mercoledì 27 aprile 2011

I miei articoli per "La Sesia": Tutto relativo? Non il 25 Aprile!

Era il gennaio del 1996 e Vittorio Mussolini era un anziano signore minato nel fisico ma non nella mente quando disse: “Sto per compiere 80 anni, ho visto tutto il mio mondo sparire e trasformarsi, spero di esserci ancora quando verrà scritta l’ultima parola su mio padre. E spero che a scriverla non siano più vincitori o vinti, ma uomini amanti della verità.” Non fu accontentato, non avrebbe potuto. Il secondogenito di Benito Mussolini si spense poco più di un anno dopo questa intervista e l’ultima parola sul ventennio è ancora ben lungi dall’essere scritta. Ma a lui che trascinava l’esistenza schiacciato dalle vestigia di suo padre non sarebbe dispiaciuto veder apparire sulle mura di Roma un manifesto con un’immagine di fascisti in trionfo e la scritta: “25 aprile, buona Pasquetta!!!” Dove i tre punti esclamativi sono altrettanti fasci littori. E avrebbe apprezzato di sicuro l’iniziativa delle anime belle che in provincia di Milano hanno bruciato gli addobbi realizzati per il monumento alla Resistenza. Per non parlare del moto di gratitudine che avrebbe provato nei confronti di quei tre parlamentari del Popolo della Libertà che hanno presentato un disegno di legge costituzionale per abolire la norma della Costituzione che vieta “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.” Ci disse Vittorio Mussolini in occasione di quella lontana intervista: “sono passati cinquant’anni, gli odi e le passioni si sono affievoliti e credo sia vicino il momento in cui chiamarsi Mussolini non sarà più considerato un’infamia. E questo grazie anche a mia nipote Alessandra che ha riportato la nostra famiglia nelle aule di Montecitorio.” Fosse ancora vivo, Vittorio si troverebbe d’accordo con tutti coloro che ogni anno sentono la necessità di puntualizzare che la festa del 25 aprile non è la festa di tutti. E si unirebbe al coro di quelli che invocano la pacificazione. Che poi altro non è se non mettere sullo stesso piano, di più, sullo stesso altare chi ha lottato per liberare il paese dall’oppressione della dittatura e chi di quella dittatura era autore, complice, sostenitore. È di moda, oggi, contestualizzare, operare dei distinguo: i repubblichini di Salò erano in buona fede mentre consegnavano gli italiani alle torture delle SS e i partigiani, eh, quelli non erano certo degli stinchi di santo. In barba ai timori del premier sul predominio delle sinistre nella storiografia, gli scaffali delle librerie son pieni di saggi che equiparano Marzabotto alle Foibe, le Fosse Ardeatine alle vendette partigiane. Tutto relativo, tutto contestualizzabile. Lo pensava anche Vittorio Mussolini perché quando gli chiedemmo cosa ricordasse di Adolf Hitler, il suo volto anziano si accese di un sorriso e, con voce ferma, dichiarò: “Un uomo splendido, con occhi bellissimi e profondi. Grande amante degli animali. Pranzammo insieme e fu spiritosissimo.” Tutto si riduce a una questione di punti di vista, in fondo.

Laura Costantini

domenica 24 aprile 2011

E torna il respiro

Ci sono giorni in cui mi sembra di essere da sempre dietro un angolo.
L’angolo di una strada che non conosco
ma che è la mia perché lì mi aspetta il destino.
Sto là. Immobile. Le spalle al muro e i piedi bloccati sul cemento,
intenta a respirare il mio respiro,
a cercare nel fondo di me stessa
il coraggio di superare il blocco,
di staccarmi da quelle solide mura per affrontare l’ignoto.

Ci sono notti in cui mi lascio sopraffare dal silenzio
con la speranza che la totale assenza di suoni
cancelli l’urlo che mi rimbomba dentro.

E fra le notti e i giorni
che danzano le ore della vita,
ci sei tu.
Tua è la mano che mi conduce oltre quell’angolo,
tua la voce che sconfiggerà il silenzio.
amabile compagno
Silente amico delle mie tristezze
Impavido guerriero

E torna il respiro.
Lory

venerdì 22 aprile 2011

Citata all'interno del corso di scrittura creativa "Io scrivo" del Corriere della Sera: so' soddisfazioni!

Pare che la sottoscritta sia citata nel corso "Io scrivo" del Corriere della Sera per l'articolo che segue, pubblicato sul settimanale OGGI nel lontanissimo 1997.


Su una cosa sono tutti d'accordo: non esiste un 'segreto' per essere un grande intervistatore. Anche se, come Enzo Biagi, rivelano di seguire un esempio inarrivabile. "Nella Bibbia, l'ho detto più volte, si trova quella che a mio parere è la migliore domanda che sia mai stata posta. Dio, che sa perfettamente quello che è successo, chiede a Caino, appena reduce dall'omicidio di Abele, dov'è tuo fratello? Ecco, io credo di essere un discreto intervistatore perché mi limito a fare le domande che i lettori o i telespettatori farebbero se si trovassero al mio posto. Non ho mai approvato le cosiddette domande provocatorie. Colui che chiede ad una madre che ha appena saputo dell'assassinio di suo figlio cosa prova non è un giornalista, è un deficiente. D'altronde nello sforzo di apparire super-intelligenti si può ottenere un unico risultato, quello di risultare stupidi."
"Prepararsi al massimo la prima domanda ed ascoltare con attenzione le risposte. Il resto verrà da sè." Così spiega il proprio successo di confessore televisivo Maurizio Costanzo, il fondatore del talk-show italiano. "Se si ha davanti una scaletta troppo rigida da seguire, si rischia di farsi sfuggire qualcosa di importante nelle risposte dell'intervistato. E la persona che si ha davanti potrebbe avere l'impressione che ciò che sta dicendo non sia interessante, finendo così per chiudersi in se stessa. E se in un'intervista per la carta stampata l'inconveniente si rimedia, durante un'intervista televisiva il silenzio dell'intervistato pesa moltissimo. A me è successo due volte. Erano i tempi di Bontà loro, il talk-show in Italia era una novità e non esisteva l'abitudine a raccontarsi davanti ad una telecamera. Il regista Marco Ferreri fece un'angosciante scena muta, come anche Stefania Sandrelli. Per lei si trattò di un vero e proprio crack da diretta."
Altri tempi. Oggi, almeno secondo Gigi Marzullo, la gente, soprattutto quella famosa, ha scoperto il piacere di parlare. "Non ho un segreto per convincere i miei ospiti a raccontarsi. Il desiderio di parlare è tale che basta che trovino uno scemo, in questo caso io, che dia loro il via. Poi l'importante è far loro capire che non ho intenzione di aggredirli, che voglio capire, non distruggere e che, se faccio delle domande a volte molto personali, è perché la loro esperienza, positiva o negativa che sia, è interessante per me e per tutti quelli che sono davanti al televisore. Il risultato è che si crea una sorta di magia. Sono molti quelli che, dopo l'intervista, mi dicono di aver rivelato delle cose che non avrebbero mai pensato di dire. Come ci sono quelli che non accettano di partecipare alla mia trasmissione perché hanno paura. Non di me, naturalmente, ma di quello che potrebbero dire. Una di loro è la mia cara amica Enrica Bonaccorti."
Personaggi famosi, ma anche gente comune. Ed è questa che preferisce Enza Sampò. "So che l'esercizio di bravura del conduttore con i personaggi famosi è di ricavarne un ritratto diverso da quello che il personaggio dà di solito di sè stesso. Ma non fa per me, preferisco intervistare persone con una storia da raccontare, con un'esperienza che può essere utile agli altri. E con loro le regole fondamentali sono due sole: ascoltare e non giudicare, mai. In questo modo ciò che nasce non è un'intervista, ma un dialogo a due. L'atteggiamento di comprensione, il far trapelare l'interesse per ciò che la persona sta raccontando, è importante, soprattutto per trasmissioni come Io confesso o Donne al bivio. La gente, sia quella in studio che quella a casa, davanti al televisione, capisce subito se partecipi veramente o se stai recitando."
Storie di tutti i giorni oppure vite famose. Per Maurizio Costanzo la differenza è minima. "Uso lo stesso atteggiamento con tutti, anche se è più facile far parlare una persona famosa, di spettacolo, che non una comune. Il protagonista di una storia di cronaca di solito ha in sè un'esperienza personale, spesso dolorosa, che deve venir fuori e si deve aiutarlo ad esprimerla al meglio. Partecipando, ma senza sbrodolamenti."
"Le persone che ho intervistato", racconta Enzo Biagi "erano tutte interessanti per la storia che avevano dietro. Ho parlato con grandi uomini, grandi donne ma anche grandi imbecilli. E purtroppo viviamo in un mondo sguaiato, dove anche chi non ha veramente niente da dire si sente in dovere di rendere il mondo partecipe del proprio pensiero. Di sicuro è molto più piacevole intervistare una persona intelligente. Parlare con Roberto Benigni, per esempio, è sempre una festa perché è geniale." E se deve pensare a un personaggio su tutti, il conduttore de Il fatto non ha dubbi: "Sabin, lo scopritore del siero antipolio. Non aveva mai concesso interviste e, quando fu il mio turno, gli chiesi quale fosse il segreto del ricercatore. Rispose provare 99 volte senza scoraggiarsi. E magari alla centesima si riesce. Gli dissi che era la stessa cosa per un giornalista e che quella era la mia centesima richiesta di intervista. Me la concesse."

Laura Costantini

mercoledì 20 aprile 2011

I miei articoli per "La Sesia": Per non dimenticare tutti i Vik del mondo

La Rete, la televisione, i giornali. Da giovedì scorso non esiste in Italia persona che non sappia chi fosse Vittorio Arrigoni. Che non ne abbia ascoltato la voce, visto la bella faccia adorna di barba e piercing, sentito le parole forti di Egidia Beretta Arrigoni, sindaco di Bulciago e mamma di un uomo che ha sacrificato la vita per un ideale. Rapito, offerto sanguinante a una telecamera, assassinato. Da chi e perché ce lo diranno scegliendo la soluzione più semplice e rassicurante. Terroristi, Al-Qaeda, fondamentalisti salafiti. Caso archiviato. Eppure la vicenda di Vittorio, Vik per gli amici, ha valore per ciò che è accaduto prima di giovedì scorso, per ciò che questo 36enne è stato mentre la stragrande maggioranza di noi ne ignorava l’esistenza. Si legge su una nota di Facebook: “Vittorio Arrigoni è stato ucciso. Prima di ieri non sapevo chi fosse, ho letto che era un militante filopalestinese, uno che viveva a Gaza. Per fare quella scelta di vita bisogna avere forti ideali, bisogna davvero volere un mondo migliore e avere il coraggio di lottare in prima persona. La 7 stamattina parla di “Berlusconi e la sindrome del dopo”, ieri sera Lilli Gruber intervistava Bersani. Mi sembra di essere stata rapita dagli alieni. Proviamo a dire ai giornalisti, facendo appello a quel po’ di dignità personale e professionale che può essere rimasta loro che ricomincino, subito, ad occuparsi del mondo, delle cose che succedono.” Già, dov’era Vittorio Arrigoni prima di incontrare le mani che gli hanno serrato un filo d’acciaio intorno al collo? A Gaza, certo. Oggi è tutto un fiorire di link ai suoi reportage di guerra durante l’operazione “Piombo fuso”. Parole e immagini, testimonianze in diretta mentre intorno fischiavano le pallottole dei cecchini. Chi lo ascoltava attraverso Guerrilla Radio lo conosceva bene, lo ammirava, lo considerava a ragione un giornalista, un inviato di quelli che da sempre fanno la leggenda di questo mestiere. Leggiamo su un post del blog Mentecritica: “Vittorio Arrigoni. Aveva un blog, aveva scritto un libro, faceva reportage sul campo, è stato ucciso come un cane dalle stesse persone per le quali spendeva la vita. Eppure, potenza dell’ordine e delle case editrici, su tutti i giornali è definito volontario, operatore umanitario, cooperante, nella migliore delle ipotesi blogger. Forse è perché non era stato da Fazio a leggere liste.” E insistono le voci della Rete. Insistono con le domande: “Chi sono quelli che hanno rapito Arrigoni? Perché lo hanno ucciso invece di fare lo scambio? Quanti altri cooperanti o volontari italiani ci sono in Palestina? Cosa stanno facendo?” Fa impressione pensare che se giovedì scorso qualcuno non avesse deciso che Vik aveva visto, detto, sentito qualcosa di troppo, noi oggi saremmo qui a parlare, ancora e sempre, del nostro meschino orticello intasato di immondizia, processi brevi e Ruby Rubacuori. Mentre là fuori c’è chi si batte per un mondo migliore.

lunedì 18 aprile 2011

Non mi sbagliavo

Leggo sul blog di Lara Manni che la sua ultima fatica, il romanzo "Sopdet" e' stata segnalata dal "Venerdi'" di Repubblica. Devo ancora leggerlo, ma sono orgogliosa di dire che non mi sbagliavo quando, ormai due anni fa, scrivevo sul nostro vecchio blog questa cosa qui, tutta dedicata alla bravura di Lara.









Ho letto due libri in rapidissima e divorante successione. Sono due libri che non figurerebbero mai negli scaffali di un vero, pensoso e colto intellettuale. Sono due libri che molti catalogano come letture d'intrattenimento da consumare sotto l'ombrellone.
Li ho letti con famelica voracità, pungolata da ogni singola parola verso la conclusione della vicenda. E non sono due libriccini di quelli che vanno per la maggiore oggi, da 90 pagine stiracchiate in corpo 18 per mettere insieme qualche foglio in più.
Ho letto due libri che più diversi e più simili non si potrebbe. Il primo è stato scritto da un mostro sacro ed assoluto della narrativa cosiddetta popolare, da uno che ha venduto centinaia di milioni di copie nel mondo con traduzioni in tutte le lingue in uso su questo pianeta. Il secondo è stato scritto da un'esordiente, una blogger appassionata di fanfiction, una ragazza appena trentenne che, pubblicata da una grossa casa editrice, trema al pensiero di come possa venir accolto il suo lavoro.
Il primo racconta di uno scrittore che è morto a causa della sorgente stessa della sua geniale ispirazione. Uno scrittore che sapeva entrare in un misterioso altro mondo e raggiungere una misteriosa pozza dove nuotano parole, storie, emozioni. Ma ogni parola, storia, emozione ha un prezzo. E il prezzo è l'orrore che si nasconde in quel misterioso mondo, un orrore che potrebbe avere la meglio e che, comunque, non manca mai di riscuotere i debiti che con esso si contraggono.
Il secondo libro, quello scritto dall'esordiente, racconta di una donna che ha il dono meraviglioso di trasporre per immagini un mondo altro, un mondo affascinante, di eroi, di semidei, di demoni... una disegnatrice di manga. Anche lei, di cui non sapremo mai il nome, attinge la sua ispirazione dal mondo dei sogni. Sogni particolari, sogni più reali della realtà, sogni che sono un passaggio verso quel mondo. E se lei è in grado di passare quella porta, anche i legittimi proprietari di quel mondo possono farlo e piombare qui, nella nostra vita ordinata e banale, per portare orrore, amore, passione, morte.
A ben guardare tutti e due i libri vanno oltre il semplice intrattenimento e affrontano temi che da sempre si dibattono nei salotti letterari, sì, proprio in quei posti dove nessuno dei due libri che ho letto otterrebbe mai diritto di cittadinanza. Perché da sempre chi scrive si chiede quale e dove sia realmente la fonte dell'ispirazione. E quando un personaggio assume uno spessore tale da travalicare la pagina scritta o disegnata ed entrare nella vita del lettore, costringendo quello stesso lettore a pensarlo come un essere in carne ed ossa, ad odiarlo, amarlo, desiderarlo, invocarlo, allora chi ci dà il diritto, chi ci dà la sicurezza che quella storia sia pura invenzione? Chi ci dice che quel personaggio che spinge, preme e si agita per acquistare vita propria non esista realmente in una qualche realtà alternativa? Chi può negare che uno scrittore non sia altro che un tramite per consentire a simili creature di uscire dall'oscurità e vivere?
Dice il fantasma di Albus Silente a Harry Potter nel settimo e ultimo libro della saga: "Sì, tutto questo è solo nella tua testa. Ma perché diavolo dovrebbe voler dire che non sia reale?"
E per chi fosse curioso:
il primo libro è LA STORIA DI LISEY del grandissimo Stephen King
il secondo libro è ESBAT di Lara Manni (ed. Feltrinelli)
Non comprate il primo, King non se ne avrà a male, ma correte in libreria a comprare il secondo perché, ricordatevi queste parole, di Lara Manni sentiremo ancora parlare. 

martedì 12 aprile 2011

Oggi su "La Sesia": Stato civile, precario a vita

Durante lo scorso fine settimana sono accadute due cose solo apparentemente distanti tra loro. Centinaia di migliaia di giovani (definizione che ormai comprende senza forzature i quarantenni) sono scesi in piazza per rendere evidente l’anomalia di un paese che tiene il 30 % della propria forza-lavoro nel recinto della precarietà fine a se stessa. Antonio Capuano, di 35 anni, ha subito un grave incidente d’auto e mentre scriviamo si trova in prognosi riservata in un ospedale romano. Antonio, meglio noto come Karim per chi avesse la memoria televisiva lunga, non si sarebbe mai sognato di scendere in piazza insieme a quelle centinaia di migliaia di giovani. Eppure la sua è la parabola del precario nella forma più perniciosa. Quella televisiva. Perché Karim è un prototipo. Uno che ha avuto il tempo e il modo di scoprire sulla propria pelle che tutte le promesse erano bugie. A partire da quella che bastasse avere una bella faccia, vantare un’ascendenza esotica (padre pugliese ma mamma indiana) e frequentare una palestra per sfondare nel mondo dello spettacolo. Mentre scriviamo basta digitare Karim Capuano su google per ottenere migliaia di risultati, quasi tutti riferiti all’incidente che lo ha visto protagonista nella notte tra venerdì e sabato. Insieme a un amico fotografo, Karim correva oltre i limiti sull’Appia nei pressi di Roma, a bordo di una smart. Era ubriaco, ha perso il controllo. Era felice, pare, per la firma di un nuovo contratto televisivo che dopo un lungo periodo di oscuramento poteva ridargli visibilità. Riportarlo a galla. Si potrebbe obiettare che la precarietà è una novità degli ultimi decenni per quanto riguarda una generazione di diplomati e laureati in cerca di sbocchi, ma è sempre esistita nello show-business. E sarebbe una giusta obiezione, perché precari sono stati e continuano a essere tutti i grandi dello spettacolo. Ma a Karim, che debuttò come tronista alla corte di Maria De Filippi ed ebbe il suo momento di gloria nella prima edizione della “Talpa”, il più sfigato dei reality-show, gliel’hanno raccontata diversa. C’erano file di ragazzine quando faceva le serate in discoteca, c’erano programmi tv che lo chiamavano a dire la sua su argomenti che non conosceva, c’erano gli autografi, i poster allegati ai settimanali da coiffeur. C’erano. Oggi Karim Capuano è l’unico nome non corredato da biografia aggiornata su wikipedia. Ci sono i suoi compagni della “Talpa”, ci sono i suoi colleghi “tronisti”. Manca Antonio Capuano, in arte Karim, di età tra i 34 e i 36 anni a seconda dei siti, in prognosi riservata dopo un frontale con un autobus. Troppo alti tasso alcolico e velocità e la Rete, impietosa, riporta tutta una serie di denunce, pene sospese, multe. Riporta la parabola discendente di un giovane che non sarebbe mai andato a sfilare in piazza. Ma che ha imparato sulla propria pelle che non c’è niente di bello o avventuroso nel non sapere oggi quale e se sarà il domani.
Laura Costantini

giovedì 7 aprile 2011

DIECI PASSI

Il tonfo soffocato della porta è energia che mi risucchia. Ma devo muovermi. Non posso restare. Solo dieci passi e poi finalmente… potrò respirare. Allungo la gamba ed è come se fosse altro da me. Il primo passo si distende ma il cuore resta indietro. Piede destro avanti e il sinistro a seguire. Non è difficile.



Primo passo.
Si che lo è. E comincia a far male.

Secondo passo.
Leggero, per non svegliarla.

Terzo passo.
La lettera. Non gliela leggerà mai.

Quarto passo.
Non posso portarla con me. Sarebbe sopravvivenza.

Quinto passo.
Invece lei deve vivere.

Sesto passo.
Non merita silenzi e pianti soffocati sul cuscino.

Settimo passo.
Per lei solo il meglio

Ottavo passo.
Un giorno capirà.

Nove.
Ma io l’avrò perduta…

Dieci.
Per sempre.

Lory

mercoledì 6 aprile 2011

Saluti da Lory

Cari amici,
a riprova che l'erba cattiva non muore mai, eccomi di nuovo tra voi. So che Laura non ha mancato di tenervi informati sulle mie condizioni di salute e ringrazio quanti di voi mi hanno inviato messaggi di auguri e si sono preoccupati per questa mia pellaccia. Adesso sto meglio, sono ancora un po' frastornata ma sto riprendendo le forze. Insomma il peggio è passato. Dopo sette giorni di convalescenza ( che se fossero stati di più il mio capo avrebbe rischiato un colpo ) stamattina torno anche in ufficio. La vita riprende con i soliti ritmi e con qualche pensiero in meno.
Auguro una buona giornata a tutti voi e vi stringo in un abbraccio.
Lory

I miei articoli per "La Sesia": Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani

Nel 1823 Giacomo Leopardi scriveva un libretto intitolato “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani”. Non una delle sue opere più importanti e sarebbe difficile ricordarsene se non ci fosse la Rete con la sua ricchezza di stimoli. Merito del blog principessasulpisello.wordpress.com se siamo qui a riflettere sulle parole del poeta di Recanati. A partire dalla data di pubblicazione: 1823. Siamo ben lungi dalle guerre risorgimentali. L’Italia è ancora solo un’espressione geografica, eppure Leopardi si sofferma sui “costumi degl’italiani”, dando chiara risposta a quanti, ancora oggi, contestano l’esistenza di un popolo italiano propriamente inteso. Gli italiani esistevano ben prima che si compisse l’Unità. Era la cultura a unirli, la storia comune, la lingua. Ma Leopardi non ci risparmia nulla. Non a caso negli anni dal 1823 al ‘28 tralascia i versi e si dedica a raccogliere pensieri e idee sulla società dell’epoca. E scrive nel Discorso: “Gl’italiani posseggono l’arte di perseguitarsi scambievolmente […] con le parole, più che alcun’altra nazione. Il “persifflage” (la presa in giro) degli altri è certamente molto più fino, il nostro ha spesso e per lo più del grossolano, ed è una specie di “polissonnerie” (buffoneria), ma con tutto questo io compiangerei quello straniero che venisse a competenza e battaglia con un italiano in genere di “raillerie” (derisione). I colpi di questo, benché poco artificiosi, sono sicurissimi di sconcertare senza rimedio chiunque non è esercitato e avvezzo al nostro modo di combattere.” La prosa è datata, ma il succo del discorso è evidente e Leopardi ci tiene a renderlo ancora più chiaro quando scrive che gli italiani “passano il loro tempo a deridersi scambievolmente, a pungersi fino al sangue. Come altrove è il maggior pregio il rispettar gli altri […] così in Italia la principale e la più necessaria dote di chi vuol conversare, è il mostrar colle parole e coi modi ogni sorta di disprezzo verso altrui, l’offendere quanto più si possa il loro amor proprio…” Era il 1823. L’Italia di fatto non esisteva. Eppure gli italiani (non bisognosi, ci tiene a precisare Leopardi, perché i poveri avevano ben altri pensieri) esibivano già, conclamato, quel modo di essere che oggi tocchiamo quotidianamente con mano. Il disprezzo dell’opinione altrui, della sensibilità altrui, dell’autorità. Il cicaleccio costante dei salotti televisivi ci ha abituati alla rissa verbale. Ci piace seguire gli scontri di un manipolo di morti di fama su una spiaggia caraibica o lo spettacolo di arte varia di ragazzotti anonimi chiusi in una casa a dar sfoggio delle proprie miserie. Riconosciamo in loro la parte peggiore di noi stessi. Ma ora che non c’è più un Giacomo Leopardi a sbatterci in faccia ciò che siamo, vale la pena chiederci se sappiamo ancora trasalire quando un ministro della Repubblica insulta pubblicamente la seconda carica dello Stato. E trarre dalla risposta le dovute conseguenze.
Laura Costantini

domenica 3 aprile 2011

Io colleziono targhe

Metti una domenica pomeriggio di un periodo particolarmente stressante. Metti una frase (io colleziono targhe) e un'immagine (una donna con un punteruolo insanguinato in mano) che ti frullano nella cervice da un po' di tempo. Metti che ti va di mettere tutto nero su bianco ed ecco servito un raccontino. Tanto per gradire insieme al tè delle cinque (anzi, delle sei)

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Io colleziono targhe. Lo faccio da quando ho perso il lavoro. Vado in tangenziale, lì dove confluisce la Salaria. Hai presente, no? Mi metto tutta sulla sinistra e procedo a passo d’uomo nel traffico congestionato dell’ora di punta. Lo faccio perché mi dà l’illusione di avere ancora un luogo da raggiungere, uno scopo. Quando ti tolgono il lavoro, ti tolgono tutto. Ti annullano come persona. Per questo colleziono targhe. Perché tutti quelli che mi trattano come una nullità si accorgano che invece io esisto. Vado in tangenziale, prima e seconda, sempre tutta a sinistra, raso lo spartitraffico, perché così non do fastidio a nessuno. Sono una tra tanti, ma vi guardo. Guardo le facce, i gesti. Faccio caso agli atteggiamenti. Ormai capisco prima ancora che accada perché la riconosco. La protervia. Mi piace questa parola. La usano in pochi eppure è così piena di significati. Viene dal latino protero, calpesto. Che deriva a sua volta da pro, davanti, e tero, trito o anche batto. Io li riconosco quelli che vogliono calpestarmi. Non è un caso che siate maschi. Guidate le vostre grosse auto come impugnate il vostro piccolo pisello. Con arroganza. Siete protervi. La senti la ricchezza di questa parola? C’è tutto dentro. Le parole contano. Te le ricordi le parole che mi hai detto? No, certo che no. Mi hai detto stronza. Mi hai detto troia. Mi hai detto bocchinara. Non sei stato il primo. Non sarai l’ultimo. Per questo colleziono targhe. Succede sempre. Io sono lì, sulla mia corsia. Non do fastidio a nessuno. Prima, seconda. La radio accesa senza sentirla. Vado per la mia strada, in silenzio. Una fra i tanti. Poi arrivate voi. Tu e tutti quelli come te. Fendete il traffico come foste i padroni. Senza mettere la freccia, senza fare segnalazioni. Un colpo al volante e vi infilate. Pretendete di infilarvi. Protervi. Perché nessuno ha diritto di opporsi a ciò che voi volete, alla vostra traiettoria mentale. E chi tenta di impedirvelo, lo calpestate. Succede sempre. Voi sapete che una donna non può opporsi. Un colpo di clacson, forse. Voi ve ne fottete. Tu te ne fottevi. Te lo ricordi? Dovresti. Sporto dal finestrino della tua bella auto nera e lucida. Lucida come i tuoi occhiali da sole. Lucida come i fili di bava tra le tue labbra mentre gridavi: stronza, troia, bocchinara. Io colleziono le targhe di quelli come te. Ho perso il lavoro, ma non ho perso i contatti. So a chi rivolgermi. DM837GX. Sette caratteri son bastati a trovarti, signor Angelo Didio. Non mi sono stupita del tuo nome. È arrogante, ti si addice. Memorizzo le targhe, scovo gli indirizzi e, di colpo, ritrovo uno scopo. È un lavoro anche questo, se ci pensi. Il tempo non mi manca. Mi apposto sotto casa, studio i movimenti, aspetto che quel surrogato di cazzo di cui vi servite per testimoniare che siete vivi e importanti sia incustodito. E colpisco. Lo vedi questo? L’ho comprato al supermercato, reparto cucina. C’era scritto coltello sbucciatore. Ho pensato potesse andar bene. Lama corta, affilata e sottile. Impugnatura robusta. Non mi sbagliavo. Entra negli pneumatici come fossero burro. Ha perso un po’ il filo contro le carrozzerie, ma ne valeva la pena. Perché io voglio che capiate. Lo vedi cosa ho scritto sullo sportello della tua bella macchina nera? Tangenziale + Salaria. Non avresti ricordato la mia faccia, non avresti ricordato gli insulti. Ma il tuo atteggiamento sì. Perché tu lo sai come ti comporti. Pensi sia nel tuo diritto, ma te lo leggo negli occhi che sotto la tua protervia, tu lo sapevi di essere stronzo. E sapevi pure che prima o poi questo momento sarebbe arrivato. Non che fosse nei miei piani, intendiamoci. Io colleziono targhe. Ne ho raccolte un centinaio. Vedi, ero pronta a portar via anche la tua. Mi serve ogni tanto scendere in cantina e guardarle, tutte ben ordinate nello scaffale metallico. Per ogni targa un atto di giustizia. Non mi è rimasto altro da quando ho perso il lavoro. Adesso però io e te abbiamo un problema. Se te lo chiedessi, tu saresti pronto a giurare su quanto hai di più caro che non dirai niente a nessuno, che non andrai a denunciarmi, che dimenticherai che faccia ho. Lo faresti perché adesso non hai un volante da impugnare e un cazzo di ferro e optional a proteggerti dal mondo. È inutile che annuisci. Ti conosco, ti ho visto all’opera. Non ci si può fidare di quelli come te. Sono lacrime quelle? Un Angelo Didio che si pente. È giusto. Ma non è sufficiente. Perché non è da me che puoi avere il perdono. Io colleziono targhe. La tua la conserverò così, ricoperta dal sangue. Tanto la protervia non fa mai la ruggine.