sabato 3 marzo 2018

#ilmioincubopeggiore era il terzo anno

Il terzo anno di liceo cominci a sentirti maschio, sei nella via di mezzo, inizi a non essere più deriso dai grandi, specialmente se hai la fortuna di essere bello alto – ché la nonna dice: “è mezza bellezza”, e almeno metà ce l’hai assicurata – e di poter guardare negli occhi anche quelle di quarta che non puzzano di latte.
In vicolo Palminteri ci passavo ogni giorno da quando ero uscito dalle medie, era la strada da fare per raggiungere il liceo. Ero imbarazzato dagli ottoni lucidi dei citofoni, dai portieri dei palazzi in livrea, ché il mio custode al massimo teneva una giacca grigia come i topi che passeggiavano in cortile e che gli somigliavano così tanto che eravamo convinti non li cacciasse perché erano suoi parenti.
Le boutique erano eleganti, coi prezzi in lire; i cappotti di cachemire con cartellini che indicavano: ottocentomila lire, un milione e centonove, che se scrivevano centodieci pareva brutto.
Un giorno di febbraio, anonimo e freddo come il parroco della chiesa, la vidi: cappottino grigio e colletto di velluto blu, capelli raccolti a coda di cavallo e sguardo ostile mentre salutava padre e portiere, un cenno al servo e un «Buongiorno padre»: Sofia Bernari. Stava in seconda C, rispose al mio sguardo con un’occhiata che si dà alle nuvole davanti al sole, e camminava talmente svelta che sembrava sfuggire anche a se stessa. Entrai a scuola che lei già era in classe, che la vidi mentre si sedeva e non mi vide mentre la vedevo. Proseguii al primo piano, il mio, quello di terza C.
Al campanello da quel giorno trovavo mille scuse per correre fuori, nonna malata, mammà mi vuole per il dentista, torna mia sorella dal Belgio, che non avevo una sorella e non sapevo neanche bene dove fosse il Belgio, tutto per trovarmi fuori prima che lei uscisse, ma lei era sempre già fuori e correva come Sara Simeoni dopo aver vinto la medaglia d’oro mentre correva allo stadio di Mosca con la bandiera sulle spalle, e lei già fuori, maledizione, che faceva dondolare quella coda di capelli.
Una volta ci riuscii, saltai giù dalle scale e aspettai.
Lei finalmente mi guardò, dritto negli occhi. I suoi erano blu, i miei colore di un cane.
«E leva quell’ombrello, fai cadere la gente»!
Neanche mi ero accorto di aver messo l’ombrello di traverso: un po’ livorosa ma mi aveva parlato, si era accorta che c’ero, esistevo. La rincorsi, avrei trovato una scusa, magari per chiederle scusa. Quella volta non tornava a casa a piedi, l’automobile del padre aspettava fuori, il padre uscì e con un cenno le disse: «Sofia muoviti, dopo il dentista andiamo a pranzo in centro».
Stavo correndo come un cavallo scosso, sbandato e incosciente, frenai prima di sbattere in quell’enorme Lancia blu. Non dovevo più guardarla, non ne potevo avere motivo, né speranza, nessuna pulsione, ma a sedici anni si hanno tutte queste cose e non lo dici a nessuno perché delle passioni un ragazzo si vergogna, un adolescente è un maschio piccolo con tutti i difetti e nessuna saggezza, si sbaglia senza essere professionisti dell'errore.
Marzo agita le foglie, accarezza le gambe dei ragazzi, le fa agili, fa esplodere fiori e ormoni, rende frizzante il respiro, correre è un imperativo e lo zaino un orpello leggero anche con il vocabolario Gabrielli che pesa due chili, io correvo ogni giorno solo per vederla camminare, una soldata col passo imperiale, non guardava nessuno e sembrava riuscire anche ad allontanare gli sguardi degli altri ragazzi. Un giorno Sambuco, il mio compagno di banco si accorse, al mio guardare, che la guardavo: «Perdi tempo, quella neanche esiste».
Potevo dissimulare, raccontare che “no, figurati, non mi interessa…”, mi scappò: «Neanche so chi è…».
«Non lo sai? Lo sanno tutti che le stai sempre appiccicato con gli occhi…».
“Appiccicato”. Fallo vergognare un sedicenne: restai incerto se piangere o dargli un pugno, oppure…non c’erano altre opzioni, cioè si, lo lasciai a sorridere sul muretto.
Prima che marzo diventasse aprile, un mattino spensi l’ennesimo incubo, quel sognarmi ogni notte incatenato alla ringhiera della scuola e nel pomeriggio, lucido di pioggia, andai lucido di intenzioni fuori casa sua.
M’avesse sparato sarebbe stato meno feroce: «La pianti di starmi intorno come un pidocchio»? Arrivò il millennio, la vita buona, il fascino discreto di una vita borghese, e internet, e facebook e “Sono Sofia Bernari, ti ricordi di me?”.
Trent’anni e mille vite fa? Si mi ricordavo, anche la vergogna di quel pomeriggio divenuta ricordo sacro, cliccai su “Conferma”, corsi sulla pagina come correvo fuori scuola, le foto: voglio vederla. Una signora discreta, con occhi da massaia e capelli il sabato dopo tre ore di fila dal parrucchiere e gli occhi stanchi come una Luis Vuitton usata al mercatino dei Parioli. Due tre figli e un marito con la pancia abbronzata su una barca a Ventotene che mostra una spigola pescata in qualche pescheria.
«Si, mi ricordo, ero il pidocchio, quello che…»

Mi ricollegai alla pagina, c’era scritto “Aggiungi agli amici”.

venerdì 2 marzo 2018

#ilmioincubopeggiore il mostro di sempre


Perché sto scappando? Qualcuno mi insegue: il mostro è sempre quello di tutti gli altri sogni. Un po’ It, un po’ Dissennatore. Poi dicono che leggere fa bene.
Questa volta però c’è qualcosa di diverso: non sono sola, ho mia figlia in braccio. Vorrei avere la fascia, o il marsupio, o qualsiasi cosa che mi permetta di reggerla senza fare fatica. È piccola ma mi sembra pesantissima. E ho paura di cadere su questo terreno pietroso e molle che sembra risucchiarmi.
Intanto il nemico si avvicina.
Entro in un’enorme struttura: acciaio, vetro. A metà tra un aeroporto, una stazione e Palazzo Nuovo, quell’orrore di Università dove ho passato troppo tempo.
C’è gente, tantissima gente. Se c’è anche mio marito non lo vedo.
Corro verso le scale. Ma non capisco dove portano, sembrano inaccessibili.
La parte conscia di me si dice che sembra uno di quei casinò di Las Vegas, pieno di luci e musichine, ma senza una via d’uscita. Fatale per i proprio nervi, le proprie gambe e le proprie tasche. 
Poi vedo gli ascensori. Stringo mia figlia a me e cerco di prendere al volo l’ascensore che sta per chiudersi ma non faccio a tempo.
C’è un ragazzo, alto, imponente, che mi dice di non preoccuparmi, che c’è un montacarichi.
Il montacarichi consiste in una pedana traballante e senza appoggi che scorre su una serie di fili d’acciaio. In due (tre, se conto mia figlia) non ci stiamo quasi. Per non cadere di sotto devo tenermi con entrambe le mani. Con orrore mi accorgo che ormai siamo troppo in alto per scendere. Il ragazzo spingendomi verso il bordo mi dice di non preoccuparmi: siamo quasi arrivati. Sembra non accorgersi che non ci stiamo.
Ma io non ce la faccio a tenermi in equilibrio. Se non voglio cadere devo tenermi con entrambe le mani: o cade mia figlia, o cadiamo entrambe.
La pedana mi dà uno scossone. Mia figlia precipita nel vuoto.
Improvvisamente non sono più su una pedana, ma su scale che scendono a spirale. Guardo giù, nella tromba delle scale. C’è mio marito con mia figlia in braccio e guarda verso di me. I suoi occhi sono taglienti dalla rabbia, scuote il corpo di mia figlia, inerte, e urla.
“Perché l’hai lasciata cadere?”
So come mettere fine a tutto questo.
Mi sporgo dal mancorrente.
Mi sveglio.