Bram Stoker a Carletto, il principe dei mostri dei cartoni animati giapponesi degli anni '80. E' azzardato e fuori contesto.

Loredana Falcone

p.s. Ho scoperto che c'è pure il booktrailer, questo