giovedì 26 maggio 2011

Un raccontino da posto di lavoro, se vi va

Questo racconto nacque, nel 2008, da una sfida. Data una parola chiave (che era ASCENSORE) che ti viene in mente? A me venne in mente 'sta roba qui.
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Che ho una faccia da schifo lo penso spesso.
Soprattutto quando entro in ascensore e me la trovo davanti, riflessa impietosamente dallo specchio a piano americano che qualche genio ci ha piazzato per dare un’illusione di spazio.
La luce al neon, a dominante verde, ti cade addosso dall’alto ed esalta tutto ciò che andrebbe nascosto: pori dilatati, zampe di gallina, colorito smorto, solchi nasolabiali da depressione cronica e quel pelo sul mento che stamattina mi è sfuggito.
Maledetto! Proprio oggi che dovrei essere al meglio delle mie possibilità. Sono anni che aspetto questo momento, il momento di premere il tasto 8 sulla pulsantiera.
Certo che ci sono salita altre volte all’ottavo piano, ma stavolta è diverso. Stavolta ci salgo da titolare di un ufficio e la promozione, io, me la sono sudata sul serio. Ho lavorato sodo io, mica come tutte quelle stronzette sculettanti che mi sono vista passare davanti negli anni. Chissà se nel beauty ce l’ho una pinzetta per…
Cazzo, ti pareva! C’è una cosa che odio più degli ascensori: dividere gli ascensori con degli sconosciuti. Stare lì a fissare la parete in attesa che il tizio o la tizia scendano e sentirsi in dovere di salutare: “Buona giornata”, come se me ne fregasse poi qualcosa.
No! Lui no, cavolo.
“Buongiorno.”
“Ngiorno, che piano?”
Cretina che sono, mi hanno appena promossa e mi comporto come un’ascensorista. Che se lo spinga da solo il pulsante, mister Ce l’ho solo io. Pensa di essere una specie di divo solo perché sono tutte lì a sbavargli dietro. Oddio, siamo tutte lì a sbavargli dietro. Se penso che sono arrivata a fargli recapitare un mazzo anonimo di rose rosse a gambo lungo.
Aspetta, com’era il bigliettino?
Hai un’aria così annoiata. Io potrei proporti qualcosa di interessante, se solo scopri chi sono…
Patetica! Ma che credevo di ottenere?
Chissà le risate che si sarà fatto alle mie spalle. Certo, però, che una qualche traccia in più potevo dargliela, magari non ha neanche capito che ero proprio io quella che…
“Che succede?”
L’orrida luce al neon lampeggia, poi l’ascensore si blocca con uno scossone. Ci guardiamo in faccia per la prima volta da quando è entrato. Siamo fermi tra il quarto e il quinto piano. Da non crederci. Sono bloccata in ascensore. E proprio con LUI.
Lui che spinge il tasto dell’allarme. Dalla grata arriva la voce della sorveglianza.
“Siamo bloccati”, spiega lui, tranquillo, pacato.
Sexy da morire con quella calata siciliana.
“State tranquilli, provvediamo subito a sbloccare la cabina.”
No, vi prego. Fate con calma.
Perché potrebbe essere un segno del destino, capisci?
Io e lui, da soli, in un metro quadro di cabina di ascensore.
“Le sono piaciute le rose?”
La butto lì, senza fermarmi a pensare. Lo guardo in faccia.
A lui l’orrida luce al neon non so come, ma dona. Gli occhi scuri sono animati di riflessi. I capelli lisci, neri, appaiono come cosparsi di gocce di luce.
“Come dice?”
Non mi arrendo, bello. E’ inutile che fai l’indifferente.
“Le rose, rosse, a stelo lungo. Quelle di una sconosciuta ammiratrice.”
La comprensione gli si allarga sul viso da modello per uno spot virile: un profumo… no, meglio un’auto sportiva, un SUV. Quegli slogan idioti tipo: carattere sfacciato e ribelle, personalità scolpita.
E lui che guida con una mano sola, una giacca da smoking a pelle. Intanto oltre a comprendere di cosa parlo, si imbarazza pure.
“Non mi dica che era lei che…”
Non brilla per iniziativa, questo è certo. E neanche per prontezza di riflessi a dirla tutta.
“Ero io, si. Magari se si fosse guardato intorno.”
“Non avevo mai ricevuto rose prima. Sono rimasto spiazzato.”
“Beh, diciamo che spiazzarla era un po’ lo scopo, no?”
Mi è uscito il tono preciso di Paris Hilton in una pubblicità di telefonia. Peccato non avere la sua stessa faccia da strappami-le-mutande-adesso.
Lui mi guarda come mi vedesse per la prima volta.
Dio, non è che si accorge del pelo sul mento?
“Beh, scopo raggiunto, comunque.”
E siamo al punto di prima, cazzo!
“Mi chiamo Annalisa.”
Gli tendo la mano, lui la stringe, meccanico.
“Io Sergio.”
“Lo so”, brutto cretino, vorrei aggiungere.
Ti pare che non so vita, morte e miracoli dell’uomo cui ho mandato 50 euro di rose rosse a stelo lungo?
“Già, immagino.”
E adesso?
“Ha impegni per pranzo?”
Da dove mi viene questa faccia da culo non lo so. Ma siamo in ballo e tanto vale ballare.
“No, direi di no, però…”
“Però?”
Ho inclinato la testa, lo guardo di sotto in su. Luce al neon o meno, tento un’espressione sensuale e mi pare pure di riuscirci.
“Vede Anna…”
“...Lisa.”
“Vede Annalisa, l’omaggio di quelle rose mi ha sicuramente lusingato…”
Il MA è lì, enorme, pesante.
Vorrei che il fondo della cabina si aprisse e mi inghiottisse.
“Ma io, sinceramente, non credo che noi… insomma, lei è una donna…”
Non dire intelligente, ti prego. Tutto, ma non…
“Intelligente e spiritosa e di sicuro ha messo in conto che a quelle rose non dovesse necessariamente seguire…”
Si sta arrampicando sugli specchi.
“E’ sposato?”
No che non lo è, lo so. Mi sono informata.
“No, ma vede Annalisa, lei non è…”
“Il suo tipo?”
Mi sorride, con gratitudine.
Avessi un coltello, lo sbudellerei qui, subito.
“Questo non vuol dire che lei non sia una bellissima donna.”
Non dirlo, stronzo! Se io fossi una bellissima donna, mi saresti già saltato addosso e avrei la tua lingua in bocca e le tue mani dappertutto.
Uno scossone e la cabina si muove.
Il silenzio è denso come bitume mentre arriviamo al sesto piano, quello che lui ha prenotato.
Si affretta a mettere il piede fuori, poi si sente in dovere di voltarsi.
“Annalisa, spero che questo non…”
Non gli do il tempo di finire. Spingo il pulsante che chiude le porte, salgo all’ottavo, entro nel mio nuovo ufficio, mi siedo alla scrivania e avvio il computer.
Spero che questo non… cosa?
Che cazzo voleva dire?
Restiamo amici?
E quando mai lo siamo stati?
L’interfono mi chiama. Adesso che sono il capo del personale ho anche una segretaria.
“Dottoressa, il primo colloquio di oggi.”
“Lo faccia passare.”
La porta si apre e ne entra LUI.
Adesso capisco quelle quattro fottute paroline:
spero che questo non
Speranza vana, carissimo Sergio.
Lo so io e, adesso mentre ti sorrido e ti invito a sedere, lo sai anche tu.
 
Laura Costantini

martedì 24 maggio 2011

Oggi su "La Sesia": il buono, il brutto e il cattivo

Tre volti per caratterizzare la scorsa settimana televisiva. Tre volti non più giovani, ma i giovani non sono più protagonisti di ribalte importanti. Tre volti di uomini, ché le donne hanno ancora tanta strada da fare. Tre casi a loro modo esemplari e il richiamo al titolo di uno dei capolavori di Sergio Leone è venuto istintivo, senza per questo aver ben chiaro chi sia il buono, chi il brutto, chi il cattivo.
Di sicuro il più importante è Dominique Strauss-Kahn. Uomo potentissimo, dato per certo successore di Sarkozy all’Eliseo, ha la faccia giusta per l’assurda vicenda di cui si è reso protagonista. Un mix molto francese di Jean Gabin, Lino Ventura, Jean-Paul Belmondo senza per questo avere il fascino di nessuno dei tre. Sessantadue anni appesantiti, una smorfia arrogante e lo sguardo aggrondato di chi non riesce a credere che sia capitato proprio a lui. L’ex presidente del Fondo Monetario Internazionale si proclama innocente e rivendica un incontro sessuale consensuale con Ophelia, la cameriera che lo accusa di stupro. La parola spetta alla giuria, ma intanto vengono a galla racconti e atteggiamenti di un uomo che esercita a tempo pieno la seduzione del potere, anche ai danni di donne che di tale seduzione non sono succubi.
Il più famoso a livello internazione è invece Arnold Schwarzenegger, austriaco naturalizzato americano, divo hollywoodiano di film poco memorabili, ex governatore della California e, per sua stessa ammissione, ex marito modello. Il giorno prima festeggiava 25 anni di matrimonio con Maria Shriver, madre dei suoi quattro figli, e il giorno dopo Maria, nipote di JF Kennedy, lo lasciava accampando una pausa di riflessione. La realtà dei fatti ha provveduto a divulgarla Arnold prima che ci arrivassero gli implacabili rotocalchi americani. Dieci anni fa il protagonista di “Terminator” ha avuto un figlio da Mildred Beane, impiegata come colf nella residenza californiana degli Schwarzenegger. E, dopo averlo cresciuto in gran segreto, Arnold ne ha confessata l’esistenza alla moglie. Di sicuro non un bel regalo per le nozze d’argento.
Il fanalino di coda è, manco a dirlo, roba nostra. Non ha la faccia da cinema di Strauss-Kahn né l’imponenza fisica di Schwarzenegger. Pensava, in compenso, di avere l’appeal giusto per reggere un “one-man-show” in prima serata e ne ha convinto anche i responsabili della rete ammiraglia della Rai. Adesso se la ride: il programma è stato chiuso dopo la prima puntata per conclamato flop, ma lui, Vittorio Sgarbi, il compenso di un milione di euro se l’è comunque intascato. Tre facce delle quali non ci liberemo. Strauss-Kahn ha sguinzagliato una squadra di investigatori privati a rovistare nel passato della cameriera Ophelia. Schwarzenegger, visto che gli eroi col muscolo un po’ vizzo son di moda, prepara un nuovo capitolo di “Terminator”. Sgarbi racconta in giro di essere troppo genio perché la gente lo capisca. A pensarci bene “Brutti, sporchi e cattivi” era un titolo più adatto.

Laura Costantini

domenica 22 maggio 2011

TERREMOTO? NO, GRAZIE


:Io mi domando e dico
ma con tanti cazzi che abbiamo per la testa, c'era proprio bisogno di inventare la bufola del terremoto a Roma andando a scomodare quel poveraccio di Bendandi? Forse non ci bastano la disoccupazione, il buco nell'ozono, la monnezza che finirà per ricoprirci, la masnada di buffoni che ci rappresentano, primo tra tutti l'innominabile innominato, la cellulite e la prova costume a giorni? E' davvero possibile che ci sia gente che non ha un caxxo da fare tutto il giorno che speperinarci i marroni profetizzando tragedie, calamità naturali, flagelli di Dio e giorni del giudizio? 
Ma noi italiani siamo davvero un popolo di beoti? Dove sono andati a finire i santi, i navigatori, gli  eroi? Ma ve lo immaginate un Camillo Benso conte di Cavour, seduto sotto i portici di via Roma a sorseggiare cioccolata calda e a vaticinare lo straripamento del Po'? O un Cristoforo Colombo che prima di salpare per le Indie si fa fare le carte dalla regina Isabella?
Ci hanno propinato Nostradamus in tutte le salse, quartine su quartine di profezie terribili e mai nessuno che si sia chiesto se il suo spacciatore era un tipo onesto. Ci hanno smantecato la uallera con i Maya, gli Atzechi, gli Incas. Ci hanno sfracassato le balle con tutti i segreti di Fatima.
E mo' basta!
Adesso abbiamo voglia di un altro genere di profezie, che ne so, qualcuno che ci dica che di Grande Fratello è rimasto solo quello che poggia sul cavallo dei pantaloni. Che i migranti potreano presto assurgere al ruolo di immigrati ed essere accettati e integrati con il resto della popolazione. Che al prossimo referendum del 12 giugno la gente andrà a votare consapevole della scelta che sta facendo, in modo tale che, per esempio, almeno in Italia si scongiuri un disastro (per altro mai vaticinato) come quello occorso in Giappone. Dal momento che i terremoti non si possono prevedere ma i bisogni di noi italiani si, direi che c'è bisogno di qualcuno che affronti concretamente i nostri problemi.
E se poi, quando tutto sarà sistemato, quando la scuola tornerà a forgiare intellettualità libere, quando la sanità sarà uguale per tutti, quando gli operai dimenticheranno il significato della parola cassa integrazione e le donne quella di maltrattamento e stupro. Quando i bambini potrenno tornare a giocare nelle strade libere dai pedofili, quando le donne grazie a programmi mirati potranno finalmente conciliare le aspirazioni lavorative con la cura dei figli, quando un po' di tutto il marciume che ci toglie il respiro sarò spazzato via da gente onesta, con la voglia di crescere, di migliorare,
se poi, dico,
il terremoto dovesse arrivare davvero...
'sti caxxi!
lory

venerdì 20 maggio 2011

Soffro ergo scrivo?

Piccola riflessione suggerita da una discussione sorta durante una cena. Si parlava di scrittura e di scrittori e ci si e' divisi (senza per questo prenderci a capelli) in due opposte fazioni: da una parte coloro che riconoscono la qualifica di "scrittore" a chi vive per scrivere (notare, non scrive per vivere che' in Italia e' privilegio di pochi) con la postilla che per costoro la scrittura e' sinonimo di sofferenza, di creazione strappata dalle viscere, di "partorirai con dolore"; dall'altra coloro (compresa me) che nella scrittura trovano e provano gioia, entusiasmo, sensazione di elevarsi al di sopra della quotidianita', ebbrezza da "potere". Lo ammetto pubblicamente: non appartengo alla genia del "tormento ed estasi" e questo mi colloca d'ufficio nel novero dei "non-geni". Scrivere e' la cosa che mi riesce meglio. E' una capacita', un talento che mi e' stato dato in dono non so bene da chi, ma lo ringrazio a prescindere. Questo, ovviamente, non vuol dire che la mia scrittura possa stare al pari di quella di coloro che si struggono di dolore e scrivono intingendo la penna direttamente nelle piaghe della creazione. Non pretendo ne' pretendero' mai di scrivere "il libro della vita" mia o di altri. Io racconto storie, da dove scorghino non saprei dire, ma sgorgano come acqua dalla sorgente. Non e' un parto, il mio. E' un atto naturale, facile, gioioso. Ammetto che alle volte mi sento in colpa per questo e mi interrogo sul reale valore di una creazione senza sofferenza. Ma poi mi dico che scontare il piacere con il dolore, perche' di questo si tratta, e' dogma derivato da due millenni di cristianesimo. Proprio come il sentirsi in colpa. E decido che son felice di scrivere come scrivo. E di continuare a raccontare storie. Belle o brutte lo decidano i lettori, se vogliono.

martedì 17 maggio 2011

Oggi su "La Sesia": Ognuno per se', nessuno per tutti

Negli ultimi tempi le reti televisive nazionali stanno trasmettendo uno spot. Uno di quelli ben fatti. Ci sono personaggi come Alessandro Gassman, Alex Del Piero, Vittoria Mezzogiorno che invitano a riappropriarsi del proprio tempo, a partire senza una meta, a raccontare favole ai propri figli. Perché la vita è più importante della televisione. Si hanno pochi secondi per restare stupiti davanti alla tv che rema contro se stessa. Poi si svela l’arcano. Nel gergo che si usa quando non si vuole fare pubblicità occulta (e gratuita) a qualcosa, si tratta di una notissima emittente satellitare che invita ad abbonarsi per usufruire di un diabolico marchingegno, che poi altro non è che un videoregistratore. Il messaggio è chiaro: non essere schiavo dei palinsesti stabiliti dagli altri. Esci, parti, prendi impegni, tanto il tuo programma, reality, telefilm preferito puoi registrartelo nella memoria del dispositivo e rivedertelo quando ne hai voglia. E non ci sarebbe niente di male se non si assistesse sempre più spesso a un fenomeno che potremmo chiamare diaspora dei piccoli schermi. Mentre la mamma in cucina si spara le ultime due serie di “Casalinghe disperate”, i ragazzi, ognuno davanti al proprio portatile, si stampano nelle retine intere maratone di “NCIS” o “Criminal minds” e papà è libero di vedersi la finale di Champions League sul plasma del salone, ovviamente in rigorosa diretta. Non vuole essere una polemica contro il calcio. Perché anche la partita più bella perde sapore se non la si segue mentre accade e se il proprio urlo di gioia per il goal decisivo non si fonde con quello dell’intero vicinato. Si chiama condivisione. Quella che hanno vissuto le generazioni nate dal 1960 in poi. Chi non ricorda l’appuntamento imperdibile con “Happy days” alle 19:20 alla fine degli anni ’70? Mentre il sapiente prodotto statunitense inculcava il rimpianto per un’America al sapore di milk shake mai veramente esistita, si pregustava il momento in cui, il giorno dopo, si sarebbe commentata la puntata insieme ai propri compagni di classe. Era un modo per sentirsi parte di un tutto. Omologati, forse. Ma la differenza tra seguire una trasmissione insieme a tutta Italia oppure vedersela con comodo secondo i propri tempi e le proprie esigenze è la stessa che c’è tra accorgersi che la radio sta trasmettendo la nostra canzone preferita, oppure spararsela in solitaria nel lettore mp3. E’ sempre la stessa canzone, ma accorgersi che nel traffico il nostro vicino di coda la sta ascoltando e batte il tempo proprio come noi, le dà un sapore diverso. Migliore. Se c’è un pregio da riconoscere alla televisione, è quello di averci riuniti davanti a uno schermo. Intere famiglie, genitori e figli, intenti a seguire la stessa storia, lo stesso dibattito. Magari ne scapitava il dialogo. Ma il diabolico marchingegno che lo spot ci propone è solo un altro passo verso un futuro alla Blade Runner: ognuno col proprio palinsesto e nessuno con cui poterne parlare.

Laura Costantini

martedì 10 maggio 2011

Oggi su "La Sesia": l'icona Kate e Cenerentolo

Per essere un paese che scelse la repubblica, subiamo fin nelle più infime fibre il fascino delle teste coronate. Le nozze reali ci esaltano e fra i due miliardi di fruitori mediatici dell’evento William & Kate, abbiamo fatto la nostra porca figura con milioni di click su youtube e facce incollate ai teleschermi. Abbiamo criticato le principessine Eugenia e Beatrice, cugine dello sposo, per il loro look da sorellastre di Cenerentola. Abbiamo apprezzato David Beckham, nonostante la medaglia appuntata sul bavero sbagliato, e dileggiato la di lui tristissima, magrissima ed elegantissima moglie Victoria. Abbiamo fatto le pulci a tutti gli invitati in mondovisione. Ci siamo fatti una ragione della mancanza di Emanuele Filiberto e Clotilde e potevamo finirla lì, nella serata del 29 aprile, immaginando il principe Harry e Pippa Middleton scatenati nelle danze profanatorie di Buckingham Palace. Invece no. Nonostante non si faccia parte di quella strana comunità che è il Commonwealth (stati sovrani, quasi tutte repubbliche ed ex colonie inglesi che si inchinano comunque alla monarchia britannica), non manca giorno in cui Kate Middleton non appaia sui nostri giornali, telegiornali e programmi di approfondimento. Abbiamo disquisito sulla sua dieta. Sulla fattura del suo abito da sposa forse plagiato a un’oscura attrice italiana casualmente moglie di un altrettanto oscuro principe belga. Sui guanti che non c’erano, sui capelli che non erano raccolti, sul profumo che indossava, sul mancato viaggio di nozze. Gli opinionisti nostrani si sono scatenati e le più caustiche sono state, e continuano a essere, le donne. In un’epoca in cui fare un buon matrimonio sembra, giustamente, l’ultimo dei pensieri femminili, Catherine Elizabeth Middleton, duchessa di Cambridge e Altezza Reale, appare imperdonabile. Perché nasce da una famiglia della media borghesia, perché sua madre ha trovato il modo di guadagnare una barca di soldi, perché ha frequentato la stessa prestigiosa università di William, perché ha battuto una folla di aspiranti principesse molto più blasonate di lei. Soprattutto perché è una bella ragazza come tante, disposta alla risata sguaiata, alla bevuta in compagnia, ai balli scatenati e alle minigonne. Una qualunque che però, anche mentre era sull’altare di Westminster, non sembrava emanare stupefatta gratitudine verso William per averla elevata a simili aristocratiche altitudini. Lo ha sposato come avrebbe sposato un qualsiasi altro uomo. Lo aveva anche mollato, qualche tempo fa. Le caustiche commentatrici dicono per costringerlo al grande passo. E lui, per non perderla, ha ceduto. Oggi si calcola che il “brand Kate” valga svariati miliardi di sterline e la monarchia si frega le mani per il rilancio d’immagine ottenuto. Una principessa-icona mancava a corte dai tempi di Lady D. Ma l’icona Kate ha molto da insegnare. A cominciare dall’inversione di ruoli. Perché, sia chiaro, tra i due il Cenerentolo salvato dalla matrigna è William.

Laura Costantini

lunedì 9 maggio 2011

Per ricordarmi di NON essere infelice (anche se oggi lo sono)

Era maggio del 2008 quando scrivevo questa cosa qui:
 
Etimologicamente parlando la parola felicità ha la stessa radice di fecondo, femmina, feto, felice, fieno, figlio: dal latino *fere = nutrire, a sua volta dalla radice indoeuropea *dhe = succhiare. Quindi insito nel concetto stesso di felicità c’è il nutrimento, la capacità di sostentare l’anima con le gioie della vita. Una capacità che stiamo perdendo, mi sembra, di pari passo con quella di apprezzare il buon cibo e le cose semplici come lo splendere del sole in un cielo azzurro di maggio. Stiamo diventando anoressici nei confronti della vita stessa. Devo dire che di questo assurdo atteggiamento sono stata campionessa per diversi anni, aiutata si dalla gente che avevo intorno, ma senza altra giustificazione che non fosse la precisa volontà di non vedere il lato positivo della vita.
Amori infelici, incontri sbagliati, scarsa gratificazione professionale e il gusto per la malinconia. Anche qui può venirci in aiuto il dizionario etimologico: malinconia o meglio melanconia deriva dal greco melancholia ovvero melas = nero e cholé = bile. Secondo l’antica medicina la tristezza morbosa del paziente derivava da un eccesso di un fluido, la bile nera appunto, che intossicava il corpo. Un veleno dal sapore dolce la malinconia. Io me la pasteggiavo ascoltando canzoni tristi (avete fatto caso che quasi tutte le canzoni a ben guardare sono tristi?) e lasciando scorrere inutilmente i giorni sempre in attesa di qualcosa di diverso, di migliore che mi illudevo fosse al di là del prossimo tramonto, della prossima alba, del prossimo mese, anno, decennio.
Gettare sempre lo sguardo al di là della collina, senza accorgersi del fiore che sboccia all’angolo del sentiero che si sta percorrendo. E’ questa la ricerca dell’infelicità. Da quel che vedo una sorta di sport nazionale (ma credo si possa allargare il discorso a tutto il mondo occidentale) che ci spinge come lemming in corsa verso un dirupo.
Un esempio pratico? Lo sto vivendo in questi giorni. Come sapete bene io appartengo alla categoria precari cronici senza speranza. Una condizione scomoda ma alla quale, con il giusto punto di vista, si riesce comunque ad abituarsi. Io mi sono abituata. Non perché apprezzi la flessibilità (= possibilità di perdere il lavoro in qualsiasi momento), ma perché cerco, da qualche anno a questa parte, di abbassare lo sguardo dalla collina al sentiero e di vedere la bellezza e la fortuna di guadagnarmi da vivere scrivendo. Esattamente quello che ho sempre desiderato fare. Quindi mi godo giorno per giorno le piccole soddisfazioni di un testo fatto bene, di un servizio che riceve i complimenti, di un’intervista che colpisce e, ovviamente, di uno stipendio dignitoso. Cerco di tenere ben fisso in mente che questa condizione privilegiata (si, credetemi, rispetto a tanti giovani e meno giovani costretti a contratti interinali capestro, è una condizione privilegiata) potrebbe decadere da un momento all’altro. Esattamente come la mia salute. Esattamente come la mia stessa vita. Perché precari lo siamo tutti, non solo rispetto al lavoro, ma rispetto all’esistenza stessa. Ma anche questo è un concetto che spaventa i più, troppo presi nella loro rincorsa all’infelicità per rendersi conto che anche quella, un giorno, potrebbe apparire ai loro occhi come una cosa da rimpiangere. Sono una menagrama, dite? No, credo di essere realista e di aver sempre presente che quando, ogni mattina, mi accingo a percorrere i venti chilometri di traffico che mi dividono dal posto di lavoro, beh, potrei non arrivarci. Perché la garanzia di non avere incidenti gravi o mortali non può fornirmela nessuno. Non dipende da me. Non dipende da noi. Da chi dipenda non saprei dirlo, ma insomma avete capito il concetto.
Si parlava di esempio pratico: mamma Rai, messa in crisi dalla legge sul welfare che la costringerebbe ad assumere tutti coloro che le hanno prestato la loro creatività e forza lavoro per almeno 36 mesi (siamo in 1700!), ha deciso di bloccare tutti i contratti a tempo determinato, minacciando di non farci lavorare più. Ora non sto a tediarvi con i particolari tecnici che riguardano il bacino dei T.D. (praticamente una vasca come quelle dei ristoranti dove nuotano le povere aragoste, i capistruttura passano, guardano, scelgono; per il momento non ci fanno bollire vivi, ma non si può mai dire). Il fatto importante è che, carte alla mano, la Rai dovrà trovare il solito escamotage perché tutto cambi restando esattamente com’era. Questo noi T.D. lo sappiamo bene (nel mio programma solo cinque persone su quasi cento godono di un contratto a tempo indeterminato; senza noi precari semplicemente non andremmo in onda). Ma i miei colleghi sono, ricordate?, alla spasmodica ricerca dell’infelicità. Quindi da qualche giorno a questa parte si sono lanciati in una ridda di supposizioni che, passando di bocca in bocca, assurgono a decisioni prese dal settimo piano di Viale Mazzini: ci licenziano tutti, ci trasformano tutti in interinali che lavorano a scaglioni, ci costringono a lavorare a partita IVA, ci deportano tutti in un gulag su dalle parti della Lega dove Calderoni e Borghezio, vestiti di latex nero, ci prenderanno a frustate perché rappresentanti di Roma ladrona e sfaticata. E via congetturando, sobillando, gasando se stessi e gli altri in negativo. Gente che scoppia in lacrime, gente che ha già pronto il ricordo alla Corte Suprema di Washington (hai visto mai non bastasse la Corte dei Conti nostrana?). Lemming. Lemming lanciati a passo di carica verso il dirupo. Chi cerca di azzardare una punta di ottimismo viene immediatamente aggredito (Io ho parlato con il direttore di Rete – Io con il direttore generale – Io col ministro del lavoro in persona – Io sono stato a cena con l’intero C.d.A.) e pungolato affinché riprenda la corsa e si lanci nel burrone della disperazione.
Perché la sfortuna, il mobbing, la mancanza di un riconoscimento del proprio valore sembrano diventati un valore in se stessi. Giochiamo al rialzo con la curva negativa del grafico. Altro esempio pratico di ieri. Supermercato, in fila alla cassa. Una giovane mamma decide di accontentare le lagne del figlio e prende un Power Ranger. Ma non vuole fare la fila e quindi, senza accorgersi che la cassiera ha già aperto il nostro conto, chiede di passare avanti. Mia madre le fa notare che, appunto, il conto è già aperto e che anche lei non vede l’ora di finire, perché stare in piedi a lungo le fa male al ginocchio operato. “Sono invalida”, dice mia madre, 72 anni, alla giovane mamma in jeans e Nike che ne avrà avuti una trentina. Lei la guarda incattivita e poi dice: “Io pure sono invalida!” Io la guardo: snella, muscolosa, si muove benissimo. Vuole passare avanti perché ha mille cose da fare, perché il figlio è uno di quelli che ti fa rimpiangere che non esista un Telefono Azzurro a tutela dei genitori, perché fare la fila non piace a nessuno. Ha la faccia aggressiva, immusonita, si vanta di essere anche lei invalida. E mentre penso che esistono anche delle invalidità cerebrali, le dico: “Io spero che lei lo sia, invalida. Almeno quanto mia madre.”
Gioco al ribasso di se stessi e degli altri. Perché non ci basta essere noi intossicati di bile nera, vogliamo che lo siano anche gli altri. Vogliamo tirare giù dal dirupo quei pochi che ancora riescono a tenersi forte al bordo. E’ così anche in Rete. Da quando io e Lory frequentiamo la blogosfera, di gente alla ricerca dell’infelicità propria e (soprattutto?) altrui ne abbiamo incontrata tanta. Gente che ha fatto della malafede una religione per cui qualunque commento, qualunque parere, perfino un innocuo emoticon celano doppiogiochisti, ipocriti, leccaculi. Gente che vuole ad ogni costo l’homo homini lupus per cui dietro ogni clic si cela la fregatura, l’inganno, la menzogna. Gente che si incattivisce per una foto dove appari troppo carina, per un post troppo ben riuscito, per una piccola affermazione personale. Malafede, invidia, lo sguardo sempre puntato ad altro, agli altri, a quelli che sembrano avere di più di te.
E se la piantassimo? Lo so che è un’utopia. Ma sapeste quanto si sta meglio quando si capisce che l’unico vero nemico ce lo portiamo dentro e altro non è che l’ansia di ottenere di più. Di più di tutto, anche delle cose negative.
Dice Arthur Schopenhauer nel suo L’arte di essere felici: Imitare le qualità e le caratteristiche altrui è molto più vergognoso del portare abiti altrui: perché è il giudizio della propria nullità espresso da se stessi.
Gli risponde Ovidio: Optimus ille animi vindex, laedentia pectus/ Vincula qui rupit, dedoluitque semel (E’ il miglior liberatore dell’animo chi ruppe i legami che opprimevano il cuore e cessò di dolersene una volta per tutte)
Non siamo padroni della nostra vita. Ma possiamo decidere se trascorrerla alla ricerca dell’infelicità, oppure godendola attimo per attimo. Io cerco di scegliere la seconda opzione. Non dico sia facile, ma di sicuro è molto più proficuo (dal latino pro e facere = fare qualcosa a vantaggio di qualcuno).
 
Laura

martedì 3 maggio 2011

Oggi su "La Sesia": Un fiabesco venerdi' di paura

Non succedeva dal 1981 che un erede al trono inglese sposasse una bellissima fanciulla. Quindi venerdì 29 aprile c’era il mondo intero incollato ai teleschermi per seguire, ancora una volta, la favola banale eppure immarcescibile di Cenerentola e il suo principe azzurro. Un numero esagerato di inviati a Londra, una spasmodica attesa delle “eveline” internazionali (i filmati messi in rete per tutte le tv del mondo), tempi strettissimi per il montaggio dei servizi cosiddetti di costume: il look degli invitati, le espressioni dei parenti, i cappelli della regina, l’ordine d’arrivo dei vip. Annunciato con squilli di tromba lo speciale di “La vita in diretta” in onda a partire dalle 14 e dieci. Corsa in auto dalla sede di montaggio alla redazione, arrivo con cassetta tra i denti sul fil di lana. Tutto come da adrenalinica consuetudine televisiva. E invece no.

Invece in redazione le facce sono pallide, gli occhi lucidi, le espressioni choccate. Lamberto Sposini ha avuto un malore a neanche due minuti dalla diretta. Il programma non può partire. Partono invece le telefonate per cercare un’ambulanza e avvertire i vertici dell’azienda. Infarto? Congestione? Ictus? Una ridda di ipotesi mentre i minuti scorrono lenti. Lamberto è sdraiato in terra nel corridoio dello studio, coperto con felpe, giacche, sciarpe rimediate dai collaboratori presenti. Non è cosciente. Il tam tam della Rete, tra Ansa, Adnkronos, blog e Wikipedia si scatena. Prima di cadere Lamberto ha avuto uno sbocco di sangue - non è vero. È gravissimo - è vero. È morto, annuncia Wikipedia aggiornandone la pagina (poi corretta). Studio Aperto rilancia: stanno espiantando gli organi. Non è vero. Ma intanto l’ambulanza non arriva. A giochi fatti il 118, supportato dalla governatrice Polverini, annuncerà che l’attesa è stata di 19 minuti (balle), anche perché nessuno aveva specificato che si trattava di un codice di massima priorità. Si scopre così che all’occorrenza si deve fare una diagnosi esatta e avere chiaro quale ospedale scegliere. Lamberto viene portato nel più vicino, Santo Spirito. Poi, constatata la gravissima emorragia cerebrale che lo ha colpito, viene trasferito al Gemelli. Tutto questo mentre, a partire dalle 15 e dieci, l’azienda decide che Mara Venier vada in diretta con ospiti e filmati sul matrimonio di William e Kate. Le è stata nascosta la gravità della situazione. Lei, com’è giusto visto l’argomento, ride e scherza sul cattivo gusto di Camilla Parker Bowles mentre le agenzie battono lanci sempre più allarmanti. Sposini in coma, in pericolo di vita, forse operato ma è un tentativo senza speranza. Il contrasto tra gli schermi dei computer e quello della tv è evidente. I telefoni sono bollenti. I giornali vogliono capire cosa sta succedendo e poi scriveranno ricostruzioni molto fantasiose sui fatti. Perché nessuno ha potuto vedere le facce, le lacrime, l’angoscia. Mentre scriviamo Lamberto è in coma farmacologico, reagisce agli stimoli. I medici sono ottimisti.

Laura Costantini

domenica 1 maggio 2011

Non ci rimangono che i libri

Non parlerò del Primo Maggio. Sono stanca e demoralizzata dalla farsa mediatica della beatificazione di Karol Woytila e dalle baggianate di Renzi dalla Annunziata. Parlerò di libri. Anzi, lascerò che a parlarne siano altri. Persone che ci leggono e che ci apprezzano. Ve lo ricordate il nostro cruento noir Viole(n)t Red? Ebbene, l'amico Salvo Zappulla ne ha appena riparlato su FB, così:

Laura Costantini e Loredana Falcone sono la versione femminile di Fruttero & Lucentini, scrivono insieme da sempre e hanno raggiunto un' intesa tale che i loro scritti risultano perfettamente sincronizzati, come partoriti da una mano sola.
Viole(n)t red (Edizioni Bietti, Pagg.240, € 16,00) è un noir che potremmo definire classico, con un plot solidissimo che procede a incastro in un susseguirsi di scene cruenti, a tratti anche estremamente violente, ma mai fini a se stesse. Assecondano la logica di una mente maleficamente geniale (uno dei protagonisti principali del romanzo) e la sua contorta personalità. La premiata ditta Laura & Lory ha tutta la professionalità necessaria per confezionare romanzi ambientati negli Stati Uniti, profondità di documentazione, competenza, idee. In viole(n)t red si confronta con un caso che vede protagonisti due gemelli monozigoti, le loro percezioni extrasensoriali e le esperienze traumatiche, che li accompagneranno per tutta la vicenda narrata in uno stato di paura e di ansia. Un romanzo che scorre frenetico sul filo del rasoio, in cui genetica, influenze ambientali e l'interazione tra i protagonisti hanno un ruolo fondamentale. I personaggi si muovono come all'interno di una scacchiera, nessuna mossa è lasciata al caso. Il capitano Ian Vernon, investigatore della Squadra Vittime Speciali, fra tutti si eleva come un gigante, per la sua profonda umanità, la capacità di introspezione, l’integrità morale che lo fanno amare dai lettori. Ci sono i migliori ingredienti per appassionare chi legge: piccoli dettagli disseminati quasi per caso nel corso del romanzo, falsi indizi per tenere desta la concentrazione, uno stile narrativo fluido, una robusta trama criminale che lega l'incipit all'ultima pagina e racconta impietosamente il reale, indaga l'animo umano e le sue debolezze. Si analizzano i rapporti tra uomo e donna, si affrontano i problemi della solitudine, del confronto tra il bene e il male, l'odio e il perdono, il dolore e la sua accettazione. E quando sembra che il finale sia ormai chiaro a tutti, Laura e Loredana ecco che si inventano un nuovo colpo di scena, una nuova trovata che prolunga l'attesa all'infinito. Un romanzo da consigliare a quanti amano le emozioni forti, non hanno paura di attraversare una strada buia, vogliono sentire gli scarichi di adrenalina dentro il cervello.

Invece la provocatoria intervista di Giuseppe Iannozzi ha riportato alla ribalta il nostro amatissimo giallo romano Fiume pagano e ve ne diamo qui una piccola anticipazione:

“Fiume pagano” è un prodotto letterario o più semplicemente della buona narrativa d’evasione?
Nessuno dei libri che escono oggi è un prodotto letterario, checché ne pensino i vari vincitori del premio Strega. Prodotto letterario lo diventeranno, se mai, nel giudizio dei posteri. Per quanto ci riguarda, siamo molto fiere di produrre buona narrativa d’evasione. Vivaddio.