venerdì 29 luglio 2011

CRONACHE DI INIZIO MILLENNIO: l'evento si avvicina!

La squadra e' al completo, i racconti son giunti uno dopo l'altro come le perle di una collana, l'antologia sugli anni dal 2001 al 2011 godra' della prefazione di Marino Sinibaldi. Ci siamo quasi. Mentre il resto del mondo si godra' le ferie agostane, la squadra composta dalla sottoscritta, da Loredana Falcone, da Francesco Giubilei e da Sacha Naspini (per la parte grafica) sara' a lavoro per garantire l'uscita di "CRONACHE DI INIZIO MILLENNIO" per il prossimo 11 settembre. A dieci anni esatti dal crollo delle Torri Gemelle, e' inutile star qui a spiegarvi la valenza della data scelta. Mentre e' utilissimo cominciare a presentarvi il progetto nelle sue linee di massima e gli autori che hanno aderito con entusiasmo.

Quelli tra il 2001 e il 2011 sono stati anni cruciali, caratterizzati da eventi spesso tragici che lasceranno un segno importante nella Storia. Per questo abbiamo chiesto agli autori di scegliere un momento, una data, un'emozione di questo decennio e di raccontarlo seguendo il proprio stile e la propria inclinazione. In strettissimo ordine alfabetico ve li andiamo a presentare con la loro biografia e svelando, solo, la data che hanno scelto.

Si comincia con un assolato e suggestivo
23 settembre 2001
raccontato da DANILO ARONA



Classe 1950, giornalista, scrittore, musicista, ma anche ricercatore sul campo di "storie ai confini della realtà", critico cinematografico e letterario, instancabile "nomade" editoriale e forse qualcos'altro su cui si può tranquillamente sorvolare. Al suo attivo: un incalcolabile numero di articoli disseminati qua e là tra giornali e riviste varie; saggi sul cinema horror e fantastico e saggi sul Lato Oscuro della Realtà. Da anni si dedica stabilmente alla narrativa, elaborando un personale concetto di horror italiano, legato alle paure del territorio, forse in grado di dimostrare che la nostra solare penisola è uno dei più vasti contenitori mitologici del pianeta: ormai decine sono i titoli dei suoi romanzi. Collabora, quando può, alle riviste online "Carmilla" diretta da Valerio Evangelisti e a "Horror.IT" di Andrea G. Colombo. Nel campo della narrativa breve, numerosissime sono le sue partecipazioni alle più prestigiose, e innovative, antologie degli ultimi anni: "L'hotel dei cuori spezzati","Spettri metropolitani", "Jubilaeum", "In fondo al nero", "14 colpi al cuore", "Duri a morire", "ALIA - l'arcipelago del fantastico", "Se l'Italia", "Le tre bocche del Drago", "Anime nere", "Borsalino - un diavolo per cappello", "Colpi di testa" e "Tutto il nero del Piemonte". 
And last but non least "CRONACHE DI INIZIO MILLENNIO" (Historica Edizioni) 

mercoledì 27 luglio 2011

I miei articoli per "La Sesia": fallimento con le stellette

C’è una rivelazione a far da sfondo al caso più gettonato dalla cronaca estiva: l’omicidio di Melania Rea. Una rivelazione che dovrebbe urlare ben più alto di un marito fedifrago che non ha saputo gestire le richieste di un’amante innamorata. Perché il probabile movente dell’omicidio è storia vecchia come il mondo, mentre a far da sfondo alla vicenda c’è un fallimento che nessuno è disposto ad ammettere. L’entrata delle donne nelle Forze Armate italiane è storia recente. La possibilità delle donne di vestire la divisa, partecipare a missioni e, all’occorrenza, restare uccise o ferite è stata presentata come un passo avanti sulla strada della parità tra i sessi. Le resistenze, nel più maschile e maschilista degli ambienti, ci sono state. Ma in una società dove le opportunità di lavoro si fanno sempre più esigue, arruolarsi nelle Forze Armate è un’opportunità per cui le donne si sono giustamente battute. E allora eccole le “soldatesse”: duemila nell’esercito (110mila gli uomini), mille nei Carabinieri (115mila gli uomini), novecento in Marina, ben 14mila in Polizia. Ma si tratta di un corpo smilitarizzato che ha accolto le donne fin dal 1959. Fanfare e squilli di trombe si son sprecati ogni volta che c’è stata la prima donna sottoufficiale, ufficiale, pilota, autista di mezzi pesanti, carrista, elicotterista e quant’altro. E tutti lì a congratularsi con la maturità delle Forze Armate che hanno saputo svecchiare, uscire dai pregiudizi, lasciar spazio all’altra metà del cielo. Le storie di molestie, umiliazioni e mobbing restano nell’ombra. Alle donne in divisa si chiede di non fare le femminucce e di non sciogliersi in lacrime (peggio ancora, in denunce) nel caso in cui un superiore abbia modi maschi e gagliardi. Fa parte del gioco. In questo senso, non ci stupiremmo se alle giovani reclute venisse fatto imparare a memoria il film “Soldato Jane”, dove una sensuale Demi Moore decide di farcela in un reparto incursori e sopporta tutto, compreso un quasi stupro, pur di mostrarsi all’altezza. L’importante è che l’opinione pubblica le immagini, le nostre soldatesse, marziali, belle, giovani ed eroiche. Magari mentre sfilano per il 2 giugno, quasi indistinguibili dai loro commilitoni. Poi, però, arriva un caporalmaggiore istruttore che considera la caserma dove presta servizio, e dove addestra esclusivamente donne, alla stregua di una “tonnara”. Il ricambio è completo ogni tre mesi. Ogni corso 450 ragazze, una media di 10/20 reclute per ogni istruttore. La morte di Melania Rea non ha scoperchiato soltanto il pozzo nero della sordida banalità di un maschio trentenne convinto di poter mentire impunemente. Ha portato agli occhi dell’opinione pubblica la realtà della vita militare mista. Dove le donne sono, ancora e sempre, prede. Spesso consenzienti, ancor più spesso rassegnate. E dove un sottoufficiale ci tiene a precisare: “Nulla di contrario alle regole. Non sono rapporti sentimentali, sono rapporti intimi. Io ne ho avuti sei.”

Laura Costantini

giovedì 21 luglio 2011

Adesso e' finita davvero...

Possiamo dirlo, adesso. Aver diviso in due parti la trasposizione cinematografica dell'ultimo volume della saga di Harry Potter ha avuto il valore di un accanimento terapeutico. Sia chiaro, chi come me ama e continuera' ad amare Harry e tutti i suoi compagni d'avventure, ringrazia sentitamente. Ma rimane il fatto che adesso, si', adesso e' finita davvero. Non possiamo piu' aggrapparci all'attesa, possiamo solo rileggere da capo i libri, rivedere da capo tutti e otto i dvd. E accorgerci, ancora una volta, che la magia della parola scritta non e' trasferibile in immagini. Il potere enorme, la suggestione che le parole esercitano sulla nostra mente e' qualcosa di irriproducibile. Con questo non voglio dire che il film non mi sia piaciuto. Ho trovato inutile il 3D, questo si'. Infatti mi ripropongo di rivedere il film senza gli occhialini e gustarmi la passione di Yates per le atmosfere plumbee, per il colore indefinito, per quella dominante livida che rende alcune scene quasi indistinguibili. Ma al di la' delle scelte stilistiche e narrative (anche la divisione in due film da quasi tre ore l'uno penalizza la narrazione, la continuita' e comunque non riusce a raccontare tutto cio' che la Rowling ha saputo narrarci in "Harry Potter e i doni della morte) resta l'immensa bravura dei tre protagonisti principali. Immaginavo un pathos quasi insopportabile (la scelta di andare a morire, la consapevolezza di un sacrificio necessario, l'impossibilita' per Hermione e Ron di intervenire in qualche modo per evitare l'inevitabile, i lutti, la morte di amici) e volevo che il film trasmettesse tutto questo. Ci e' riuscito solo in parte e solo grazie ai volti di Daniel Ratcliffe, di Emma Watson, di Rupert Grint. La scena in cui Harry versa le lacrime di Piton nel pensatoio di Silente e scopre quello che e' stato il suo compito fin dall'inizio, la sua espressione quando metabolizza la necessita' di consegnarsi anima e corpo alla sconfitta... Ecco, li' Ratcliffe ha saputo rendere giustizia alle parole della Rowling, alla magia della sua scrittura. Il resto sono effetti speciali (belli), musiche epiche (ma mi aspettavo di piu'), scene di battaglia e scarsa introspezione. La grandezza tragica di Voldemort si perde nella trasposizione cinematografica. Forse qualcosa di meglio c'era nella prima parte (se non l'avete visto, prendete il dvd: mi sono sentita accapponare la pelle nella scena di Hermione ed Harry, soli e alla macchia, che ballano sulle note di una canzone alla radio nell'inutile tentativo di recuperare un po' della loro giovinezza), ma insomma... e' finita. Stavolta e' finita davvero. E avrei voluto che il film mi consentisse di versare le giuste lacrime. Pazienza. Rileggero' la saga e piangero' sulle pagine tutta la mia inguaribile nostalgia.

martedì 19 luglio 2011

Oggi su "La Sesia": ancora e sempre una questione di look

Tra le notizie affluite su pagine e teleschermi la scorsa settimana, ce n’è una che tra crisi finanziaria, manovra, speculazioni e arresti assortiti è passata inosservata: una donna è stata licenziata perché ha i capelli grigi. Non è italiana, si chiama Sandra Rawline, ha 52 anni e l’assurda pretesa che una lunga e proficua carriera di manager presso una società texana possa valere più dell’infausta decisione di tenersi i capelli grigi. Come il novanta per cento degli uomini della sua stessa età. Ma ha fatto i conti senza quell’insieme di leggi non scritte ma valide in qualsiasi angolo del globo, in base alle quali una donna non ha alcun diritto di mostrare e dimostrare la propria età, il proprio peso e la propria capacità alleggerita da qualsiasi orpello modaiolo. Pare che la società texana, auspice il trasferimento in un quartiere più chic di Houston, abbia chiesto a tutti i propri dipendenti una maggiore attenzione nella cura del look. E abbia imposto alla Rawline un aut-aut: o la tintura o il licenziamento. Ovviamente la signora non ha accettato l’ultimatum ed è poi corsa da un avvocato il quale ha dichiarato: “Credo che nessuno dovrebbe essere imbarazzato o umiliato perché sta invecchiando”. Sacrosante parole, ma riportiamo lo sguardo in patria e diamo un’occhiata in giro. Spulciamo tra donne di spettacolo, donne della politica, donne manager. A parte Rosy Bindi (che non ha mai puntato sul proprio look) e pochissime altre, l’imbiancare dei capelli a causa dell’età è assolutamente bandito dalla ribalta, insieme alle rughe, al sovrappeso, alla dannazione di non indossare una taglia 40. Per essere un paese sempre più vecchio, anagraficamente parlando, abbiamo un sacrosanto orrore per tutto ciò che può spingerci oltre la soglia degli anta agli occhi del mondo. E se uomini come Casini e Rutelli fanno del capello canuto un vezzo, provate a chiedere a Daniela Santanché di rinunciare alla quindicinale seduta di tintura. Spulciando in Rete sull’argomento, appare evidente lo sforzo di sbandierare un’inversione di tendenza proprio tra coloro che le tendenze le inventano. Pare che gli stilisti abbiano compreso che il loro pubblico non sono le teenager, ma le donne vere. Un colpo di genio la cui immediata conseguenza sarebbe il ripescaggio delle top anni ‘90, preferite alle scheletriche 16enni. Non solo.
Pare che la top del momento sia la modella Kristen McMenamy. Quarantacinque anni e una caratteristica peculiare: i lunghi capelli grigi che ha deciso di lasciare “nature”. Foto della McMenamy alla mano, possiamo dichiarare che una rondine non fa primavera, almeno fino a quando non saranno proprio le donne a perdonarsi e perdonare il proprio essere imperfette. Strada tutta in salita se una bellezza come Vanessa Incontrada, che non ha ancora i capelli grigi ma qualche chilo ben distribuito sì, ha rischiato la depressione per la malevolenza delle colleghe che non le perdonavano forme giunoniche da neomamma.
Laura Costantini

giovedì 14 luglio 2011

La legna, l'inverno e le agenzie di rating

Vecchia barzelletta: un pellerossa va dallo stregone e domanda come sara' l'inverno a venire. Freddo, risponde lo stregone. Il pellerossa va a raccogliere legna. Un vicino di tepee lo vede e va dallo stregone. Come sara' l'inverno? chiede. Freddo. Ma freddo freddo? Freddo freddo, conferma lo stregone. E il pellerossa va a raccogliere legna. Lo scorge una squaw e va dallo dallo stregone. Come sara' l'inverno? Chiede. Freddo freddo. Ma freddo freddo freddo? Si', ratifica lo stregone. E la squaw va a fare scorta di legna. La vede il capo del villaggio e va dallo stregone. Come sara' l'inverno? Freddo freddo freddo, risponde. E da cosa lo arguisci? si informa il capo. Che ne so? risponde lo stregone, son tutti li' a raccogliere legna...
Ecco, io di agenzie di rating non ci capisco niente, ma ho come l'impressione che la logica con cui decidono che una nazione sia inaffidabile economicamente sia piu' o meno la stessa dello stregone indiano.

martedì 12 luglio 2011

Oggi su "La Sesia": arriva Masotti e Mosca diventa un lunapark

Se si è abituali fruitori del Tg1 si ha ben chiaro il menù. Si apre con la notizia del giorno, si continua con la politica, si passa alla cronaca (meglio se nera e truculenta), poi si alleggerisce con notiziole di “costume” che addolciscono la pillola e facilitano la digestione. Patria d’elezione delle notizie di alleggerimento è da sempre la Gran Bretagna. Salvo rari casi, il corrispondente da Londra ha da raccontarci le bizze di Camilla, lo stato di salute di cani e cavalli della regina, ultimamente l’interminabile viaggio di nozze di William e Kate. Per trattare simili argomenti è necessario che l’inviato sia uno poco aduso a prendersi sul serio. In principio fu l’indimenticabile Sandro Paternostro, poi c’è stato l’ironico cipiglio di Antonio Caprarica. Un’istituzione almeno fino a quando il solito girotondo di poltrone post elettorale non lo spedì in quel di Parigi, sostituendolo con Giovanni Masotti. Va detto che il nostro si caratterizzò per la peculiare dizione, per i variopinti foulard e per l’acconciatura da anziano moschettiere ancora sulla breccia. Adattissimo per raccontarci le divertenti malefatte dei Windsor al gran completo. Ma Caprarica, che ha in grande uggia i francesi, rivoleva la sede londinese e la scorsa estate seppe muovere le proprie pedine. Da un giorno all’altro il povero Masotti si ritrovò scippato di sede e congruo stipendio da inviato. Immediato ricorso al Tribunale del Lavoro, reintegro ed eccolo riapparire in quel di Mosca. Ora le corrispondenze da Mosca, anche dopo la caduta del Muro, hanno sempre un sapore insipido. Mai una notizia curiosa, mai un’immagine stravagante. Il grigiore dei piani quinquennali sembrava inamovibile dall’ex Unione Sovietica. Il massimo dell’alleggerimento era il record di freddo toccato in Siberia. Ma avevano fatto i conti senza Giovanni Masotti. A dimostrazione che non è la sede a fare il corrispondente, zazzera ondulata e trequarti maladrino, Masotti ha trasformato Mosca in una succursale dell’ormai chiuso “News of the world”. Dimentico di qualsiasi decisione politica di Putin e Medvedev, alieno dalle problematiche della libera informazione nel paese che ha visto l’assassinio di Anna Politkovskaja e Anastasja Baburova, deciso a dimenticare Cecenia e mafia russa, Giovanni Masotti ci ha fatto scoprire il lato frivolo di una Mosca “da bere” come una vodka ghiacciata, possibilmente alla fragola. Eccoci dunque informati sul primo centro benessere a cinque stelle per cani, sulla possibilità di ordinare una sauna a domicilio o, nel momento in cui scriviamo, di una corsa a premi riservata a bellissime moscovite in tacchi a spillo e minigonna. Tutte hanno sul sedere una scritta: “con gambe così, a che serve il cervello?” Masotti ce la traduce con un gran sorriso, di tre quarti, con l’ondulazione della capigliatura irrigidita dalla lacca. E viene da pensare che anche da inviato bastino look e gusto da rotocalco per fare a meno di tutto il resto.
Laura Costantini

domenica 10 luglio 2011

Sangue del suo sangue


Bando alle ciance, il romanzo di Gaja Cenciarelli "Sangue del suo sangue" edito da Nottetempo è uno dei libri migliori che abbia letto quest'anno. E ne ho letti già parecchi. Quindi vi segnalo che giovedì 14 luglio a Viterbo, presso la sede temporanea della Libreria del Teatro in piazza San Carluccio, nel cuore pulsante d Caffeina Cultura 2011, Gaja presenterà il suo libro affiancata da Giorgio Nisini e Laura Verga (che leggerà alcuni brani): SIATECI! 

E adesso il mio piccolo parere sul romanzo:

“Le parole non dicono solo quello che tu vuoi fargli dire. Devi leggere tra le righe, e tra una lettera e l’altra. È lì che si sviluppa il loro potere.”
Un potere che questo romanzo, impossibile da incasellare in un genere letterario, dispiega guadagnandosi una qualifica che troppo spesso sentiamo spendere senza motivo. “Sangue del suo sangue” è un romanzo scomodo, sul serio. Perché capovolge le categorie cui siamo abituati e ci pone domande spiazzanti. Una su tutte: che succede se la vittima è peggiore del carnefice? Perché il generale Scarabosio, ufficiale dell’Arma assassinato dalle Brigate Rosse, era ben altro che uno specchiato padre di famiglia tra le mura domestiche. E la sua tragica morte potrebbe costituire motivo di sollievo per Massimiliano e Margherita, i suoi figli, se l’inferno che ha costruito per loro non avesse mura impossibili da scalare. Con una scrittura elegante, che evidenzia il lavoro di lima senza mai tradirne la fatica, l’autrice ci cala in una storia minima che non si permette di restare tale. Perché la storia di Margherita è il fulcro di un momento storico, le elezioni del 2006, che mai come oggi appare attuale. Chiamata a presiedere un comitato che rappresenti le vittime del terrorismo, la protagonista si trova costretta a difendere pubblicamente la memoria del proprio carnefice. E a supportare lo sforzo revisionistico di Bruno Chialastri, imprenditore (verrebbe da dire faccendiere) con aspirazioni politiche e con la volontà di cancellare gli anni di piombo dai libri di storia. La sua tesi è che l’ideologia fosse solo un pretesto per un gruppo di delinquenti comuni, decisi a mettere a ferro e fuoco il paese al solo scopo di guadagnarsi denaro e potere. “Come tutti”, si lascia sfuggire Chialastri durante un colloquio con il proprio mentore politico, l’onorevole De Martiis. E non mente. Anche il gruppo di emuli delle BR che medita di assassinarlo nel giorno delle elezioni politiche punta al potere. Del simbolo, della memoria. Della paura. Un vortice di intenti colpevoli che ruota intorno a Margherita e al suo sforzo di riappropriarsi della propria esistenza. Non sappiamo se riuscirà, ma nello sguardo disincantato che l’autrice dedica al nostro tempo, lei è l’unica scintilla di speranza.

Laura Costantini

mercoledì 6 luglio 2011

I miei articoli per "La Sesia": il principio costituzionale del NIMBY

L’acronimo è anglosassone ma il principio del N.I.M.B.Y. (not in my back yard ovvero mai nel mio cortile) andrebbe aggiunto come articolo 1 bis della Costituzione italiana. Perché ci appartiene profondamente. Perché ci è connaturato in quanto postulato necessario all’incapacità di concepirci come membri di una società. Un evasore tributario totale (se ne trovano a centinaia ogni giorno, senza per questo riuscire a recuperare un gettito che colmerebbe perfino l’abisso del debito pubblico nazionale) vi dirà che se lo Stato fa niente per lui, perché dovrebbe pagare le tasse? Si badi bene che niente include servizi, strade, fogne, sanità, tutela dell’ordine pubblico. Tutte cose cui l’evasore totale ritiene di aver diritto gratis et gratia Dei  per il fatto di far parte di questa comunità. Una comunità dove tutti hanno ben presenti i diritti e nessuno ha mai sentito parlare di doveri. Tutti in Italia posseggono un cellulare (in realtà più di uno) e pretendono una ricezione perfetta. Però nessuno vuole un ripetitore di segnale nelle vicinanze della propria casa. Pare che le onde elettromagnetiche possano far male e quindi: mai nel mio cortile. Più o meno tutti in Italia si sono resi conto che l’aria delle grandi città è irrespirabile e che sarebbe bene passare all’utilizzo di quelle energie alternative e rinnovabili di cui il nostro paese gode per posizione geografica e privilegio climatico. Però i pannelli solari, per quanto utili, non sono poi una gran bellezza e quindi: mai davanti alle mie finestre. Per non parlare delle pale eoliche. Suggestive quanto si vuole, ma rovinano il panorama e quindi: mai sul crinale della mia collina. Nessuno, o quasi, in Italia trova divertente dividere l’umido dall’indifferenziato, l’alluminio dalla plastica, il cartone unto della pizza dalla carta riciclabile dei giornali. Nessuno rispetta chi si impegna nella differenziata e c’è sempre chi contamina i cassonetti del vetro col monitor del vecchio computer o quelli dell’alluminio con i flaconi del detersivo. Tanto, è la giustificazione, finisce tutto nella stessa discarica. Quella discarica che puzza, cola schifezze, contamina l’aria quindi: mai nelle prossimità del mio quartiere. E poco importa se la discarica c’era prima del quartiere. Sorto abusivo e poi opportunamente condonato. A tutti gli italiani è capitato di percorrere l’autostrada. Comoda, veloce, certo una corsia in più farebbe comodo. Quasi nessuno fa caso a quel casolare, quella fattoria, anche quella chiesetta che, da un giorno all’altro, si è trovata ad affacciare su un nastro di asfalto dove tutti corrono quando possono e nessuno spegne il motore quando si è in coda. Ai proprietari non è riuscito il gioco del mai nel mio cortile. Non ne conosciamo i motivi, ma dobbiamo essere loro grati. E alzare gli occhi alla Val di Susa e chiederci, mentre l’Europa ci guarda e non capisce, quanto ci costeranno quel cortile incontaminato e quella montagna inviolata.

Laura Costantini

lunedì 4 luglio 2011

La montagna come metafora della vita

Sgombriamo subito il campo da ogni possibile equivoco: sono una trekker della domenica, io. Niente a che spartire con chi la montagna la vive sul serio, con passione e sacrificio. Mi alleno a camminare quando mi ricordo, quando ho tempo, quando non piove. Ho dalla mia una buona costituzione fisica (sana e robusta, direbbe il certificato medico), gambe solide, cuore e polmoni ben conservati. Quindi una volta l'anno salgo dalle parti delle Dolomiti e mi arrampico con una certa qual dose di presunzione e incoscienza, a dirla tutta. Perché mentre son lì che sputo l'anima sui sentieri, sorpassata con uno sguardo di malcelata compassione (e giustificato fastidio) da montanari veri, mi rendo conto. Tocco con mano quanto impreparata io sia ad affrontare quelle pendenze, quei passaggi, quelle difficoltà che sono il pane quotidiano di chi ha fatto della montagna una scelta di vita. Mi chiederete allora perché tanta fatica, perché arrampicarsi quando si può raggiungere la stessa meta con una comoda funi-seggio-cabinovia? Prima di contrarre il virus me la facevo anch'io questa domanda. E pensavo che il tutto si risolvesse con una questione un po' superomistica di sfida con se stessi, anche a rischio della propria incolumità. Poi un viaggio in Nepal (se vi va lo leggete QUI) e una sorta di illuminazione di fronte a uno stile di vita diametralmente opposto al nostro. Inerpicarsi con fatica e sudore su per un sentiero, arrivare alla meta contando solo sulle proprie forze, scorprirsi capace di sacrificio e volontà. E' questo che ti insegna la montagna. E' questo che ti spinge, anche se come me sei solo una trekker della domenica, a guardare con fastidio le manasde di turisti che in scarpe da ginnastica e sandali invadono luoghi un tempo inviolati. Gridano, ridono, scherzano, si fanno vicendevoli fotografie e non si rendono conto di dove sono. Non possono. Si sono lasciati trasportare dalla tecnologia e magari non hanno dedicato neanche un pensiero a coloro che per primi hanno raggiunto quei luoghi con la sola forza delle proprie gambe e hanno reso possibile la realizzazione di funivie spericolate. La montagna, non sono certo io a scoprirlo, è una metafora della vita. E so che non molti saranno d'accordo, ma le cose conquistate contando solo sulle nostre forze, hanno tutto un altro sapore.