lunedì 30 aprile 2012

Scrittrici provinciali e con evidente complesso di inferiorità offronsi

"Una delle peggiori tentazioni per gli scrittori che si sentono provinciali e hanno un complesso di inferiorità, è quello di trasferire le trame dei loro romanzi all'estero: magari in Afghanistan, magari nella Grande Mela. I risultari, quasi sempre, sono pessimi: perchè i luoghi comuni stanno lì come tante bucce di banane pronte a far scivolare il temerario romanziere." [Giorgio Montefoschi in prima pagina del Corriere edizione di Roma]
Stamattina apro FB e trovo riportato questo stralcio da quello che è, a tutti gli effetti, il nostro attuale editore (Francesco Giubilei di Historica Edizioni). Il suo non era un sottile avvertimento nei confronti del vostro duo scrittorio preferito (Lauraetlory) ma una provocazione bella e buona perché di questo argomento, che ogni tanto riemerge e rilancia un annoso dibattito, abbiamo già abbondantemente disquisito con lui. E non solo. Partiamo dall'inizio. Pare che da sempre gli addetti ai lavori invitino gli aspiranti scrittori (più o meno il 95% degli italiani alfabetizzati) a scrivere di ciò che conoscono. Dando per scontato che conoscano il pianerottolo del condominio, la strada dell'ufficio postale, il loro posto di lavoro, la stazione della metro e, forse, la piazza principale del paese/città dove vivono. Punto. Non è contemplato che l'aspirante scrittore, (che in quanto aspirante deve essere a) umile e pronto a obbedire, b) necessariamente limitato) possa, che so?, aver conseguito una laurea in criminologia nella più importante università degli Stati Uniti dove vive dalla tenera età della scuola materna. Se ne deduce che, a dar retta a Giorgio Montefoschi, un eventuale noir ambientato a New York del suddetto esordiente debba essere scartato a priori. Ci fa sapere Wikipedia che i romanzi del suddetto Montefoschi, scrittore e critico italiano, "sono spesso ambientati per le strade e negli ambienti della borghesia di Roma". Egli è nato nella capitale e quindi si presume che conosca a tappeto le strade e gli ambienti della borghesia. Occhio, però. Non le strade e gli ambienti delle borgate. Per non parlare delle strade e gli ambienti dell'aristocrazia. Se poi andiamo alle strade e agli ambienti dell'enclave ecclesiastica siamo proprio su un altro pianeta. Ho solo io l'impressione che il diktat cui gli scrittori provinciali e con un complesso d'inferiorità non sanno sottomettersi sia a dir poco castrante? Sia chiaro, io capisco (incredibile per una scrittrice provinciale quale sono) cosa Montefoschi intendesse dire. Nella congerie degli aspiranti all'empireo della letteratura va per la maggiore improvvisare. Ho letto con questi occhiali una sedicente scrittrice affermare che la calura estiva faceva tremolare le strade e le pianure riarse. Peccato che il manoscritto fosse ambientato a Stoccolma. Certo, i cambiamenti climatici ci son stati eccome. Ma ci andrei con un minimo di prudenza. Quello che contesto, da sempre e senza sacri timori per il Montefoschi o il Tondelli di turno, è il comandamento calato dall'alto. Fatto caso che questi scendono tutti dal Sinai? Perché se estendiamo il concetto, allora Tolkien non avrebbe mai dovuto scrivere e descrivere della Terra di Mezzo, che non esiste. La Rowling dovrebbe dimostrarci che a correre contro la barriera tra il binario 9 e quello 10 della stazione di King's Cross non ci si spacca la testa contro il muro. Per non parlare di Asimov, di Stephen King, di Lewis Carroll. O di quanti osano scrivere romanzi storici trasportando il lettore in un mondo e in un tempo tanto lontani da essere inconoscibili. Come dite? Se uno si documenta? Ovvio. Voglio personalizzare. Una casa editrice ha visionato un nostro manoscritto e ci ha inviato una scheda di valutazione molto positiva. La cosa che più li ha colpiti è che la storia si svolge nel 2002 e, guarda caso, le canzoni ascoltate dai protagonisti, le notizie citate, tutto il contesto è assolutamente fedele a quanto realmente accaduto nel 2002. Non stiamo parlando del Cretaceo, ma pare che i lettori di una casa editrice siano pronti a stupirsi se il background di una storia è credibile. Quindi ha ragione Montefoschi? Secondo me, no. Una simile dichiarazione porta a scartare a prescindere un manoscritto se ambientato al di fuori del ristretto spazio vitale dell'autore. Perché è scontato che tale spazio vitale sia ristretto, giusto? Invece succede che la storia e l'ispirazione portino lontano. E che un serio lavoro di documentazione renda il tutto credibile. Succede. Si chiama libertà. Si chiama fantasia. Si chiama creatività. E abita appena oltre il pianerottolo.

giovedì 26 aprile 2012

Soggettiva di ZG : Bowling e margherite di Manuela Giacchetta

Ero a Più libri più liberi, stand di Las Vegas Edizioni. Chiedo ad Andrea Malabaila, il direttore, quale dei libri esposti mi consigliava. Lui ci pensa tre secondo, poi mi mette in mano Bowling e margherite. Perché, gli chiedo. Perché quando ho letto il manoscritto ero convinto che l'avesse scritto un uomo con uno pseudonimo da donna.
Non vi sembra una motivazione? E invece mi incuriosì. Comprai il libro e lo misi lì, nella pila sempre più alta e pericolante di libri da leggere. Prima o poi sarebbe arrivato il suo turno. Ebbene è arrivato, in due tranche. La prima in treno, ma il viaggio era troppo breve per permettermi di terminarlo, per quanto io sia veloce nella lettura. La seconda un pomeriggio domenicale.
Vi dico intanto che è un libro da leggere. La scrittura ti prende e ti porta nel mondo di Lorenzo, 28enne incasinato perso e sofferente per l'abbandono dell'adorata Elisabetta. Sua unica via di fuga? La lettura coatta dell'Ulisse di Joyce. Ogni capitolo si apre con una citazione dell'Ulisse, la pagina dove si trova e il commento, stringatissimo e spesso disperato, di Lorenzo. Dopo averlo chiuso ho capito due cose: perché non ho mai affrontato la lettura dell'Ulisse e il motivo per cui Malabaila pensava che a scriverlo fosse stato un uomo. Il discorso della scrittura femminile o maschile mi fa sempre imbufalire. C'è in corso un dibattito tra scrittrici e giornaliste sul fatto, innegabile, che le donne abbiano meno spazio nel mondo editoriale italiano. Soffrono del pregiudizio per cui una donna scrive solo robe diaristiche condite d'amore. Praticamente i romanzi di Fabio Volo. Che però donna non è. Ecco, Manuela Giacchetta è riuscita a entrare nel cervello di un maschio 28enne, innamorato, incasinato, confuso e parecchio spaventato dalla vita. Lo ha fatto con naturalezza, senza prenderne mai le distanze, sebbene come donna debba essersi sentita offesa (io almeno sì) da certi modi di pensare e di gestire i rapporti di coppia. La voce dell'autrice non c'è, perché noi sentiamo solo Lorenzo e la sua lotta per capire perché sia necessario sapere cosa e chi si vuole veramente nella vita. E se credete che alla fine si sia dato una risposta, vi sbagliate. Perché la pianificazione dell'esistenza e un maschio 28enne di oggi c'azzeccano proprio come una palla da bowling e una tenera margherita.

Z.G.

martedì 24 aprile 2012

Annunciazione annunciazione...

Poiché abbastanza indegnamente questo blog il prossimo luglio parteciperà al K-Lit, primo Festival dei Blog Letterari, io e la socia abbiamo deciso di dargli una svolta più libresca/letteraria. Tanto più che corre voce che Anobii potrebbe chiudere, prendiamo l'impegno di pubblicare qui i libri che leggiamo e le impressioni che ne ricaviamo. Se vi va...

Un racconto per il 25 aprile: L'avevamo fatto prigioniero


L’avevamo fatto prigioniero…

“Sarà puntuale?”, chiese Tomaso accendendo la sigaretta al riparo dal vento teso che alzava onde e spirali di sabbia.
“I giornalisti non lo sono mai”, commentò Alfonso, inforcando gli occhiali per dare ancora una scorsa all’articolo apparso su Latina Oggi due giorni prima.
“Lo sai a memoria ormai, che altro vuoi trovarci?”. Il rumore croccante di una caramella che veniva scartata accompagnò la voce di Guglielmo. Abbandonò l’incarto al vento e lasciò vagare lo sguardo sul tramonto mentre palleggiava la Rossana da guancia a guancia.
Il breve articolo a firma Max De Feudi era saltato agli occhi di Tomaso con la potenza di una deflagrazione. In occasione dei lavori che il comune di Latina aveva avviato sul litorale di Borgo Grappa per la realizzazione di un parcheggio pubblico, gli operai si erano imbattuti in un macabro reperto: lo scheletro di un bambino in divisa da balilla. Immediatamente il ricordo era corso al caso Leonardi.
“Pedofilia”, sputò fuori Alfonso accartocciando il giornale. “Ormai non sanno parlare d’altro.”
“Che vuoi che dica un cronista di… quanti anni può avere? Trenta? Trentacinque? Non ha conosciuto don Bruno”, obiettò Guglielmo facendo sparire un’altra caramella.
“La pianti?”, lo apostrofò Tomaso. “Col diabete che ti ritrovi, rischi di restarci su questa spiaggia.”
“E allora? Vogliamo parlare del tuo enfisema? Ha ragione tua moglie, sei un incosciente. Una ne spegni e un’altra ne accendi.”
“Piantatela tutti e due. Sta arrivando il giornalista e non è il caso di farci riconoscere come tre vecchi rincoglioniti. Io, a vedervi, non vi darei mica retta.”
“Invece a te”, fu il commento all’unisono.
Invidiarono il passo spedito con cui il cronista di Latina Oggi affrontò le dune che a loro tre erano costate più di un affanno. Tomaso ne era sceso sibilando come una teiera. Nella bella luce del crepuscolo il sorriso del ragazzo sembrò un affronto alle loro dentiere. Guglielmo lottò per staccare con la lingua un frammento di Rossana dallo scheletrato, poi indirizzò un cenno di saluto.
“Spero di non avervi fatto aspettare troppo. Un appuntamento in spiaggia a quest’ora e con questa umidità…”
“Giovanotto”, rispose piccato Tomaso, “lei non si preoccupi. Veniamo ai fatti.”
Il giornalista nascose un sorrisetto ed estrasse il piccolo registratore.
“Sono qui per questo. Con chi di voi ho parlato al telefono?”
“Alfonso Marcolin, per servirla”, si fece avanti l’interpellato, ostentando una troppo vigorosa stretta di mano.
“Io ho letto il suo articolo, Tomaso Fantoni.”
“Guglielmo Chiesa, e non sono d’accordo su tutta questa storia. I morti vanno lasciati in pace.”
“Non quando la loro memoria viene messa in discussione. E lei, giovanotto, prima di scrivere certe cose, farebbe bene a documentarsi”. Un’altra sigaretta venne accesa accompagnata da un colpo di tosse. “Don Bruno era una persona meravigliosa, un sant’uomo.”
“Vogliamo andare per ordine?”, propose Max guardandosi intorno e trovando un tronco sul quale sedersi. I tre anziani furono costretti a imitarlo con accompagnamento di giunture scricchiolanti.
“Poi mi date una mano ad alzarmi”, intimò in un sussurro Tomaso agli altri due.
“Che ne sapete voi di Ferruccio Leonardi?”
Rimasero in silenzio per qualche istante. Guglielmo fu tentato di ricorrere a una terza caramella, poi si convinse a desistere. Il suo sguardo e quello di Alfonso conversero su Tomaso che fu compiaciuto di quel passaggio di testimone.
“Eravamo ragazzini di undici anni. Gli americani stavano per sbarcare ad Anzio, quella che i libri di storia conoscono come Operazione Shingles, ha presente?” Il cronista annuì. Guglielmo e Alfonso lanciarono al cielo viola uno sguardo di sopportazione. “Tutta questa zona era una prima linea e chi aveva vissuto il giogo fascista come un peso insopportabile, mordeva il freno. Immediatamente prima del 22 gennaio del 1944, i paracadutisti alleati cominciarono a piovere dal cielo come confetti a un matrimonio. Noi tre, dopo la scuola, venivamo in spiaggia e giocavamo alle truppe da sbarco. Di solito Alfonso faceva il nazista…”
“Non credo che questo interessi al signor De Feudi.”
“Chiamatemi Max, è più comodo. Ma Ferruccio Leonardi?”
“Era un nostro compagno di scuola, giovanotto, ci sto arrivando. Dunque, in una di queste nostre, come vogliamo dire… scorribande, ci imbattemmo in un paracadutista americano ferito che si era nascosto tra le dune. Può immaginare la nostra eccitazione.”
“No, che non può. Lui non c’era”, commentò Guglielmo. Rimediò un’occhiataccia.
“Lo avete aiutato?”, chiese Max.
“Ovviamente”, rispose Alfonso. “Eravamo bambini, ma sapevamo qual era la parte giusta. Quel soldato si chiamava Charles, aveva un braccio spezzato e quasi la nostra età. Era impaurito da morire. Lo abbiamo nascosto in un capanno sul lago di Fogliano, un posto dove andavano i pescatori durante la bella stagione. Ogni giorno, dopo la scuola, ognuno di noi procurava qualcosa da mangiare e glielo portavamo. Gli avevamo anche steccato il braccio con le canne.”
“Nessuno vi aveva detto che rischiavate la pelle se foste stati scoperti?”
“Ce lo aveva detto don Bruno”, intervenne Guglielmo. “Eravamo talmente eccitati per quello che avevamo fatto, che il giorno stesso in cui lo trovammo, siamo corsi in oratorio per dirglielo. Lui ci ha sgridati, ha detto che era una pazzia, poi ci ha dato dei medicinali per aiutarlo. Non poteva venire con noi, i fascisti lo tenevano d’occhio.”
“Per la storia della pedofilia?”
“Giovanotto, questa storia è la più grossa stronzata che sia mai stata inventata. Don Bruno non avrebbe mai, e dico mai, toccato un bambino.”
“Era una calunnia messa in giro dai fascisti”, spiegò Alfonso, “perché don Bruno non nascose mai le sue idee democratiche. E si oppose quando il gerarchetto del paese segnalò uno dei nostri insegnanti per il confino, accusandolo di essere un pervertito… un gay, insomma.”
“Quindi don Bruno faceva, a suo modo, resistenza.”
“Non a suo modo”, puntualizzò Guglielmo. “Rischiava la pelle. Dopo l’otto settembre in questa zona eravamo totalmente in balia dei tedeschi e dei fascisti. Bastava una parola di Leonardi e, se ti diceva bene, finivi a Ventotene. Se ti diceva male…”
“Leonardi chi? Il padre di Ferruccio?”
“Esattamente”, rispose Alfonso, togliendo la sigaretta dalle dita di Tomaso per prenderne una tirata. “E suo figlio, che era nella nostra stessa classe, era carogna tale e quale al padre.”
Il silenzio calò sulla spiaggia ormai quasi buia. Il registratore di De Feudi incise alcuni istanti del fruscio forte del vento.
“Cosa ha fatto Ferruccio?”
Max lo chiese in un sussurro, temendo che quelle parole potessero bloccare un parto che, lo vedeva negli occhi dei tre anziani, si presentava complicato. C’era riserbo, in quegli sguardi, rimorso, forse anche rimpianto.
“Lo vogliamo dire o ce ne stiamo qui a prendere freddo?”, esclamò Guglielmo, rompendo il silenzio e l’incarto dell’ultima Rossana.
“Vede, forse non era cattivo”, tentò di analizzare Alfonso, “era figlio unico e certo l’esempio del padre l’aveva, come dire, guastato. Ma, alla luce dei fatti, l’unica realtà era che Ferruccio era proprio uno stronzo. Si divertiva a fare la spia su tutto. Se non avevi fatto i compiti, se avevi copiato in classe, se fumavi, se ti tiravi qualche… scusi l’espressione, sega. Con lui in giro non eri mai tranquillo, appariva nei momenti meno opportuni e la sua disgrazia era che pensava di farla franca. Sempre. Suo padre era un gerarca, chi poteva toccarlo?”
“Invece a noi ci toccavano eccome”, ricordò Guglielmo. “Ne abbiamo prese di bacchettate sulle nocche per colpa sua.”
Max estrasse il pacchetto delle sigarette e Tomaso e Alfonso gli puntarono gli occhi addosso. Capì e gliene offrì. Lottarono tutti e tre con il vento per accendere, mentre Guglielmo controllava l’orologio. Sua moglie gli avrebbe piantato una grana per quella sparizione inspiegata.
“Ferruccio scoprì l’americano?”
“Fece molto di più”, ammise Tomaso. “Minacciò di raccontare tutto a suo padre e di farci consegnare alle SS, insieme a tutte le nostre famiglie. Disse che i nazisti avrebbero preso l’americano e lo avrebbero torturato per scoprire dove sarebbero sbarcati gli alleati. Disse che avrebbero vinto la guerra, che lui sarebbe entrato nella Gioventù Hitleriana e che noi tre saremmo finiti nei campi di lavoro forzato, a spaccare pietre fino a quando la tisi non ci avesse ammazzati. Disse tante di quelle cose che…”.
Il fiato gli mancò e l’enfisema si fece sentire con un sibilo profondo che gli saliva dal torace. Guglielmo gli batté una mano sulla spalla.
“Sono passati sessant’anni, Toma’. Non vale la pena…”
“E voi lo avete ucciso?”
“Noi lo abbiamo fatto prigioniero.”
Lo sguardo di Alfonso rincorse il movimento delle onde, e il ricordo di quel giorno.
“Era il 20 gennaio, un giovedì. Le lezioni erano finite prima, nel pomeriggio ci aspettava don Bruno per il catechismo. Avevamo un pezzo di pane e delle noci da portare a Charlie, così ci siamo avviati verso il lago di Fogliano. Era inverno, ma era una giornata tiepida, il sole splendeva e la primavera sembrava vicina. Ogni tanto scattavano gli allarmi aerei, ma le bombe non arrivavano qui. Le fortezze volanti puntavano altrove e noi sentivamo solo il rumore”.
“Charlie stava male”, disse Tomaso. “Aveva la febbre e male al braccio. Don Bruno aveva promesso che, appena avesse fatto notte, sarebbe andato lui a dargli un’occhiata. Io comunque avevo rubato a casa la bottiglia di laudano di mia nonna, gliene abbiamo dato un po’ e pareva che stesse meglio. Provava sempre a dirci qualcosa, forse voleva ringraziarci, ma noi non capivamo una parola.”
“Quando siamo usciti dal capanno, ci siamo trovati davanti Ferruccio. Se ne stava appoggiato alla bicicletta nera fiammante e aveva tutta la bocca impiastrata dal lecca-lecca che stava succhiando. Non ne vedevo uno da anni.” Gli occhi scuri di Guglielmo sembravano rivivere quella scena, lo testimoniò con lo schiocco della lingua. “Portava la divisa da balilla, perfettamente stirata dalla governante. Sogghignava perché aveva un nuovo segreto da spiattellare. Un segreto bello grosso.”
“Ma noi eravamo in tre. La sua arroganza non gli aveva fatto mettere in conto che potevamo decidere di suonargliele.”
“E gliele suonammo”, disse Alfonso senza riuscire a trattenere un sorriso soddisfatto. “Lo riempimmo di calci e pugni, poi lo trascinammo nel capanno. C’erano dei pezzi di spago, di vecchie reti da pesca, lo abbiamo legato stretto a un palo. Volevamo imbavagliarlo, ma anche se avesse gridato, nessuno poteva sentirlo in mezzo ai canneti. Lo lasciammo lì e corremmo via. Eravamo in ritardo per il catechismo.”
“E contavate di tenerlo prigioniero fino a quando?”
“Fino alla fine della guerra, se fosse stato necessario” disse Guglielmo.
“Le voci correvano. Certo non sapevamo che di lì a due giorni gli americani sarebbero sbarcati ad Anzio, ma tutti si aspettavano l’apertura del secondo fronte. E comunque la sensazione era che la guerra stesse per finire.”
“Ci siamo resi conto di aver fatto un errore solo quando siamo entrati in oratorio”, ricordò Tomaso, “e abbiamo incontrato lo sguardo di don Bruno.”
“Che genere di errore?”
“Giovanotto, lei non presta attenzione. Meno male che i vecchi siamo noi. Don Bruno sapeva di Charlie, aveva promesso di andare a dargli un’occhiata quella stessa notte. Avrebbe trovato nel capanno Ferruccio.”
“E lo avrebbe liberato”, rincarò Guglielmo, “senza pensare neanche per un attimo alle conseguenze. Quell’infame sarebbe corso di filato dal padre, per raccontare tutto, soprattutto che don Bruno aiutava gli alleati. Lo avrebbero fucilato.”
“La verità è che quel giorno saltammo la lezione di catechismo.”
Alfonso lasciò la frase in sospeso.
“Siete tornati al capanno?”
“Non subito, prima abbiamo fatto la riunione. A casa di Tomaso a quell’ora non c’era nessuno. Siamo andati nel solaio, con le sigarette che io avevo rubato a mio padre. Facemmo fumare anche Guglielmo quella volta.”
“Che schifo. Ogni volta che ripenso al sapore amaro del tabacco, mi risuona nella testa quella frase: dobbiamo ammazzarlo.”
Il giornalista non nascose lo sguardo stupito.
“Ma eravate dei bambini!”
“Eravamo bambini di guerra, ragazzo. Ci hanno fatto crescere in fretta a noi, talmente in fretta che ci rendemmo subito conto che non avremmo potuto farlo passare per un incidente. Scavammo la fossa nelle dune ancora prima di andare al capanno per ucciderlo.”
Le parole di Alfonso erano cadute come sassi. Max si scoprì a deglutire a vuoto mentre i tre anziani fissavano la sabbia ai loro piedi e la aravano con le dita nodose.
“Come… come lo avete fatto?”
Tomaso si schiarì la voce e quando alzò la faccia, anche nella luce sempre più fioca il cronista si accorse delle lacrime negli occhi rotondi e tristi.
“E’ stata la cosa più difficile. E’ che non… io non avevo mai neanche tirato il collo a una gallina.”
“Perché, noi sì?”, borbottò Guglielmo.
“La pistola di Charlie avrebbe fatto troppo rumore, e poi era enorme”, sembrò giustificarsi Alfonso.
“Così abbiamo pensato al laudano di mia nonna. Facemmo come avevamo visto fare ai fascisti con l’olio di ricino. Tenemmo fermo Ferruccio e lo costringemmo a bere tutta la bottiglia. Poi ci siamo seduti ad aspettare.”
Tomaso non riuscì a continuare. Tirò rumorosamente su con il naso e si nascose la faccia tra le mani.
“Era incosciente quando gli abbiamo tenuto la testa sott’acqua”, finì per lui Alfonso.
La luce in cielo era quasi del tutto sparita. Il vento era rinforzato e il freddo cominciava a farsi pungente come la sabbia contro la pelle del viso. Max spense il registratore e si accese un’altra sigaretta. Questa volta i due vecchi fumatori non allungarono gli occhi verso il pacchetto. Ognuno di loro si torceva le mani, come se sentissero ancora, sotto le dita, la testa di Ferruccio che tentava di galleggiare verso l’alto.
“Perché mi avete raccontato questa storia? Nessuno, mai, sarebbe risalito a voi. E’ successo quasi 70 anni fa.”
“E’ stato per don Bruno”, mormorò Guglielmo. “Con la vostra curiosità da giornalisti, siete andati a rivangare quella storia della pedofilia e non potevamo permetterlo, capisci? Don Bruno non se lo merita. Lui, se fosse entrato in quel capanno, lo avrebbe salvato a Ferruccio.”
Il cronista si alzò e cominciò a percorrere lo spazio davanti al vecchio tronco, nodoso quanto le giunture di quei tre.
“Cazzo! Era un bambino. Come vi è saltato in mente? Potevate…”
“Non ci aspettiamo che lei capisca, giovanotto.”
“Io invece voglio capire! Lo avete assassinato a sangue freddo e vi siete tenuti dentro questo segreto per tutti questi anni. Poi io sfioro la memoria di un prete morto da una vita, e voi mi rovesciate addosso tutto questo orrore. Perché?”
“E a se stesso che sta pensando, o a noi?”
La domanda di Alfonso lo costrinse a fermarsi. Non li distingueva quasi più, nel buio.
“A me. Vi rendete conto? Il caso di Ferruccio Leonardi ha fatto parlare tutto l’Agro Pontino per anni. Si è detto tutto e il contrario di tutto. La madre è morta di crepacuore.”
“Non è stata la sola. Le madri di coloro che Leonardi padre ha tradito hanno pianto lacrime di sangue”, protestò Tomaso.
“Ma lui era un bambino.”
“Anche noi”, ribatté Guglielmo. “Non cerchiamo la sua assoluzione. Crede che in tutti questi anni non ci siamo chiesti se meritassimo di vivere? Ogni volta che guardo mio nipote negli occhi, rivedo quelli di Ferruccio. Era un bel bambino…”
“Che cosa dovrei fare io, adesso?”
“E’ evidente. Deve scrivere la verità.”
Max rise sarcastico.
“Certo. Voi ve ne lavate le mani, tanto ormai siete vecchi e quel che è fatto è fatto. Ma non pensate alle vostre famiglie? Ai vostri nipoti? Che penseranno?”
“Che non abbiamo avuto scelta”, rispose Tomaso.
“Che non conoscevamo altro mondo che la guerra”, aggiunse Alfonso.
“L’avevamo solo fatto prigioniero…”, mormorò Guglielmo.
E Max riconobbe nelle sue parole l’eco della voce di un bambino.

Laura e Lory

martedì 17 aprile 2012

Oggi su "La Sesia": Flavio e Beatrice


Ci sono incontri che la vita rende impossibili. Quello tra Flavio e Beatrice non avverrà mai. Flavio è un ragazzo torinese, ha quindici anni, è alto, magro e possiede quella che la saggezza popolare chiama la bellezza del somaro. Solo che Flavio somaro non lo è, anche se ha rimediato un quattro e mezzo in matematica. È per questo che un giorno, mentre mamma e papà lo aspettano a casa come sempre, si incammina lungo i binari di una ferrovia. Sembra una passeggiata e a Beatrice sarebbe piaciuta. Ma Beatrice non può seguire Flavio lungo la massicciata del treno. Beatrice è una ragazza veneziana, ha quindici ed è bellissima nonostante le cicatrici che le attraversano il viso. A Flavio, se lo incontrasse, sorriderebbe come sorride a tutti. Con occhi di un verde luminoso, prima ancora che con la bocca. Perché Beatrice è contenta di essere viva ed è piena di progetti. Flavio no. Lui, ci dicono, è taciturno, riflessivo. Un ragazzo come ce ne sono tanti. Ama lo sport e in questo è simile a Beatrice. Ma della vita, di quella vita che a quindici è una cosa terribilmente seria, non riesce a scorgere il lato illuminato. Per questo cammina lungo la ferrovia e a chi gli dice di stare attento risponde che sta andando per la sua strada. Perché è convinto che sia quella e nessun altra. Invece Beatrice potrebbe spiegargli che di strada ce n’è sempre una alternativa. Lei lo sa. Aveva solo undici anni quando è stata colpita da una meningite fulminante. L’infezione le ha aggredito il sangue. Il sangue infetto le ha aggredito il corpo. I medici, per salvarla, le hanno tagliato le braccia fin sotto il gomito. Non è bastato. Il papà e la mamma di Beatrice, che tutti chiamano Bebe, hanno dovuto spiegarle che bisognava tagliare anche le gambe, fin sotto al ginocchio. Ha chiesto: “Starò meglio?”. Hanno risposto che così pensavano i medici. E Bebe, a undici anni, ha detto: “Ok, tagliate e fate in fretta”. Per questo Bebe non avrebbe potuto accompagnare Flavio lungo la ferrovia. Si muove su una sedia a rotelle. Però avrebbe potuto, se lo avesse conosciuto, mostrargli che nessun ostacolo è insormontabile. Senza gambe e senza braccia Bebe è campionessa mondiale di scherma tra i disabili under18, sarà la tedofora alle Paraolimpiadi di Londra. E, come Flavio, ogni tanto prende un brutto voto a scuola. Quando succede si stringe nelle spalle e guarda avanti. Alla prossima operazione per cancellare le cicatrici sul viso, alla prossima protesi per correre e camminare, alla prossima sfida. Bebe non ritiene di essere speciale, così come Flavio non riteneva di essere importante. Per se stesso e per gli altri. Perché la sua integrità fisica, la sua salute, la sua giovinezza e tutto il suo futuro, Flavio li ha gettati sotto un treno che non è riuscito a fermarsi in tempo. A quindici anni ha scelto di morire. Una scelta che nessuno è in grado di comprendere, di spiegare. Meno che mai di giudicare. Ma se Flavio avesse incontrato Beatrice e il suo sorriso, chissà.

Laura Costantini

lunedì 16 aprile 2012

Progetti editoriali che vanno in porto e altri no

Chi ci conosce, a me e Lory, sa che scriviamo. Tanto. Da tanti anni. Con inalterata passione. Non lo facciamo per diventare ricche e famose. Lo facciamo perché ci piace. Ogni giorno di più. Farci leggere, condividere le emozioni è importantissimo e per questo ci siamo battute per pubblicare alcuni romanzi. Non abbiamo mai pagato per farlo. Abbiamo incontrato l'entusiasmo di chi ha avuto fiducia nelle nostre storie. Ma è anche successo, e continua a succedere, che romanzi nei quali crediamo molto non trovino una loro strada. In questo post voglio raccontarvi due esiti diversi che, fatalità, si convogliano in questo stesso giorno. 
Anni fa abbiamo scritto (e poi riletto, rimaneggiato, rivisto, riscritto e levigato) un thriller con elementi mistery, Il puzzle di Dio. E' un romanzo ambizioso, complesso. Noi lo amiamo, ma forse non è questo il suo momento. Ci piace, però, condividere con voi la lettera che proprio oggi una casa editrice che stimiamo molto, ci ha inviato dopo aver letto il manoscritto:


Buongiorno Laura,
ti contatto in merito al manoscritto che qualche tempo fa aveste la cortesia di affidarci in valutazione.
Devo fare una premessa importante, prima di esporre la nostra decisione riguardo quanto emerso dalle letture che abbiamo concluso: Edizioni #### sta attraversando un periodo di forte revisione interna, perciò per assicurare lo standard qualitativo e una continuità nei confronti della linea editoriale purtroppo stiamo tagliando molti progetti e anche pubblicazioni programmate da tempo. Pertanto allo stato attuale non siamo in grado di prendere in carico una pubblicazione, il futuro incerto ancora non ci permette di delineare certezze e soprattutto di avanzare promesse editoriali che non siamo sicuri di poter mantenere: siamo davvero rammaricati, perché il vostro romanzo ci è piaciuto.
Affinché questa non rimanga una comunicazione tout-court, in allegato ti invio la scheda di valutazione che abbiamo stilato a seguito dell'analisi del romanzo: spero contenga sufficienti elementi e dettagli per chiarire quali sono i punti che, secondo noi, rendono il romanzo interessante e degno di attenzione editoriale, e abbiamo segnalato anche qualche piccolezza che magari può aiutarvi se vorrete intervenire sul testo alla luce di questi suggerimenti.
Vi saluto intanto, e rimango a disposizione per qualsiasi informazione ulteriore voi abbiate necessità, vi ringrazio ancora per la fiducia che ci avete accordato e lascia che vi esprima a titolo personale il mio dispiacere per non avere potuto concludere un progetto che aveva tutti i numeri per diventare un eccellente libro.



Non è una risposta positiva, però ci ha fatto molto piacere. E vi assicuro che la scheda di valutazione è circostanziata nei minimi dettagli e fornisce elementi preziosi di riflessione per un'eventuale ulteriore lavoro di perfezionamento.
Ma per un progetto che non decolla, ce n'è uno che sta rapidamente accelerando. Anni fa abbiamo scritto un romanzo western. Sì, avete letto bene. Immediatamente ci hanno dato delle folli: western? oggi? non ha mercato! Okay, ci siamo dette, verifichiamo. Lo abbiamo postato a puntate sul sito www.efpfanfic.net tra il 2009 e il 2010 e l'accoglienza è stata a dir poco entusiastica. Sentite cosa ci scrive uno dei 4000 contatti ricevuti (con 183 recensioni e neanche una negativa): 


Più procedo nella lettura e più prendo consapevolezza del fatto che sei (o siete, non mi è ancora ben chiaro quante siano le autrici XD) riuscita a costruire un vero e proprio romanzo in piena regola. E' tutto curato fin nei minimi particolari, ogni parola è studiata eppure risulta estremamente naturale, come se fosse sempre stato quello il suo posto - in quella frase, in quella riga, dedicata a quel personaggio o a quella situazione. Mi sembra a dir poco... perfetto. Ogni cosa è calibrata, è nella giusta misura, sia le descrizioni - che dimostrano uno studio accurato, per fare un esempio, della vegetazione di quei luoghi - che i dialoghi, davvero brillanti. Ciascun personaggio ha un proprio fascino e una psicologia che si delinea sempre più chiaramente capitolo dopo capitolo; non trovo nulla di banale, e soprattutto nulla di prevedibile in questa storia. C'è stile, c'è equilibrio, c'è semplicità e sinteticità nella giusta misura, e perfino quella vena di mistero che impregna ogni singola scena permane anche dopo ben quarantacinque capitoli. E pensare che c'è ancora così tanto da dire!


Ora quel romanzo sul sito non c'è più. Perché sta per essere pubblicato da un giovane e intraprendente editore che non più darti di 5 minuti fa mi scriveva: dai che facciamo il botto!
Mi direte che non è Mondadori, non è Einaudi, non è Piemme. E noi rispondiamo che conta come e più che se lo fosse. Perché ci mette del suo, ci crede. Come ci crediamo noi.

giovedì 12 aprile 2012

I miei articoli per "La Sesia": La lotta di Alexandra


Può sembrare strano, ma anche chi in televisione ci lavora può non essere del tutto consapevole del potere esercitato dall’elettrodomestico in questione. Tutto comincia con Alexandra Bacchetta. E un fortuito contatto con una collega di Varese. I giornalisti son sempre a caccia di belle storie. Dove belle non ha niente a che vedere col lato estetico della cosa. Perché in una giovane mamma che si siede in una piazza squalliduccia e decide di non mangiare più, di bello non c’è proprio niente. Però, giornalisticamente parlando, è una bella storia. La collega di Varese ce la segnala. Rapido consulto con gli autori. Si parte. Alexandra ci aspetta al solito posto, un angolo accanto a una superstite cabina telefonica in piazzale della Libertà. La sede della Provincia alle spalle, la sede della Questura davanti, una pioggia battente su tutto e una rotonda trafficata. Fa freddo. Alexandra digiuna dal 26 marzo. È pallida, paludata in un lungo cappotto nero. Ha occhi grandi, ciglia lunghe, una rabbia dignitosa che le fa tremare la voce. E racconta. Di un padre che ha cominciato a lavorare a 9 anni e che è diventato chef. Di una famiglia che si stringe in un sogno. Di un mulino del XIV secolo che diventa ristorante e albergo. Di un torrente, l’Olona, che decide di diventare un fiume in piena. Di un disastro che data 15 luglio 2009. Ci mostra le foto, Alexandra, della devastazione. Un milione di euro di danni. Ma siamo nel Varesotto, non ci si piange addosso. Ci si rimboccano le maniche e si spalano via fango e disperazione. Quattro mesi di lavoro e un grosso prestito dalla banca. Servono mica garanzie, tanto la regione Lombardia ha chiesto lo stato di calamità naturale. Roma lo ha concesso, arriveranno i rimborsi. Intanto, però, Alexandra non ottiene sgravi fiscali, paga tutte le tasse, gli stipendi, i contributi. Non licenzia nessuno, Alexandra. Riapre i battenti e aspetta, fiduciosa. Ma dopo tre anni di lettere, telefonate, e-mail, sale d’attesa, dei rimborsi non c’è traccia. E le banche non sentono ragioni. Gli interessi passivi si accumulano, il telefono squilla, si deve rientrare del fido. Così Alexandra, esasperata, decide di sedersi lì, nel piazzale, e di non mangiare più. Ne parlano le radio, i giornali locali. Quando arriva la tv nazionale scattano i flash, la notizia si diffonde in un lampo. E l’europarlamentare di turno si spaventa. Il servizio non è ancora andato in onda e già l’addetto stampa inoltra un comunicato dove si smentisce prima ancora di ascoltare. Alexandra non è stata abbandonata. E poi chi glieli ha promessi i fondi? Bisogna andare a fondo, vedere se ne ha diritto. In ogni caso si esaminerà per bene il caso nelle sedi competenti. Non possiamo immaginare quale sarà l’epilogo. Alexandra avrà bevuto acqua e integratori salini anche a Pasqua, avrà servito clienti e sperato. Che qualcuno si muova, prima di un’altra bella storia di disperazione.

Laura Costantini

martedì 3 aprile 2012

Oggi su "La Sesia": Il silenzio dei poveri


Il silenzio è una condizione che non ci appartiene più. Viviamo nell’era dell’opinione. Nel tempo delle chiacchiere inutili nei salotti televisivi e delle urla esibite nelle piazze. Ma il silenzio esiste ed è, come piace agli amanti degli ossimori, assordante. Basterebbe saperlo ascoltare. Ogni giorno, nei notiziari, nei social network, sui giornali, appaiono immagini. Le immagini, per loro natura, parlano senza parlare. Sono immagini di persone che frugano tra gli scarti dei supermercati, nei cassonetti nelle adiacenze dei mercati rionali, tra i cartoni sul retro dei negozi. Non sono zingari. A quelli siamo abituati. Sono persone come noi. Dove è il “come noi” che ci sconvolge. Hanno abiti puliti e dignitosi. Magari ostentano una catenina d’oro, due orecchini di quelli antichi, un vecchio elegante orologio. Sono anziani, in un mondo dove gli anziani diventano maggioranza e non vogliono, per come ce li raccontano i giornali, arrendersi al tempo che passa. Quelli che piacciono ai mass media sono tonici, abbronzati, con la dentiera fissata dal prodotto giusto e la voglia di sentirsi vivi. Però ne esistono altri di anziani, quelli veri. Che sono vivi e vorrebbero restarlo. Per questo frugano nell’immondizia alla ricerca di quel di più che abbiamo imparato a gettare senza rimorso alcuno. Non ne abbiamo colpa, ci hanno insegnato così: consumare, per il bene del paese. Compriamo più di quello che ci serve, reagiamo come automi alla frutta più lucidata, alla scatola più squillante, alla promozione più vantaggiosa. E per incoraggiarci i commercianti comprano più merce, più variegata, più esotica. È un girotondo chiassoso che esclude chi osserva in silenzio. Perché la voce gliel’hanno rubata insieme al potere d’acquisto. Della loro dignitosa e silente povertà siamo ormai consapevoli. Se ne parla, in quei salotti bercianti che monopolizzano gli schermi televisivi. Se ne parla. Ma loro restano in silenzio e si accostano con umile gratitudine ai sacchetti messi insieme nei reparti ortofrutta dei supermarket. Qualche mela ammaccata, una banana annerita, un cespo di insalata intristito, due pomodori troppo maturi. Cinquanta centesimi, la fila alla cassa con altri due prodotti di quelli in offerta e la possibilità di sentirsi ancora nel novero dei clienti. Anche se dal borsellino spuntano fuori cascate di monetine di rame, quelle che tutti odiamo e che non abbiamo ancora imparato a usare. La cassiera paziente tende le mani a coppa e conta una per una le monetine da un centesimo, da due, da cinque, mentre l’anziano tiene gli occhi bassi e in silenzio spera che non manchi nulla, perché nulla è rimasto nel borsellino. Se è fortunato, se la cassiera finge che le monetine siano tutte quelle che servivano, la dignità è salva. Ma se i soldi non bastano, allora non basta neanche il fiato per dire che il litro di latte non serviva. Per cena sarà sufficiente la minestrina cotta con l’acqua.

Laura Costantini