venerdì 30 marzo 2012

I miei articoli per "La Sesia": La sterilizzazione dei sentimenti


Se siete abbastanza avanti negli anni, ricorderete. Ricorderete il sapore della mozzarella pescata a mano libera dal suo siero e messa in una bustina col nodo. Il profumo del panino col salame chiuso nella carta da pane e venduto durante la ricreazione. Il sollievo di riconoscere, nella folla di inizio anno scolastico, quello sguardo, quei capelli, quella cartella. Si chiamava amico del cuore e travalicava i confini della divisione di genere. Ce l’avevi se eri maschio. Ce l’avevi se eri femmina. E lo amavi di un amore più forte di quello che avresti scoperto in seguito, più disinteressato, più totale. Un sentimento talmente intenso da creare le prime rotture in famiglia, le prime ribellioni a scuola. La mamma che non voleva mandarti a studiare da lui/lei. La maestra che si lamentava del vostro continuo chiacchiericcio e vi divideva. E più il rapporto era contrastato, più si cementava, a dispetto del resto del mondo. Se siete abbastanza avanti negli anni, avete fatto in tempo a veder cambiare il mondo. La mozzarella oggi è sterilizzata in un triplice involucro di plastica inviolabile. Il panino col salame è diventato un tramezzino sigillato nel cellophane. E l’amico del cuore non va più di moda. È della scorsa settimana la notizia che in Inghilterra si sta adottando la politica del NoBestFriends. Su suggerimento di una psicologa dell’educazione, Gaynor Sbuttoni, le maestre britanniche stanno scientemente scoraggiando le amicizie esclusive tra gli alunni, per tenerli aperti a un più lieve cameratismo di gruppo. Il motivo, a suo modo, è nobile: evitando la scoperta dell’amico del cuore si eviteranno ai piccoli sofferenze dovute alla rottura dell’amicizia o alla sua inevitabile fine. Perché che si soffra è innegabile. È proprio con l’amico del cuore che si impara a consegnarsi nelle mani di un altro, a dipendere dai suoi umori, a contare sul suo aiuto. Ad amare con cieca fiducia. Almeno fino a quando non giunga il tradimento. E allora son pianti. Disperati e, apparentemente, inconsolabili. Perché all’amico del cuore avevi raccontato tutti i tuoi segreti, e lui i suoi a te. Perché nessuno ti conosceva meglio. Nessuno sapeva capirti come lui. E se una persona così ti tradisce, allora tutto il mondo è pronto a tradirti. È questa la scoperta dalla quale la psicologa inglese vorrebbe tutelare i bambini, sterilizzando di fatto i sentimenti non diversamente da una mozzarella o un tramezzino. Eppure, se siete stati tanto fortunati da incontrare un amico del cuore sulla vostra strada, lo sapete quanto vi è servito. Quanto sia stato importante anche perderlo e sentirsi traditi. Perché avrete deciso di non fidarvi più di nessuno e vi sarete sentiti forti del vostro piccolo cinismo. Almeno fino a quando in mezzo a tante facce coetanee non vi sia giunto lo sguardo di chi ha saputo riconoscervi. E tutto è ricominciato. Si chiama diventare grandi. E non si può sterilizzare.

Laura Costantini

giovedì 22 marzo 2012

Editoria a pagamento: è davvero il male assoluto?

Mi sto ponendo un problema strettamente letterario: sono da sempre contro l'editoria a pagamento e questo credo si sappia. Però in questi giorni sto leggendo un romanzo che è stato pubblicato a pagamento. Ed è buono. Molto buono. E' la seconda volta che mi succede. Alla prima accettai anche di presentarlo in libreria, quel romanzo. In questa occasione credo che ne parlerò molto bene e mi attirerò le ire di chi, giustamente, combatte questo genere di editoria. Però, prima di partire lancia in resta, io proporrei una riflessione. E' risaputo che pubblicare a pagamento non serve a niente. E' risaputo che il proprio valore letterario non ne uscirà rafforzato, anzi. E' risaputo che una pubblicazione a pagamento non fornisce all'autore una valutazione onesta, un lavoro di editing, una diffusione. Ma senza alcun lavoro di editing quel romanzo (che sto leggendo) è più che buono. Se la scrittura è accurata. Se la storia ha un'anima che grida. Insomma, se è un bel romanzo, perché l'autore è stato costretto/ha scelto di pubblicarlo così? Ci sarà qualcosa di sbagliato solo nella sua scelta o anche nel modo in cui un manoscritto accede alla pubblicazione vera? 

martedì 20 marzo 2012

Oggi su "La Sesia": Condizionale presente


Si chiama Linda e ha una bambina, ma potrebbe chiamarsi Vincenzo che invece è solo e felice di esserlo. Il nome, il sesso, la storia che ha alle spalle poco contano. Questa persona vive in uno stato che potremmo definire condizionale presente. Perché questa persona sembrerebbe un lavoratore dipendente da molti anni. Anni durante i quali ha vissuto, amato, ha avuto figli, ha preso in affitto una casa e azzardato l’acquisto di un’automobile. Un acquisto a rate, reso possibile da una busta paga che parrebbe quella di un essere umano dotato di quella cosa noiosissima che risponde al nome di posto fisso. Parrebbe. In realtà Vincenzo, ma potrebbe chiamarsi Sara e avere il desiderio di sposarsi, assume le vesti di lavoratore dipendente soltanto per otto mesi l’anno. Da tanti anni. Sara, ma potrebbe chiamarsi Giovanni e star per divorziare, non è una ragazzina. La generazione mille euro che tanta fortuna riscuote al cinema e in libreria non è la sua. Giovanni, ma potrebbe chiamarsi Antonella e non avere il coraggio di chiedere un mutuo, è nato e cresciuto nel mito del posto fisso, sì, quello noioso. I suoi genitori gli hanno detto che doveva studiare. Un diploma, anche meglio una laurea. E poi fare i concorsi. Quelli da 103 posti per 103mila candidati. Antonella, ma potrebbe chiamarsi Giuseppe e non sentirsela di legarsi a qualcuno vista la situazione, ha fatto come le è stato detto. Ha studiato. Ha fatto i concorsi. Non è servito. A un certo punto, ha letto sui giornali che quell’anno, lavorativamente parlando, si portava la flessibilità e che un bel contratto co.co.co era quello che ci voleva per lanciarsi nel mondo del lavoro. Giuseppe, ma potrebbe chiamarsi Priscilla e aver studiato per tutt’altro lavoro, si è anche sentito molto al passo con i tempi quando ha firmato il suo primo contratto a tempo determinato. Tre mesi, sei, nove, non conta. Tanto non è per sempre. Priscilla sapeva che, prima o poi, il posto fisso sarebbe arrivato. E lei sarebbe stata una lavoratrice dipendente. Vera. Priscilla, ma potrebbe chiamarsi Marco e nel frattempo aver compiuto 50 anni, ha firmato fogli dove affermava di non aver nulla a pretendere. Ha giurato che mai e poi mai avrebbe fatto causa all’azienda. In compenso Marco, ma potrebbe chiamarsi Luciana, lavorare da precario da 25 anni e avere l’età in cui sarebbe giusto andare in pensione, è stato inserito in un bacino. Ha ottenuto la promessa di un’assunzione. Non una promessa vaga. Hanno fornito una data: entro il 31 marzo 2012. Luciana, ma potrebbe chiamarsi Antonio ed essersi nel frattempo affezionato alla precarietà, doveva firmare il contratto a tempo indeterminato ieri. Ma ha ricevuto una telefonata: motivi tecnici, tutto rimandato. Ci faremo sentire. Antonio, ma potrebbe chiamarsi Francesca e aver avuto una crisi di panico dopo aver riattaccato, ha una sola certezza. Al 31 marzo mancano 11 giorni. O almeno dovrebbero.

Laura Costantini

lunedì 19 marzo 2012

I racconti del lunedì: Giro di do

Oggi, in occasione della festa del papà, un racconto... paterno. Sempre a firma delle vostre Lauraetlory,
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Un campanaro suonava a distesa e una donna con un gran cavolo sotto il braccio osservava la scena. Checco pensò che poteva capire la sua curiosità. C’era una bara, portata a braccia dagli amici, due anziani genitori che si sostenevano l’un l’altra in uno scambio di sospiri asciutti. E c’era lui, i soliti jeans cuciti addosso, la giacca con le toppe sui gomiti, le Clark inzuppate e quel fagotto di ciccia tra le braccia: Lella. Checco capì che la donna con il cavolo la pensava come tutti gli altri: uno con la sua faccia non poteva prendersi cura di un neonato. In fondo era esattamente quello che gli aveva detto Letizia, anche pochi minuti prima di morire.
Il piccolo corteo funebre scivolò silenzioso lungo il sagrato incuneandosi sulla stradina che portava al cimitero. Checco lo lasciò sfilare, accodandosi al gruppetto neanche tanto sostanzioso dei compaesani. Del resto nessuno di loro era riuscito a dimenticare il disprezzo che Letizia nutriva verso tutto ciò che sapeva di legna bruciata, di terra, di stalle. Se n’era andata sbandierandolo, quel disprezzo. E se era tornata era stato solo per sgravarsi di Lella. La piccola gli si agitò tra le braccia, mentre, a passi sempre più lenti, cercava di rimanere indietro. Se la sistemò meglio contro la spalla e ne assorbì il sorriso complice. Checco era certo che Lella avesse percepito il colpo di fortuna che le era toccato perdendo una madre come Letizia. Letizia che non gli aveva mai nascosto la verità. A tenerli insieme era il suo modo di prendersi cura di lei: lavorava per tutti e due, pagava l’affitto, cucinava, lavava, stirava e, all’occorrenza, le scaldava il letto. Quando non era già occupato. Un figlio non rientrava nei suoi piani. Glielo aveva chiarito nel momento stesso in cui Checco, un sorriso ebete sulle labbra, aveva alzato gli occhi dal rosa del test di gravidanza che lui stesso aveva comprato dopo aver notato che da mesi la scorta di assorbenti restava intatta. Non era riuscito a farla ragionare. Letizia aveva deciso che quel bambino era di troppo e che non era disposta a dividere con nessuno la dedizione che Checco le doveva. Era troppo tardi per abortire, ma di questo non si era preoccupata. Bastava tornare al paesello, partorire e lasciare il fagotto ai nonni per poi tornare nel loro seminterrato al Tuscolano.
La pioggia battente affrettò la marcia del corteo verso il cimitero. Lo avevano ormai distanziato ma nessuno se n’era accorto, raccolti sotto la volta degli ombrelli. Era il suo momento. Attento a non scivolare sul selciato viscido, tagliò per i vicoli verso la statale. Aveva studiato gli orari. Il prossimo Acotral stava per passare. Raggiunse la pensilina deserta e scostò il lembo della giacca con cui aveva riparato Lella. Lei gli sorrise ancora, sebbene avesse il pannolino pieno e fossero trascorse più di due ore dall’ultima poppata. “Tu sei come me”, le sussurrò strofinando il naso contro il suo. “Lotti, se vale la pena lottare.” E lui aveva lottato, fino alla fine, fino alle estreme conseguenze. Era successo a pochi metri dalla fermata. Era sera, Lella piangeva affamata, ma Letizia non aveva intenzione di rinunciare all’aperitivo al bar. Non aveva mai avuto intenzione di rinunciare a ciò che riteneva le fosse dovuto.
“E tu vieni con me”, aveva detto. “A Lella ci pensa mia madre, prima comincia meglio è.”
Checco l’aveva seguita, più per convincerla che per altro.
“Senti, io ci ho pensato. Potrei chiedere un part-time. Tu torni a fare la commessa per qualche ora, almeno fino a quando non ha un paio d’anni. Poi la portiamo al nido.”
Lella si era fermata sul ciglio della statale e si era girata a guardarlo.
“Un giorno mi ringrazierai. Fammi accendere.”
Checco aveva estratto l’accendino, gli occhi offuscati dalle lacrime. Lella gli mancava già. Come poteva solo pensare di rinunciare a lei per sempre? Due grossi fari si accesero alle spalle di Letizia. Un camion, uno dei tanti che percorrevano veloci la statale.
“Mi dispiace”, aveva mormorato prima di darle una spinta. Lo sfiato stridente dei freni del camion non era stato diverso da quello dell’autobus che apriva le porte per farlo salire. Si sistemò in fondo, Lella stretta tra le braccia e lo sguardo rivolto indietro al rincorrersi della mezzeria e poi più su, fino alle punte dei cipressi del cimitero, fino a Letizia. Senza un motivo gli fiorì in mente il giro di do di “Buonanotte fiorellino” e cominciò a cantarla sottovoce, cullando Lella. Era stato suonando quella canzone che aveva attirato lo sguardo di Letizia. Era così che era cominciata la loro storia. Era da quelle parole che era germogliato il seme di sua figlia. Il pensiero lo accompagnò fino alla stazione Anagnina e poi giù, nel tunnel della metropolitana. “Torniamo a casa”, disse alla piccola ormai addormentata sullo sferragliare del vagone. Mancava un mese a Natale e alla fermata Giulio Agricola si affollavano gli ambulanti. Qualcuno, sulle scale che guidavano all’esterno, suonava “Buonanotte fiorellino”. Le note lo raggiunsero insieme all’odore freddo e umido della pioggia che lo aspettava all’uscita della metro.
Lauraetlory


mercoledì 14 marzo 2012

I miei articoli per "La Sesia": Abbondanza di maschi, carenza di uomini (il titolo l'ho mutuato da Barbara Garlaschelli)



L’8 marzo è trascorso, insieme al suo raccolto di mimose appassite e di ipocrisie. Restano gli uomini e le donne. Secondo Varrone il termine homo deriva da humus, quindi uomo nel senso, riferito a entrambi i sessi, di creatura di questa terra, non divina. Donna invece viene da domina, signora della casa, domus. Ma a grattar via le sovrastrutture culturali, uomo come creatura che si contrappone al divino e donna come angelo del focolare, restano due concetti che attengono alla sfera dell’istinto: maschio e femmina. Uomo e donna sono termini che appartengono al solo genere umano. In maschio e femmina si ripartiscono quasi tutti gli esseri viventi. Ed è solo scendendo a livello degli animali che possiamo tentare di capire ciò che non si può spiegare. Come abbiamo già avuto modo di scrivere, tra le principali cause di morte delle donne di età compresa tra i 16 e i 64 anni, in Italia, c’è l’omicidio. Ad opera di un uomo. Di solito un familiare. Soprattutto mariti. Ovvio che questi dati abbiano fornito spunti di dibattito in occasione dell’8 marzo. E altrettanto ovvia è stata la difesa che gli uomini hanno innalzato marciando compatti: “da sempre c’è gente che ammazza altra gente, inutile farne una questione di genere.” Fine del problema. Eppure, se qualcuno ha coniato il brutto ma efficace neologismo femminicidio, un problema esiste. Ed è un problema che si coniuga al maschile. I maschi non lo vogliono vedere, ma gli uomini dovrebbero sentirsi in dovere di affrontarlo. Nessun uomo si direbbe solidale con uno stupratore o con un assassino come chi pochi giorni fa ha ucciso la propria ex moglie e altre tre persone. Anzi. Un uomo ha detto in Rete: “Non si può definire uomo chi non ha rispetto per la dignità fisica e morale di chi ha o ha avuto accanto. Non siamo delle bestie.” Vero. Però. Ci sono uomini che filosofeggiano: “Siamo tutti così buoni quando ci schieriamo in massa contro i crimini. Ma ciò che la storia costantemente insegna, è che alcuni eccessi della mente umana sono inevitabili.” Altri che tentano un’analisi sociale: “Se si esamina la casistica delle violenze sessuali il 99% dei casi vede il maschio nella parte del carnefice. Se per secoli la formazione culturale, sociale, la coscienza collettiva ha messo il maschio in posizione dominante, è inevitabile che questo si rifletta nella delinquenza, nella violenza.” Ma non c’è neanche un uomo che si professi offeso. Offeso perché maschi abbandonati sono incapaci di gestire il dolore se non distruggendo colei che ha osato ritenersi una persona e non una proprietà. Offeso perché un branco di maschi adolescenti si ritiene in diritto di violentare una ragazzina e costringerla al silenzio. Offeso perché le donne denunciano le molestie e restano inascoltate. Non ci sono mai uomini a manifestare il proprio sentirsi offesi davanti a un aula di tribunale dove si giudica una strage dell’abbandono o uno stupro. Chiediamoci perché.

Laura Costantini

lunedì 12 marzo 2012

I racconti del lunedì: Nella notte sanguigna dei lampioni


Questo racconto lo scrivemmo per un contest dedicato ai vampiri. Per dimostrare che un tema sfruttato può sempre riservare delle sorprese.
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Ci risiamo. Come si fa a costruire una metropolitana in una città dove basta infilare un dito nel terreno per trovare un reperto archeologico? Siamo indietro con i tempi. Chi glielo dice adesso al geometra? Mi faccio largo tra gli operai curiosi e snocciolo tre bestemmie delle mie. I cunicoli mi mettono ansia e l’idea di infilarmi lì sotto proprio a fine turno… Accendo il faretto sul casco e cerco di non pensare che sono ingrassato e che il cunicolo è ancora solo un abbozzo. Giuro che se lì sotto non c’è la tomba di Augusto, mi faccio i cazzi miei e faccio spianare tutto.
Terra umida e grassa, Pietrisco. Fuori trenta gradi e qua sotto mi cago sotto dal freddo. Peggio di una catacomba. Ma dove l’hanno visto ‘sto sarcofago? Qualcosa mi cammina su per il polpaccio. Lo so che è solo un’impressione. E poi il pericolo non viene mica da ragni, scarafaggi o topi. Però prude, cazzo! Mi strofino e sento qualcosa di umido: una poltiglia di ragno mi impasta i peli, che schifo. Mi pulisco con una manciata di terra mentre continuo a muovere la testa per illuminare il più lontano possibile. Se mi hanno fatto scendere qua sotto per niente se la vedono con me. Altro che turni di riposo. Li faccio scavare pure il giorno di Ferragosto.
Eccolo. Pietra chiara sul fondo del tunnel. Non sembra niente di che. Non è neanche scolpita. Però è una parete. Vuoi vedere che abbiamo trovato sul serio la tomba di uno importante… Quelli delle Belle Arti ci fanno il culo, altro che storie. Questa è proprio una cripta. Tre pareti di travertino e la quarta l’abbiamo sfondata noi con la trivella. A ‘sto punto, perso per perso, io un’occhiata la do. Trovassi qualche pezzo da rivendere…

Sapevo che sarebbe successo. Il paradosso del genere umano è che non può vivere senza spargere sangue. Il salvifico odore del sangue. E il sapore. Immergo le labbra nella pozza che stilla ai miei piedi. E’ come rinascere. La vita che defluisce dal tuo corpo agonizzante mi riempie, mi restituisce forza. Emergo dalla nuda terra, incontro i tuoi occhi e ritrovo la pietà. Soffri ancora. La trappola è scattata e la lancia ha compiuto il tuo destino. La trappola che era lì per me. Stolti. Davvero pensavate fosse facile liberarsi di quelli della mia razza? Mio sfortunato amico, non sarei ancora qui dopo quanto… dieci, cento, mille anni? Ritrovo brandelli di lana sul mio corpo nudo e sempre più tonico ora che il tuo sangue si unisce al mio. Non resta traccia della mia toga. Ma la pelle riprende colore mentre i tuoi occhi si spengono. Vale.

Il mistero della metro C
Brancolano ancora nel buio gli inquirenti chiamati a indagare sulla morte di Luigi Borghetti, 45 anni, operaio specializzato trovato trafitto da una lancia all’interno di una cripta di età romana. L’uomo, chiamato a fare un sopralluogo per il ritrovamento di resti archeologici in un tunnel della nuova metropolitana, è stato trovato nudo e completamente dissanguato dai colleghi, insospettiti dalla prolungata assenza. Al momento nessuna ipotesi viene scartata. E se è stato scoperto il meccanismo che ha fatto scattare la lancia, nessuno sa ancora spiegare che fine hanno fatto i vestiti, il casco e, soprattutto, i resti del cittadino romano di epoca imperiale tumulato nella nuda terra. Prassi questa piuttosto inusuale per membri della nobiltà romana, quale doveva essere lo sconosciuto proprietario della tomba.

Marinella accartoccia la copia del Messaggero del giorno prima e la lancia nel cassonetto. Quel cantiere della metro, quello del morto, è proprio vicino casa sua. Lì dove la periferia prende il suo aspetto indeciso tra strade a scorrimento veloce, palazzine abusive e capannoni industriali. Un panorama spettrale alla luce rossastra dell’illuminazione al sodio mentre, traballando sulle zeppe da venti centimetri, torna alla stanza in subaffitto. E’ stata una nottata fiacca. Ormai la concorrenza delle minorenni slave e dei trans sta prendendo il sopravvento su quelle come lei. Prostitute qualsiasi, tra i venti e i trenta, con tariffe oneste e la pretesa di usare il guanto. Nella borsetta minuscola, imitazione di Gucci, ci sono 50 euro. Tutto quello che è riuscita a guadagnare passeggiando avanti e indietro sul suo tratto di marciapiede. Mo’ chi glielo dice a Dodi? Marinella è più stufa di prendere schiaffi che cazzi. Fosse stata in centro, si sarebbe attardata a bere un caffè. Ma lì non c’è niente, solo il cantiere della metro C, circondato dai bandoni gialli e dai nastri della Polizia. Le da un brivido pensare all’operaio impalato lì sotto. Un brivido che le si attacca addosso, come la merda dei cani sotto le suole delle scarpe. Si guarda intorno, nella luce senza ombre. E’ sola, a parte le rare automobili che transitano sulla Casilina. Ma c’è uno sguardo. Ne è sicura. Se lo sente strisciare addosso, acuminato come un coltello, minaccioso. Affretta il passo, anche se significa correre incontro a Dodi, portandogli soltanto 50 euro. Una miseria che non le perdonerà. Si prepara a parare la mano pesante di anelli mentre, con un sollievo inaspettato, riconosce da lontano la sagoma della Yamaha.

Non conoscevo la paura prima di trovarmi sbalzato in un mondo che non è il mio. La parte più razionale di me mi impone di considerare che il mio sonno può essersi protratto ben al di là delle mie supposizioni. Quello che ho intorno è un universo sconosciuto. Una realtà che ha ingoiato la mia città, lasciandone solo dei macabri resti dimenticati dagli uomini. Rovine. Solo rovine restano dei fasti che sono appartenuti al mio tempo. Roma è caduta. Come me si è addormentata per risvegliarsi tra mura grigie e luci fredde, sotto un cielo privo di stelle, umiliata da un idioma straniero.
Ho paura di questo mondo, di questa gente che non mi vede né mi teme. Uomini, donne e bambini confusi in una folla amorfa. Tutti. Meno lei.
Si è accorta di me. Sento il suo cuore battere in fretta, pompare l’odore dolce del sangue oltre la barriera della pelle, arricchito dall’aroma della paura. Ho sete. Tanta sete.

Gli ultimi passi di Marinella somigliano a una corsa. Quasi stia per gettarsi tra le braccia di Dodi. Quasi sia un’innamorata che rivede l’amato dopo tanto tempo e non una prostituta che va incontro all’ennesima fregata di botte.
“Oh, frena. Che te stanno a rincore?”
Marinella si volta a guardare il tratto di strada percorso. Ha il cuore in gola, ma l’asfalto è deserto e quasi lucido alla luce dei lampioni.
“Allora?”
“E’ stata ‘na serataccia. Ce so troppe brutte facce in giro.”
“Caccia li sordi, Marinè, che nun ce casco.”
Ecco, il momento è arrivato. Non ha senso mandarla per le lunghe. Apre la borsetta e prende le banconote, le conta. Neanche fossero aumentate nel frattempo. Le mette nella mano tesa di Dodi, senza alzare gli occhi.
“E questo che è? ‘Na presa per culo?”
Non le dà il tempo di rispondere. Le strappa la borsetta, la fruga, poi la getta lontano. Non fa caso ai suoi occhi spaventati. Neanche la guarda mentre, con un tono di voce che è tutto un programma le fa: “E’ che nun ce metti passione. Manco come mignotta vali un cazzo!”
Il manrovescio non la coglie di sorpresa, ma fa male. Sente le labbra rompersi, prese in mezzo tra anelli e denti. Il sapore del sangue è salato e tristemente noto. Cade a terra e Dodi comincia con i calci.

L’odore è fortissimo. Da stordire. Non è solo il sangue e la paura di lei. E’ la rabbia prepotente di lui. Lo guardo infierire sulla donna come neanche un barbaro. La sete ha preso il sopravvento. Esco allo scoperto.

“Manco li carci te meriti”, dice Dodi cercando le sigarette in tasca. “Che ce devo fa co’ te?”
Marinella vorrebbe rimanere lì, raggomitolata contro l’asfalto caldo. Sa che qualsiasi cosa dica, servirà solo a riaccendere la sua rabbia. Non sente dolore, quello arriverà dopo. Ma il freddo si. Sembra avvolgerla come un bozzolo, costringendola a stringere i denti.
“Arzete, cammina.”
Dodi la prende per un braccio, sollevandola quasi di peso.
“Te ne devi guadagnà armeno artri cento prima de chiude bottega.”
Marinella non lo ascolta, non lo guarda neppure. I suoi occhi frugano la notte sanguigna dei lampioni, sgranati.

Mi ha visto. Incrocio il suo sguardo e mi assale una sensazione che avevo dimenticato. Esisto. Il terrore nei suoi occhi è la mia legittimazione. Il riconoscimento di questa nuova vita. Ma l’emozione non basta. Ho bisogno di sangue. Tanto sangue.

Marinella non capisce l’ondata di orrore che la investe. Quello che si avvicina rapidamente alle spalle di Dodi è un uomo. Un semplice uomo, con le vesti di un operaio, troppo grandi per lui e chiazzate di scuro. Forse un barbone. Eppure la voce le rimane incagliata in gola, mentre tenta di avvertire Dodi del pericolo. Non fa in tempo. Marinella vede lo sconosciuto mettere una mano sulla spalla di Dodi e costringerlo a voltarsi.
“Ma che caz…”
Il rumore è terribile. Disgustoso. Un gorgoglio vischioso mentre tutto il corpo di Dodi freme, guizza, si consuma.
La bocca dello sconosciuto è sporca di sangue quando lascia cadere l’involucro accartocciato di quello che era un uomo.
Marinella è caduta in ginocchio. Non crede, non vuole credere a quello che ha appena visto. E’ ancora lì che cerca di convincere se stessa che è tutta un’allucinazione quando il vampiro le porge la mano.
“Surge.”
E’ un sussurro gentile. Marinella non capisce, ma afferra la mano. E’ fredda mentre l’aiuta a tirarsi in piedi. Lo sguardo del vampiro è attratto dalla sua bocca insanguinata dal manrovescio e lei si ritrova a pensare che sembrano tutti e due reduci da un banchetto.
“Ne time. Nolo tibi male facere.”
E’ latino. Una vaga reminescenza scolastica la assale e la sconvolge. Neanche nella più fervida delle allucinazioni potrebbe immaginare quelle parole.

Non capisce. Non può capire. La mia lingua, la lingua dell’Impero più grande del mondo, è ormai morta. Mi guarda e l’orrore danza nei suoi occhi unito alla curiosità. Il sangue sulle sue labbra promette delizie. E’ bella come un’etera di Cipro e la brama che mi agita rivela la profondità della mia solitudine. Sarebbe così facile spingerla a offrirmi la tenera curva del collo. Ma spegnere la sua vita mi lascerebbe ancora più solo in questo mondo che non mi appartiene.

Le dita fredde scivolano via da quelle di Marinella e lei batte le palpebre, come risvegliata da un sogno. Il vampiro fa un passo indietro e le indica la strada deserta. La lascia libera. Libera di correre via, di rivedere la luce del sole. Marinella esita. Fa qualche passo, poi si volta a guardarlo. Lui è sempre lì, ombra tra le ombre, immobile. Lei non sa se riesce a scorgere il sorriso che le distende timido le labbra dolenti. Ciò che sa con certezza è che qualcosa li ha uniti, qualcosa che non svanirà con le prime luci dell’alba ma tornerà a trovarla ogni sera, nella notte sanguigna dei lampioni.

Laura Costantini – Loredana Falcone

giovedì 8 marzo 2012

Un raccontarsi tutto al femminile

Succede QUI sul sito di donnaeweb.it : un modo di raccontarsi tutto al femminile. Una foto, poche parole per dire la propria presenza nel mondo del lavoro. E infatti si chiama così il progetto: SOGGETTIVA LAVORO. Riservato alle donne. 
Se vi va di adottare per qualche istante un'ottica femminile, specialmente oggi, andate a dare un'occhiata.

mercoledì 7 marzo 2012

Elogio del cartaceo

Ho una certa età. Lo ammetto serenamente. Sto anche pensando di smettere di tingermi i capelli e lasciare che la natura segua il suo corso trasformandomi in una brizzolata ragazza di quasi cinquant'anni. Preambolo lungo per darvi il sapore di questa riflessione. Qualche giorno fa mi sono sentita male. Non sono ipocondriaca, mai stata. Anzi. Non so quale sia il termine contrario di ipocondria, ma io mi ci riconosco. Tendo sempre a minimizzare, a non fasciarmi la testa. Però, qualche giorno fa, quel dolore improvviso, acuto, persistente nel petto, come una lama infilata nel cuore, mi ha spaventata. Era sera. Ero a casa insieme alla mia mamma che non ha attraversato dei bei momenti, ultimamente. Va meglio, però, molto meglio e credo che un po' sia anche merito mio, del mio starle accanto. Ne consegue che lei non concepisce proprio che io possa star male. Per lei io sono sempre una ragazzina, quindi sana per definizione. Ma stavo male. E un pizzico di paura ce l'avevo mentre pensavo a come gestire un'eventuale emergenza. Mia mamma non guida. Al pronto soccorso avrei dovuto, nel caso, arrivarci guidando. Nel marasma di emozioni sapientemente camuffate a uso e consumo della genitrice, mi sovviene che quel tipo di dolore potrebbe configurarsi come un caso di angina pectoris. Non sono un medico, ma mi tengo informata. I sintomi c'erano. A quel punto volevo saperne di più. Era sera. A casa io ho un portatile che accendo solo alla bisogna e connetto di conseguenza. In quel momento, a fronte della mia ansia di informazioni, la procedura mi sembrava eterna. Ed è allora che ho avuto l'illuminazione: tornare alla carta. Perché non se lo ricorda nessuno, ma fino a una trentina di anni fa, le ricerche si facevano sulle enciclopedie e i genitori che tenevano all'istruzione dei propri figli, facevano in modo di dotarli di strumenti idonei, acquistando collane di pesanti volumi che poi si pagavano a rate. Io di enciclopedie a casa ne ho almeno quattro. Mi è bastato andare in corridoio, prendere dalla libreria il volumone della A, sedermi accanto alla mamma e scorrere le pagine: A, An, Angelo, Angina pectoris. Beccata! Nel giro di pochi secondi mi si sciorinavano davanti tutte le informazioni necessarie, senza lentezze di connessione, senza cali di batteria, senza clessidre che girano. Per la cronaca la mia non era angina, bensì nevrite intercostale. Ma avete capito il concetto, spero. Non sono prevenuta verso le conquiste del mondo digitale, sono assidua frequentatrice di social network, leggo a schermo anche interi libri. Ma la carta, ragazzi, la carta è rivoluzionaria. Se manca l'energia elettrica, se la batteria va in tilt, se saltano le connessioni, se l'adsl vi lascia in piena bonaccia, un libro di carta non vi tradisce. Mai.

martedì 6 marzo 2012

Oggi su "La Sesia": Cinguettii feroci e contrapposti


Mentre scriviamo si è diffusa, non confermata, la notizia che Rossella Urru, la cooperante italiana rapita in Algeria quattro mesi fa, sarebbe stata liberata. Nella speranza che quando leggerete questo articolo Rossella sia effettivamente libera e magari già restituita all’abbraccio dei suoi cari, allontaniamoci dal particolare per approdare al generale. Ormai essere fuori dai social network significa essere fuori dallo stormo di notizie e pettegolezzi che svolazza sempre più nutrito nel cielo della Rete. Avrete sentito parlare di Twitter. Nasce per scambiare sms di 140 tassativi caratteri, con la differenza che ogni messaggio arriva contemporaneamente a tutti coloro che si sono dichiarati interessati alla vostra opinione. Ovvio che più seguaci (in gergo follower) si hanno, più ci si sente importanti. Non ci sono regole fisse per catturare seguaci e le tendenze più diffuse sono due: uniformarsi al comune sentire oppure andare decisamente controcorrente. Non possiamo dire quale delle due paghi di più ma possiamo darvi conto di scontri di schieramenti l’un contro l’altro armati che attengono alla cronaca più recente. Partiamo proprio da Rossella Urru. Quattro mesi nelle mani di Al Qaeda e un assordante silenzio dei media, rotto a Sanremo da Geppi Cucciari. Poi succede che due soldati italiani in servizio antipirateria su una petroliera nell’Oceano Indiano vengano accusati di aver ucciso a fucilate due innocenti pescatori indiani. E vengano arrestati. Immediata la mobilitazione della Rete per sostenere i marò e il loro immediato rilascio. In effetti il governo italiano si mobilita, com’è giusto che sia. Ed ecco che ai cinguettii pro-marò (tweet significa proprio cinguettio) si contrappongano quelli pro-Rossella Urru. Come se l’una cosa escludesse l’altra. Rosario Fiorello, cinguettatore compulsivo, rilancia l’appello per Rossella e oggi (sperando che la notizia sia confermata) è tutto un cinguettare: è merito di Fiorello. No, è merito delle trattative dello stato italiano. Cambiano le modalità, ma i tempi son sempre quelli di Coppi e Bartali. Si sceglie lo schieramento e poi si parte alla carica. Il cinguettio è stato a dir poco feroce riguardo la vicenda di Luca Abbà, l’attivista NoTav caduto dal traliccio: eroe o esaltato? Se i cinguettii uccidessero, si sarebbe visto scorrere il sangue. Così anche per lo scontro tra un altro attivista NoTav e il carabiniere ormai noto come pecorella. Opposte partigianerie, opposti modi di pensare e possiamo capirlo, visti gli argomenti che riscaldano gli animi. Ma giovedì scorso è morto Lucio Dalla e uno si aspetta un cinguettio unanime, come quello di uno stormo di storni al tramonto. Invece anche qui si è trovato il modo di scontrarsi. Perché qualcuno ha twittato la più idiota delle domande: ma al posto di Dalla non poteva morire Gigi D’Alessio? E altri hanno giustamente risposto che la madre dei cretini è sempre incinta.

Laura Costantini

lunedì 5 marzo 2012

I racconti del lunedi': Puoi sentirmi?

Attenzione, please, perche' dopo questo racconto non guarderete piu' una grata nello stesso modo...
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Puoi sentirmi?
La galleria che trafora la collina è vecchia. Risale al 1921. Chissà come hanno fatto all’epoca a realizzarla, quanto tempo ci hanno messo e se hanno corso il rischio di far crollare i palazzi là sopra. O magari i palazzi non c’erano ancora. La collina Fleming non era un quartiere in della capitale. E’ vecchia la galleria, si vede dalle infiltrazioni d’acqua che incrostano le pareti con colate di varie gradazioni di grigio, dal nero al quasi bianco del calcare. E’ vecchia, si sente dal freddo che punge anche quando tieni i finestrini chiusi. Ha uno spessore diverso, un peso specifico maggiore, che schiaccia anche le telecomunicazioni. Quando sei nella galleria la radio si zittisce, il telefonino perde la connessione. Se sei costretto a fermarti hai la sensazione di trovarti in un altrove dove qualunque cosa potrebbe accadere.
Puoi sentirmi?
E’ vecchissima anche la grata. Non mi giro a guardarla. Mantengo il collo rigido, il mento eretto. Guardo il portellone posteriore dell’auto che mi precede, mi faccio ferire gli occhi dalla vampa dello stop acceso. Piede pigiato sul freno, ma pronto a scattare. Il semaforo è appena fuori della galleria e nessuno, mai, vorrebbe che passasse al rosso. La galleria è vecchia e chissà quante ne ha viste, quante ne ricorda, quante ne potrebbe ancora tirar fuori. Magari proprio dalla grata rugginosa.
Puoi sentirmi?
Che spessore possono avere le pareti per bloccare le onde radio? Dagli altoparlanti non escono neanche fruscii, solo silenzio. Le note di Ligabue si sono infrante contro un muro di roccia. Le strofe di “Niente paura” sono avanti e dietro di me. Ma non sono qui, non sotto la vecchia galleria dalle pareti incrostate. Crepe? No, non ci sono crepe. Tutto solido, massiccio, antico.
Puoi sentirmi?
Quanti anni sono che la percorro? Tanti. E nel gioco delle probabilità non mi è mai capitato di dovermi fermare proprio qui, in questo punto perfettamente equidistante dalle estremità, dall’uscita e dall’entrata. Non vedo nessuna delle due perché la vecchia galleria descrive una curva. Non una curva eccessiva, ma se ti trovi qui dove sto io adesso, un qualche gioco di prospettiva ti impedisce di vedere da dove vieni e dove stai andando. E l’impossibilità di gettare lo sguardo avanti o indietro spinge a guardare di lato.
Puoi sentirmi?
La grata. Se aprissi lo sportello potrei toccarla. Sentire la superficie scabra del metallo ossidato. Lo so. Non ho mai provato, non ho intenzione di farlo neanche adesso. Però lo so. E comunque non mi giro a guardarla. Essere consapevole che esiste è già abbastanza. Devo ignorarla. In fondo si tratta solo dei pochi secondi di semaforo rosso. Quanti possono essere? Trenta? Sessanta? Un niente. Lo posso tenere lo sguardo fisso sul portellone dell’auto che mi precede per un minuto, senza girarmi? Certo che posso.
Puoi sentirmi?
Raschia… Qualcosa raschia contro lo sportello. E’ come un gesso sulla lavagna, come un’unghia contro il vetro. Raschia. Il silenzio della radio è assordante. Mi azzardo a chinare lo sguardo verso il cellulare, sulla mia destra. Non c’è campo. Riporto gli occhi avanti cercando di escludere la visione laterale. Alzo il mento. La grata è quasi a livello strada. Se tengo alta la testa non posso proprio vederla. La parete curva della galleria, le striature di decenni di acqua infiltrata, ma la grata no. La grata non è nella mia visuale e ormai il semaforo sta per scattare sul verde. Giuro che appena ci muoviamo di qui, mi faccio una risata da farmi venire il mal di stomaco.
Puoi sentirmi?
Ignoralo. Ignora quel raschio contro lo sportello. Scommetti che quando arrivi al parcheggio non c’è neanche un segno sulla carrozzeria? Guarda avanti, ancora qualche secondo e sei fuori. E da domani si fa un’altra strada. Si passa dal Muro Torto che è pure più vecchio di questa galleria, ma non ci sono grate lì, nessuno raschia sugli sportelli. Soprattutto non ci sono voci.
Allora mi senti!
La grata. C’è qualcosa dietro la grata. Qualcuno. Ne incrocio lo sguardo. Gli stop dell’auto davanti smettono di sanguinare luce. Il tubo della marmitta vibra, ne esce gas di scarico. Vedo ruote sfilarmi davanti. Riconosco il battistrada nuovo di quelle che ho cambiato solo una settimana fa. La mia auto si allontana, seguita da tutte le altre e io resto qui, dietro la vecchia grata, le dita infilate tra le sbarre. E comincio a urlare.
Puoi sentirmi?!

Laura Costantini