giovedì 29 giugno 2017

Questo NON è un corso di scrittura #10

La serialità, editori e lettori la vogliono, ma…

Ebbene sì, siamo alla decima NON lezione e affrontiamo un tema che poi ci condurrà a una riflessione sul mercato editoriale. No, non voglio che entriate in depressione, ma ci sono cose delle quali non si può non parlare. E la serialità è una di queste. Avete mai contattato un agente letterario? Io sì, più di uno, per la verità. E l’esperienza, con tutto il rispetto per la categoria che immagino sia formata da persone serie, è stata più che inutile deleteria. Introduco la questione agente perché sto per farvi vivere un dialogo telefonico che risale a qualche anno fa.
  • Pronto, buongiorno, sono Laura Costantini, ho avuto il suo numero da XYZ, siamo amici. Vorrei sottoporle un nostro manoscritto. Mio e di Loredana Falcone. Sa, noi scriviamo a quattro mani e...
  • Uhm. Che genere trattate?
  • Beh, veramente ne abbiamo trattati molti.
  • Sbagliato. Uno scrittore non deve confondere il lettore.
  • Capisco, però noi preferiamo non confinarci in un genere specifico perché rischiamo di annoiarci.
  • Il noir, adesso va il noir. Non per molto ancora, la parabola è discendente. Il vostro è un noir?
  • No, veramente è un romanzo storico ambientato nel Messico di Benito Juarez, c’è una giovane giornalista che…
  • Uhm, storico. Ma è fiction?
  • Scusi?
  • C’è fiction? Personaggi inventati? La gente con lo storico si annoia.
  • Certo che sono inventati. Lo sfondo è storico, ma la protagonista è una giovane giornalista italiana che…
  • È seriale?
  • Scusi?
  • Prevede un seguito? Ci sono altre vicende della giornalista?
  • Veramente no. È una vicenda chiusa.
  • Alla gente piace ritrovare protagonisti che già conosce. Vuole il personaggio seriale.
  • Beh, noi avremmo scritto due gialli che hanno per protagonisti una coppia di investigatori, un giornalista e un carabiniere.
  • Gay?
  • No, sono solo amici.
  • Uhm, i gialli stanno annoiando, ma si può vedere. Mandatemi i testi.
  • Veramente sono già pubblicati.
  • Ne avete uno nuovo con gli stessi personaggi?
  • No.
  • Allora, chiariamoci. Dovete decidere cosa volete essere. Se scrivete storico, scrivete solo storico. Se scrivete giallo, scrivete solo giallo. In ogni caso prevedete una serialità. Mai esaurire la vicenda in un unico romanzo. Almeno tre, se sono di più è meglio. Se c’è una storia d’amore è meglio. Se ci sono ostacoli e antagonisti è meglio. Il lettore va tenuto sul filo del rasoio.
  • Sì, però, vede, noi volevamo capire se questo romanzo storico…
  • Ok, avete deciso per lo storico. Allora vi presento come scrittrici di romanzi storici. Mi mandi il manoscritto e vediamo cosa si può fare. Ma vi avviso, è difficile. Le case editrici puntano altro. Storie contemporanee, seriali, un po’ tipo fiction televisiva. Ecco, perché non buttate giù un progetto editoriale seriale sulla falsa riga di una fiction? Siete in grado?

Ahinoi, rispondemmo di sì. Lavorammo strenuamente per elaborare la sinossi di tre volumi. Storia contemporanea, intreccio di amori adolescenziali e non, elemento giallo e segreto da scoprire, titolo accattivante e profonda aderenza alla realtà con tutte le problematiche correlate. Glielo sottoponiamo durante un incontro spostato d’orario e di location tre volte per venire incontro ai suoi impegni di agente del profondo nord in trasferta romana. Scorre, legge, scuote la testa, boccia. “Troppo televisivo” il verdetto. Il romanzo storico sul Messico poi è stato pubblicato, ma non grazie all’intervento dell’esimio agente.
Tutto questo per dire che il risultato non è lo stesso se si va da A a Z oppure da Z ad A. Mettiamo che scriviate una storia e vi innamoriate del protagonista. Mettiamo che vi rendiate conto che, al di là della vicenda in cui lo avete inserito, quel protagonista ha ancora molte cose da dirvi. Mettiamo che scopriate di avere per le mani un protagonista seriale, che pare una cosa Criminal Minds ma invece è, come abbiamo visto, molto positiva. Siete andati da A a Z e se il pubblico dei lettori si innamora come avete fatto voi del vostro personaggio, complimenti, avete vinto la scommessa.
Mettiamo invece che vi rendiate conto, da Harry Potter a Twilight, da Hunger Games a Rocco Schiavone, da Montalbano al commissario Ricciardi, che il personaggio seriale funziona. E che decidiate, a tavolino, di creare il vostro maghetto o vampiro o eroina distopica o commissario tormentato per poi costruirgli attorno storie, indagini, peripezie, amori. Andreste da Z ad A e, secondo il mio modesto parere, non funziona. Perché per reggere la serialità l’idea deve essere o estremamente banale oppure del tutto originale e il personaggio, maschio o femmina che sia, deve essere vero. Potreste contestare che, alla fine dei conti, tutti i personaggi sono costruiti a tavolino. Ne abbiamo parlato anche in queste nostre chiacchierate. Ma, ricordate?, ho una concezione della scrittura molto spiritual-animista. E credo che da qualche parte esistano sul serio tutti i personaggi che noi scribacchini mettiamo su carta. Esistono prima che li mettiamo su carta e sono loro a chiederci di raccontare la loro storia in uno o in cento volumi. Se siamo noi a deciderlo, ciò che ne risulterà sarà un progetto editoriale. Qualcosa di costruito. Venderà? Può darsi. Ma non resterà e, soprattutto, vi obbligherà a scrivere una serie di storie senza cuore, senza anima. Mi viene da dire senza valore. Per questo non pretendo di fare corsi di scrittura creativa. Se volete il consiglio giusto per diventare ricchi e famosi, non cercatelo qui.

sabato 17 giugno 2017

Questo NON è un corso di scrittura #9

Un posto e un tempo e un modo per scrivere


“Una donna deve avere soldi e una stanza suoi propri se vuole scrivere romanzi.” Così scrisse Virginia Woolf e chi mi conosce sa che ho riflettuto parecchio, attraverso un saggio, sulle (maggiori) difficoltà che una donna incontra nell’affrontare la strada della narrativa. Ma questo non significa che, oggi soprattutto, avere un posto per scrivere e il tempo e il modo per farlo non sia difficile per tutti, uomini e donne. Di libri non si vive, nel senso che non ci si pagano le bollette. C’è chi ci riesce e va ben oltre, ma sono pochi, credetemi. Quelli che possono farsi scrivere sulla carta d’identità professione scrittore in Italia si contano sulle dita di una mano. Perfino Umberto Eco era, soprattutto, docente universitario e semiologo. Poi, certo, possiamo distinguere tra chi si guadagna da vivere con professioni che con la scrittura hanno un qualche legame (docenti, giornalisti, sceneggiatori, autori televisivi, avvocati, anche medici) e chi invece sbarca il lunario svolgendo lavori che normalmente non metteremmo accanto alla scrittura. Commercianti, artigiani, impiegati, operai, casalinghe. Ma che si sia intellettuali o meno, tutti abbiamo bisogno di un posto, di un tempo e di un modo per dare voce alle storie che ci sussurranno nell’orecchio. Potrei raccontarvi dell’autoproclamato intellettuale che definì la mia metaforica penna prostituita perché mi guadagno da vivere con il giornalismo. A suo parere un vero scrittore avrebbe dovuto usare le parole solo per l’arte. E guadagnarsi da vivere, nel mio caso in quanto donna, facendo le pulizie in attesa del successo. D’altro canto perfino Abraham Yehoshua, nel suo “Il lettore allo specchio”, sconsigliava vivamente agli scrittori di esercitare il giornalismo in quanto contaminante della scrittura. Ma questo è un altro discorso. Quindi veniamo a noi. Nei decaloghi e nei corsi che vedo spuntare dappertutto in Rete trovo spesso la regola in base alla quale per scrivere bene bisogna scrivere molto, quotidianamente e con costanza. Tipo: ti alzi la mattina, risveglio muscolare e stretching, colazione, funzioni fisiologiche, abluzioni, almeno 4000 battute spazi inclusi e poi si va a lavoro. La scrittura non diversamente dagli addominali da irrobustire e i glutei da rassodare. Quando leggo cose del genere sono incerta tra lo sghignazzo, l’imprecazione o il pianto. So che esiste anche un sito, un contest, una roba su Internet dove ti iscrivi e scommetti con te stesso che scriverai totmila battute entro la fine del mese. C’è chi lo trova utile. Non discuto, ma mi sembra una bestemmia. Totmila battute di che? E se non hai una storia? E se la storia ce l’hai ma ti manca l’ispirazione? L’ispirazione… la parola magica. Scrivi anche se non hai l’ispirazione, leggo in giro. Non sai che scrivere, ma siediti comunque alla tastiera, leggo ancora. E giù consigli su come sconfiggere il trauma da pagina bianca. Pare che agli scrittori, quelli veri, quelli con foto in quarta di copertina in bianco e nero, lo sguardo perso nell’infinito, l’espressione dolente e il peso della responsabilità tutto buttato sulla mano che regge il mento, abbiano affrontato almeno una volta lo spauracchio del cursore che lampeggia e dello schermo che non si riempie di parole. Non mi è mai capitato. E anche per questo non tengo corsi di scrittura. Perché, vedete, io sono convinta che non esista un luogo e un tempo per scrivere. Ogni luogo e ogni tempo è adatto. Chi mi conosce sa che la mia scrittura a quattro mani con la socia Loredana Falcone avviene nella sua cucina. Entrano i figli, squilla il telefono, torna il marito dal lavoro, si deve preparare la cena. Eppure scriviamo. Forse perché quell’appuntamento siamo costrette a concedercelo solo una volta alla settimana. Poche ore, concentrate. Quanto scriviamo? Dipende, alle volte anche sette/otto cartelle di word, arial corpo 12. Sono parecchie battute, ma non le ho mai contate. Non ne capisco il senso. Mi piacerebbe avere una stanza con una bella vista, una bella scrivania e nessuno che venga a interrompere il flusso creativo? Sì. A chi non piacerebbe? Ma la scrittura non ha regole. Stephen King dice di dedicare almeno otto ore al giorno alla scrittura e c’è ancora chi è convinto che non possa aver scritto lui tutti i suoi libri. Datemi otto ore al giorno di scrittura, salvo riposi settimanali, e la quantità è assicurata. Sulla qualità lascio ad altri il giudizio ma non amo l’idea di scrivere usando semplicemente il mestiere piuttosto che l’ispirazione. Per mestiere intendo la capacità di scrivere qualcosa di corretto e apprezzabile su qualsiasi argomento e in qualsiasi momento. La vituperata professione giornalistica questo richiede e questo insegna. Ma amare una storia, sentirla dentro è altro. È come una storia d’amore e di passione. È trovarsi in fila alla cassa del supermercato e pensare a come sviluppare una scena. È essere a lavoro e aver bisogno di appuntarsi un’idea. È aspettare il giorno, l’ora e l’occasione per avere davanti una tastiera e scrivere come se ne andasse della propria vita. Non vi sto parlando di sofferenza, sia chiaro. Sto parlando di gioia, di realizzazione. Di rubare ore e minuti. Di sentirsi in colpa per tutto ciò che si trascura. E fregarsene. Un tavolo, una sedia, un computer, un tablet, un quaderno, una penna, perfino una fermata d’auto o un sedile in treno. La conosciamo tutti la storia della Rowling che matura l’idea di Harry Potter in treno e scrive il primo volume seduta al tavolino di un bar di Edimburgo. Non le è servito un posto preciso. Le è servito l’amore per una storia che ha lasciato il segno nella narrativa mondiale. Se avete un’idea, sviluppatela. Se avete una storia, scrivetela. Dove potete, quando potete, come potete. Va bene tutto, se è vero amore. Avremo modo di parlare, in una delle prossime NON lezioni, del farsi dettare generi, argomenti e storie dal mercato. Lo fanno in tanti e in tante, inseguendo vampiri, frustini sadomaso, maghetti, templari, biblioteche maledette e Bridget Jones a caccia di marito. Funziona? Forse, ma propenderei per il no, perché con i tempi dell’editoria si arriva sempre a epidemia esaurita. Darsi una disciplina nello scrivere, mettersi alla tastiera per la dose quotidiana di battute, purché sia… Non lo so, in tutta sincerità credo di avere una visione fin troppo poetica dello scrivere. Mi viene da pensare che puoi anche frequentare Hogwarts (lo avete letto Harry Potter, vero?), ma se non hai il quid nessuna bacchetta magica, nessuna regoletta, nessuna seduta forzata potrà donarti la magia di una storia che scaturisce impetuosa e non ti lascia neanche il tempo di respirare. E, occhio, non sto dicendo che se la storia vi ha catturati e costretti a buttar giù migliaia di cartelle sia valida e pronta per la pubblicazione. Ma è la vostra storia. Voleva voi. E voi avete trovato il posto, il modo e il tempo per prestarle ascolto.

sabato 3 giugno 2017

Questo NON è un corso di scrittura #8

Ambientazioni futuristiche o fantastiche e documentazione

Lo so cosa state pensando. Se scrivo fantascienza o fantasy posso suonarmela e cantarmela come meglio mi aggrada e nessuno può contestarmi niente perché sulla mia invenzione, sul mondo che ho immaginato e sui poteri dei miei personaggi sono io il solo a decidere. Giusto. E sbagliato. Sbagliatissimo. Se avete mai provato a scrivere il genere fantascientifico o quello fantasy, seriamente intendo, sapete di cosa parlo.
Cerchiamo di fare degli esempi concreti e di capire che senso ha la documentazione in questi specifici generi narrativi. E partiamo dalla fantascienza che, personalmente, adoro.
Mi capita di leggere il romanzo “Arma Inferno - il mastro di forgia” di Fabio Carta. Se amate le atmosfere alla “Dune” (avete letto “Dune” di Herbert, vero?), vi piacerà. Ebbene, Carta impiega qualcosa come una quarantina di pagine per spiegarci nel dettaglio tecnico com’è fatto, come funziona e come viene costruito uno zodion, una specie di monociclo da combattimento che la sua fantasia ha visto. E creato e reso reale. Tra giroscopi e differenziali è evidente anche al profano che Carta sa esattamente di cosa sta parlando, ergo ha studiato. Oppure ha attinto alle proprie conoscenze perché, magari, è un ingegnere oltre che uno scrittore dalla cultura impressionante.
Se affrontate la fantascienza classica (io la chiamo così), quella con le astronavi, i pianeti popolati da altre forme di vita, le battaglie stellari tra Star Trek, Star Wars o Battle Star Galactica oppure, per rimanere nella narrativa, “Fanteria dello spazio” di Robert A. Heinlein (lo avete letto, giusto?), un’infarinatura scientifico-tecnica è imprescindibile per essere credibili. Parsec, anni luce, composizione dell’atmosfera, angolo di entrata nella stessa quando si arriva dallo spazio, orbite geo-stazionarie e non, perielio e afelio, gravità, pressione atmosferica… Vi è passata la voglia? Beh, ma la fantascienza non è solo questo. Si diffonde in mille rivoli e potete sbizzarrirvi restando coi piedi ben piantati sulla cara vecchia Terra e affrontare il sempre valido plot delle origini spaziali della razza umana. Una cosa alla Stargate, avete presente? Potrete attingere a piene mani alla cripto-archeologia e saccheggiare gli spunti forniti da Peter Kolosimo di cui vi consiglio lo splendido “Astronavi sulla preistoria”. C’è un mondo nel mondo da scoprire, ma anche qui non si sfugge al discorso documentazione. E più leggerete e approfondirete e più avrete voglia di continuare a scavare.
Non fa per voi? Potreste puntare al discorso possessione aliena. “Host” di Stephenie Meyer (sì, è quella di Twilitght) ne è uno splendido esempio: una razza aliena, sostanzialmente pacifica, sta parassitando la razza umana. Si appropria dei corpi, cancella la personalità e vive l’esistenza dell’ospite. Ma succede che alcune personalità possano essere più riottose delle altre e contendere il cervello all’ospite. Ve lo consiglio e se vi state chiedendo che tipo di documentazione sia stata necessaria in questo caso, vi accontento subito: conformazione del cervello, per cominciare. E, attenzione, coerenza a ciò che si è creato. Se la presenza dell’ospite in un corpo altrimenti umano si manifesta con una precisa caratteristica, da quella non potete prescindere mentre la vostra narrazione procede. Chi scrive sa che spesso e volentieri il nemico principale siamo proprio noi stessi che ci creiamo un recinto e poi non riusciamo più a gestirlo. Più l’idea è originale e intrigante, più sarà difficile da gestire a meno di non voler incorrere in errori terribili. Un esempio cinematografico. Nell’ultimo capitolo di Star Wars (non Rogue One) esiste un dispositivo che succhia l’energia dai soli per usarla per distruggere pianeti. E va bene. Ed è situato su un pianeta che si sposta nello spazio. E va bene. Ma avete idea di cosa succede di un sistema solare quando la stella che lo regge viene fatta collassare artificialmente togliendole l’energia e, di fatto, spegnendola? Fine dell’attrazione gravitazionale per come si era creato il sistema, fine delle orbite, cataclismi, un vero e proprio collasso sistemico che distruggerebbe tutto, compreso quel pianeta ambulante che vampirizza soli. Ma a Star Wars tutto si perdona, giusto? Ecco, a voi no.

E adesso passiamo al fantasy e so che mi state aspettando al varco con la bibliografia necessaria per aver ben presente cosa mangiano gli elfi e cosa infastidisce da morire i nani. Ebbene no, Non esiste una bibliografia vera e propria. Esiste “Il signore degli anelli” di J.R.R. Tolkien, però. Ed esiste, anche, la saga di “Harry Potter” di J. R. Rowling. Vi cito questi due perché li conosco bene, ma sono certa che ce ne siano mille altri cui è possibile rifarsi per capire che il vero discrimine di un’ambientazione fantasy è la coerenza interna. Se state leggendo il capolavoro di Tolkien, in quanto lettori state accettando che esistano orchi, elfi, hobbit, nani, urukai, stregoni, la Contea, il monte Fato e Gollum. Voi sapete che tutto ciò non esiste, ma lo accettate come ambito in cui si svolge la vicenda. A patto che la vicenda abbia una propria coerenza interna dove ognuno agisca in base alle premesse e alle prerogative che l’autore gli ha affidato. Una delle cose che non vengono perdonate ai film tratti dal prequel tolkeniano “Lo hobbit” è l’elfa che si innamora del nano. Perché gli elfi di Tolkien non si innamorano dei nani. Al massimo degli umani e sono comunque guai grossi. In “Harry Potter” il potere dei Dissennatori è enorme, ma un buon Patronus funziona come deterrente. Non esistono altre armi, quindi un eroe depresso soccomberà per forza di cose di fronte alla manifestazione metafisica dell’infelicità, ché questo alla fine è un dissennatore. Noi lo sappiamo e quindi tifiamo perché l’incanto Patronus, che non esiste, funzioni. Di sicuro non speriamo che arrivi un centauro imbufalito a prendere a zoccolate il dissennatore. Perché non è così che funziona. Coerenza interna. Ci siete? Bene, questo significa che prima di cominciare a raccontare la vostra storia fantastica, abbiate ben chiare le leggi che intendete infliggere al mondo che state per creare, ai vostri personaggi e a voi stessi. Vi maledirete mille volte, dopo. Ma nessuno, meno che mai io, ha mai detto che raccontare storie sia facile.