martedì 23 ottobre 2018

Lettera di un basiji a Roberto S.

So che hai parlato di me.
Lo hai fatto in televisione e adesso le tue parole sono ovunque sulla Rete. Hai parlato di me, senza conoscermi. Hai detto delle menzogne. Ho guardato la tua faccia, ho guardato i tuoi occhi, ho ascoltato la tua voce. Le parole no, non le ho capite. Ma me le hanno tradotte. Io ora so chi sei, ma tu non sai niente di me.
Sono quello che ha sparato a Neda.
Hai mostrato la foto di quella donna, l’hai chiamata per nome, ne hai esaltato la bellezza e ne hai detto, come se la conoscessi da sempre. Da quel 20 di giugno tutto il mondo chiama per nome Neda Agha-Soltani e ne parla. Io non sapevo neanche come si chiamasse, né mi interessava saperlo.
Non era mio compito.
Sono un basiji, ho 17 anni, dieci meno di Neda. Ho impugnato il fucile Ak-47 quando ne avevo 13 e non l’ho piu’ lasciato. Non ti dirò il mio nome, so che non ti interessa. Agli occhi del mondo io sono il cecchino vestito di nero appostato su un tetto che gioca con la vita degli altri. Nessuno di voi vorrebbe sapere di piu’, nessuno di voi vorrebbe conoscermi. Avete vergogna di me.
Hai mostrato il video della morte di Neda e siete ammutoliti davanti a tutto quel sangue che esce dal naso, dalla bocca, agli occhi, dalle orecchie. Avete trattato la sua morte come un evento eccezionale. Come se non aveste mai visto morire nessuno.
Io sì. Ho visto morire in modi anche più atroci di quello. Ho dato la morte e so che io stesso morirò. Non diventerò vecchio, io.
Non so perché ti dico queste parole. Di sicuro a te non interessano. Neda Agha-Soltani era una studentessa di filosofia, era bella, era intelligente. Quel giorno in viale Kargar impugnava un telefonino e registrava quello che stava accadendo. A casa aveva un computer, avrebbe messo il video in Rete, avrebbe parlato nei blog.
Hai detto che io l’ho uccisa per questo. Hai ragione.
Tu sei nato in una nazione ricca, eppure mi dicono che nel tuo paese ci sono ragazzi proprio come me. Sì, hai capito bene. Qui ci chiamano basiji, non so che nome abbiano da voi, ma non c’è altra differenza. Nasciamo poveri e siamo destinati a rimanere ai margini, a guardare gli altri, quelli come te, quelli come Neda, andare avanti. Tu e Neda sapete parlare, sapete convincere e convincervi. Noi sappiamo soltanto che non è giusto essere condannati al margine, al confine, al ghetto.
Tu mi disprezzi. Lo diceva la tua faccia, lo dicevano i tuoi occhi, il tuo tono di voce. Il tuo disprezzo non ha bisogno di traduzione. Tu hai guardato dritto dentro l’obiettivo di una telecamera e hai preteso di vedermi, capirmi e giudicarmi. Proprio come Neda.
Quel giorno lei era lì, felice di esserci, orgogliosa di tutto ciò che in quel momento rappresentava: una donna, una studentessa, una manifestante. Mai stata ai margini, lei.
Hai mostrato la sua foto, tutto il mondo conosce la sua faccia, i suoi occhi. Aveva occhi grandi e quel giorno li ha alzati, come se mi cercasse. No, non sapeva che ero lì, non sapeva niente di me e non voleva sapere niente. Ti somigliava. Lei, in quel momento, era nel giusto, dalla parte dei buoni. E io ero il nemico. Ha alzato gli occhi e quegli occhi mi hanno trovato. Ci siamo guardati. Lei non poteva vedermi, ma mi ha guardato. Mi ha giudicato. Mi ha condannato. Il suo disprezzo e’ stata la pallottola che ha esploso contro di me. Ha sparato lei per prima. E io mi sono difeso.
Io devo difendermi da quando sono nato. Morirò difendendomi e nessuno metterà in Rete il video della mia morte. Anche se dovessi vomitare sangue, come Neda. Anche se sarò più giovane di lei, quando succederà.
Perché la mia vita vale meno di quella di Neda. Vale meno della tua.
Mi hanno detto che vivi sotto scorta perché i basiji del tuo paese hanno promesso di ucciderti. Li hai costretti tu a farlo. Perché non hai capito.
Quando nasci dalla parte sbagliata della barricata, gli sguardi come il tuo, come quello di Neda, ti piovono addosso come pietre. E se arriva qualcuno che invece di giudicarti ti mette in mano un’arma, tu l’accetti.
Ho 17 anni e se non fossi un basiji tu, così importante, così intelligente, così ammirato, non ti saresti mai occupato di me.
Mentre andava il video di Neda che affoga nel suo sangue, tutto il tuo mondo mi ha odiato. Ma per farlo ha dovuto riconoscere che io esisto. E per quelli come me, per i basiji di tutto il mondo, è una vittoria. L’unica che conosceremo.

venerdì 12 ottobre 2018

Ed ecco perché "Marcello da oggi non viene più"

Questo racconto risponde alla domanda che vi abbiamo posto alla fine del nostro racconto "Marcello da oggi non viene più".
Lo ha scritto Francesco Scipione e si intitola "Yellow fleet"

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Quando Luigi tornò a casa dopo la scuola, trovò suo padre, il Colonnello Astolfi degli Incursori della Marina, seduto al tavolo della camera da pranzo. Non gli era mai capitato di trovarlo a casa al suo ritorno. Intorno a lui tanti scatoloni catalogati e un via vai di giovani militari che li accatastavano uno sull’altro. Suo padre aveva un’espressione grave. Gli appoggiò una mano sulla spalla e gli disse:
“Dobbiamo partire. Ti porterò in Egitto, dove ci sono le piramidi dei faraoni” e abbozzò un sorriso, ben sapendo che stava indorando una pillola molto più indigesta. Gli mise in mano cinque pacchetti di figurine dell’album degli animali, sentendosi ancora più in colpa.
“Mentre finiamo di fare le valigie, vai ad attaccare le figurine all’album. Tra un’ora arriverà la macchina che ci porterà all’aeroporto”.
Sua madre aveva apparecchiato alla meno peggio il tavolo della cucina. Luigi aveva fame, ma non aveva che un pensiero: Lisa.
“Mamma, posso chiamare Lisa per avvertirla che partiamo?”
“No Luigi, sai che non è possibile”
Pensò di inscenare un capriccio con pianti e urli, ma già sapeva che sarebbe stata fatica sprecata e che nulla avrebbe smosso la militare volontà di suo padre di tenere nascosta quella partenza.
Si mise allora in un angolo ad aprire i pacchetti di figurine. E, quando aveva già perso le speranze, eccolo lì: l’ornitorinco. La gioia del ritrovamento fu pari solo al rammarico di non poterla condividere. Promise a se stesso di non attaccare quella figurina, l’ultima per completare l’album, se non insieme a Lisa. Ed avrebbero riso insieme per aver completato la collezione.
Il trasferimento in Egitto si completò in un paio di giorni. Un anno circa di permanenza nella terra dei Faraoni. Quello era, nei piani di suo padre e dei suoi superiori, il tempo da trascorrere lì. La crisi di Suez a seguito della guerra dei sei giorni obbligava i convogli ad essere scortati durante il delicato attraversamento del Canale. Ma la cosa che nessuno sapeva, era che il Colonnello Astolfi avrebbe scortato una delle quindici unità di quella che poi si sarebbe chiamata Yellow Fleet. Come quelle navi, rimasero prigionieri in Egitto per otto lunghissimi anni.
Quando tornarono a Roma, Luigi era uno sportivo adolescente. Dimostrava più anni della sua età. Ma durante il suo “esilio” non aveva dimenticato Lisa e la prima cosa che fece fu di andare a cercarla a casa sua. Mise in tasca la figurina dell’ornitorinco, che aveva gelosamente custodito in una scatolina di metallo insieme ad altre cianfrusaglie. Avendo cambiato quartiere, prese l’autobus per raggiungere la sua casa e, durante il tragitto, sentì il cuore battere di un ritmo tutto suo: allegro e leggero. Esattamente come si sentiva lui.
Ma Lisa e la sua famiglia non abitavano più li. Seppe da una vicina che incontrò al portone che suo padre era morto e che la famiglia era stata costretta a trasferirsi presso parenti, di cui nessuno conosceva indirizzo o quartiere.
Luigi si appoggiò a una macchina, deluso. Era la seconda volta, nella sua breve vita, che aveva avuto la certezza che le cose belle non durano. E fu quella esperienza a segnare la sua vita. Che non volle mai condividere con nessuno. “Le cose belle non durano”.
Luigi Astolfi diventò professore di latino e greco, seguendo la sua passione per i classici e la sua intelligenza letteraria. Da cinque anni insegnava al Liceo Classico di Rieti. Quel giorno, di ritorno da scuola, decise di fare due passi per il corso principale e si fermò alla libreria “Book Pusher”, dove era solito rifornirsi.
All’interno del locale notò le sedie e il tavolo in fondo alla saletta, usata solitamente per la presentazione di libri e scrittori. I due titolari erano molto attenti ai nuovi autori e Luigi aveva partecipato spesso a quegli eventi.
“Cosa c’è in programma?” chiese Luigi.
“Una scrittrice esordiente, Lisa Costanzi. Presenta il suo libro ‘Marcello da oggi non viene più’. È un bel libro e ha vinto un premio importante. Sarei felice se venissi. Cristina farà da relatrice”.
Il cuore di Luigi prese a battere a modo suo. Come gli era successo tanti anni prima su quell’autobus che, sperava, lo avrebbe riportato da Lisa. Come non gli era più capitato nella sua vita.
Rientrò a casa senza accorgersene. Mangiò qualcosa controvoglia e si mise a correggere i compiti dei suoi alunni, sperando che il tempo passasse come voleva lui. Ma non fu così.
Prima di uscire di casa cercò, nel fondo di un cassetto, quella scatolina metallica con dentro la figurina dell’ornitorinco, ingiallita dal tempo, ma vivida nel ricordo. La mise nella tasca interna della giacca, per essere sicuro di non perderla.
Quasi non si accorse della pioggia mista a neve che da venti minuti sta preludiando l’inverno. Aprì la porta della libreria, accompagnato dal suono argentino della campanella vintage.
…Si toglie il cappotto umido, non ha freddo. Si muove lateralmente, in punta di piedi, per non disturbare la piccola platea. Si siede in prima fila, dopo aver appallottolato e messo in tasca il cartellino “riservato” presente sulla sedia.
Lisa è lì, che lo guarda senza capire il perché. Ha lasciato il pubblico in sospeso in attesa di una risposta, gli pare di capire. Per lui non è importante. Mette la mano nella tasca interna della giacca, prende la figurina e si alza per porgerla a Lisa.
“L’ornitorinco!”, esclama soddisfatto, sovrapponendo la sua voce a quella di Cristina. E ride, felice, coprendosi la bocca con le mani, come faceva da bambino per coprire il moncone dell’incisivo sinistro. E capisce che Lisa lo ha riconosciuto quando la sente esclamare confusa “Luigi è tornato… Cioè ‘Marcello è tornato’. Questo, questo è il titolo del prossimo romanzo”.

In serata celebrarono felici il funerale a “Le cose belle non durano”.