martedì 27 dicembre 2011

Oggi su "La Sesia": Quei futili motivi

Sia chiaro. I dati per una statistica non ci sono. Ma per rifletterci bastano. L’hanno definita tragedia di Natale, una delle tante. In provincia di Potenza un pensionato di oltre 70 anni ha imbracciato il fucile e ha ucciso tre persone. Non si è trattato di un delitto d’impeto. L’uomo quella donna e i suoi due figli li voleva morti. Avrebbe voluto morto anche il marito, ma il quarto omicidio non è andato a buon fine. Pare che l’assassino e le vittime vivessero da tempo un conflitto condominiale legato a una canna fumaria. Un motivo futile. E se questa è stata la tragedia di Natale, il pestaggio avvenuto a Roma lo scorso 23 dicembre poteva essere la tragedia dell’antivigilia. Trastevere, quartiere romano dedicato alla movida notturna. Un gruppo di ragazzi beve davanti a una libreria-vineria. Uno di loro, un ventiseienne ultrà della Roma, chissà perché ha con sé una grossa torcia e la usa per colpire violentemente alla testa altri due. Uno lo lascia a terra con una frattura alla base cranica, l’altro è meno grave. Viene arrestato a tempo di record e ammette di aver mandato un coetaneo a trascorrere il Natale in ospedale in attesa di essere operato alla testa. Motivi? Futili, anche se non del tutto chiariti. Chiarissimo invece, ma futile all’ennesima potenza, il motivo della tragedia dello shopping prenatalizio. Roma, di nuovo. Protagonisti degli adolescenti. Uno chiede una sigaretta, l’altro non gliela dà. Parte un pugno e un sedicenne muore tra le luminarie kitch di un centro commerciale, ucciso dal suo migliore amico. “Non volevo fargli male, è cominciato per una stupidaggine. Lui ha dato un pugno a me, io uno a lui.” Una stupidaggine. Esattamente il motivo per cui, dopo cinque mesi di coma, è deceduto un pensionato di Mestre. A luglio scorso aveva cercato di fare da paciere in una violenta lite tra fidanzatini. Il ragazzo, diciassette anni, gli ha sferrato un pugno. Il pensionato ha battuto la testa e oggi l’adolescente rischia dai 10 ai 18 anni di carcere per omicidio preterintenzionale. Mentre di omicidio volontario si parla per l’imprenditore bresciano di 72 anni che circa un mese fa ha volontariamente investito con il Suv un settantaseienne che protestava per l’indebita occupazione del proprio parcheggio disabili. L’imprenditore si è costituito e pare abbia dichiarato di non essersi reso conto di quel che faceva, perché accecato dalla rabbia. Ragazzi da una parte, anziani dall’altra. Ad accomunarli improvvise crisi di aggressività e futili motivi. Basta una sciocchezza, come la lite per un parcheggio, una canna fumaria fastidiosa, una sigaretta negata, perché l’altro si trasformi in un nemico da annientare. E se per i giovani si fa presto a puntare il dito contro videogiochi e tv, gli anziani sono la cartina al tornasole di un malessere che esplode dove più fragile è la percezione di se stessi. Perché quella che viviamo è una crisi di valori. Non solo monetari.
Laura Costantini

giovedì 22 dicembre 2011

Ho capito il senso

Questo e' un post molto privato. Uno di quelli da diario personale. Potete anche bypassarlo. Comunque... ieri pomeriggio la mia nipotina piu' piccola, Valentina, ha fatto il suo primo saggio di danza. Una saletta di periferia con il parquet scrostato, genitori zii e nonni assiepati sulle panche. Le piccole in tutu' rosso e fiocco verde, piccole elfette natalizie. Per esserci ho affrontato il traffico caotico di Roma alle prese con lo shopping natalizio e con la fregola prefestiva. Ero stanca, venivo da una giornata iniziata alle 5 e 45 del mattino: fila in ospedale, redazione, passaggio burocratico negli uffici Rai, montaggio. Tutto intessuto di telefonate a casa. Mia madre sta male. Non ha potuto esserci al saggio. E mentre guardavo Valentina seguire diligentemente le mosse della sua insegnante e saltellare felice come solo una bimba di 5 anni puo' fare, all'improvviso mi sono ritrovata a piangere. Piangevo dentro, per non farmene accorgere. Tirando su col naso e accampando un raffreddore credibilissimo con il freddo di questi giorni. Valentina e' il senso. Mia madre non poteva esserci li', seduta su quelle scomode panche, ma c'era. C'era perche' senza mia madre non ci sarebbe stata mia sorella Elisa. E senza mia sorella Elisa non ci sarebbe stata Valentina. Vale per tutti. Anche per me, che la vita non l'ho tramandata ma in qualche modo la testimonio. Il senso che tutti andiamo cercando e' tutto qui. E non e' poco. Un bambino felice, una luce accesa che, si spera, ne accendera' altre. Non serve sperare in qualcosa dopo la morte. Quel qualcosa e' la vita. E Buon Natale a tutti.

lunedì 19 dicembre 2011

I racconti del lunedì: Pochi giorni a Natale

Con questo racconto prese il via una bella iniziativa sul nostro vecchio blog: la chiamammo DOMINO ed ebbe un grande successo. Una catena di racconti, legati dalla fine del primo che diventava l'incipit del secondo... Bei tempi blogghici quelli.
Le note lo raggiunsero insieme all’odore freddo e umido della pioggia che lo aspettava all’uscita dalla metro. Demis riconobbe L’Inverno di Vivaldi nel volteggio dell’archetto sul violino e rallentò il passo. Il musicista ambulante non gli badò. D’altronde erano mesi che si esibiva in quell’angolo al riparo dal vento e Demis non lo aveva mai degnato di attenzione. Tantomeno di un obolo.
“Sarà che mancano pochi giorni a Natale…”, si disse lanciando un euro nella custodia aperta del violino. Il suono della moneta a contatto con le altre fu lievissimo. Ma bastò a fermare il profluvio di musica. L’ambulante aprì gli occhi e per la prima volta Demis si rese conto che aveva una faccia.
“Da oggi a Natale”, disse trapassandolo con pupille di castagna, “sta’ lontano dai fili.”
“Come?”
L’uomo abbassò lo strumento e si protese verso di lui.
“Ho detto: da oggi a Natale, sta’ lontano dai fili.”
Poi l’archetto tornò a stuzzicare le corde e la musica interruppe ogni contatto.
Demis si strinse nelle spalle.
“Pioggia e oracolo delirante. ‘Sta giornata è tutto un programma”, borbottò affrontando il primo scroscio sulle strisce pedonali. Fu fradicio prima ancora di raggiungere il marciapiede opposto. Più che entrare in sede, si tuffò nel tepore al di là delle porte a vetri.
“Ma vaffanc…”
“Problemi con la nuova fotocopiatrice?”, chiese Giovanna aiutandolo ad alzarsi.
“Chi è quel genio che ha teso il filo in mezzo alla stanza?”, la assalì, massaggiandosi un ginocchio.
“Volevo provarla. Fatto molto male?”
Stava per risponderle a tono, poi il suo sguardo fu catturato dal grosso, spesso filo nero che l’ultimo acquisto dell’agenzia (ultima conquista del capo) si affrettò a riavvolgere.
Da oggi a Natale sta’ lontano dai fili.
L’avvertimento gli rimbalzò addosso ma il disagio arrivò solo quando, una volta a casa, si scoprì a pensare che potevano essere fili anche le corde del vecchio ascensore che toccava terra cigolante. Inforcò le scale sentendosi un idiota. Di più, rise di se stesso mentre apriva la porta e si trovava davanti Susanna in piedi sulla scala.
“Arrivi a proposito. Si è incastrato il carrello della tenda.”
Demis si ritrovò il filo in mano prima di avere il tempo di pensare.
“Facciamo il contrario”, propose sentendosi subdolo.
Fu felice di lasciarle la manovra e di salire sulla scala.
“Ora sembra tutto a posto…”, disse, la testa ancora infilata tra le pieghe della mantovana.
“Ok, allora scendi.”
Non ne ebbe bisogno. La scala gli si aprì sotto, catapultandolo sul divano.
“Bel numero!” rise Susanna.
“Bel numero un cazzo. Vado a farmi una doccia.”
Ormai era alla paranoia. Se ne stava sotto il getto della cipolla meditando se era giusto pensare al tubo della doccia come a un filo. A scanso di equivoci, evitò di toccarlo.
Quando poi impedì a Susanna di legarlo alla testata del letto con la cinta dell’accappatoio, privandola del suo giochetto preferito, realizzò che il violinista ambulante aveva vinto. Fino a Natale si sarebbe tenuto alla larga da tutto ciò che anche lontanamente poteva chiamarsi filo. Compreso quello interdentale.
Furono giorni lunghissimi. Si privò dell’auricolare per il telefonino e delle cuffiette dell’Ipod. Rinunciò in un colpo solo alle Nike, alla corda e alle lezioni di boxe. Si tenne a distanza dai fili per il bucato e dagli elettrodomestici in genere. Si rifiutò di fare l’albero di Natale, troppi fili, preferendo per la prima volta in vita sua il presepe. Ma senza luci. Bandì gli adorati spaghetti dalla sua dieta e chiuse in un cassetto la catenina d’oro che avrebbe potuto strangolarlo nel sonno. Era talmente preso a dribblare le migliaia di fili che lo assediavano da rendersi a stento conto delle perplessità sempre più forti di Susanna.

“Demis, si può sapere dove stai andando? I miei stanno per arrivare.”
“Ho dimenticato una cosa. Faccio in un lampo.”
Corse giù per le scale. Ancora un solo giorno e quella follia sarebbe finita. Intanto però aveva dimenticato di prendere un regalo per Susanna. Il vicino centro commerciale restava aperto fino a tardi e lo benedì mentre lanciava l’auto nel parcheggio e correva dentro. La folla dei ritardatari natalizi stava scemando. La cena della Vigilia era praticamente in tavola e Demis si guardò intorno, alla ricerca di una profumeria.
Era da stronzi presentarsi col solito profumo, però meglio che niente. Avrebbe rimediato non appena il conto alla rovescia si fosse fermato con lo scoccare della mezzanotte.
“Avresti fatto meglio ad ascoltare il mio consiglio.”
Quella voce si materializzò alle sue spalle. Demis si voltò e lo vide.
Vide lui.
Vide la custodia del violino.
Vide il mitra che ne uscì.
Ma, soprattutto, vide lo striscione che dava il benvenuto ai clienti del centro commerciale “I Fili”.
Poi Demis non vide più nulla.

Laura e Lory

martedì 13 dicembre 2011

Oggi su "La Sesia": Verginita' e altre bugie

C’è una sola cosa peggiore di uno stupro. Uno stupro inventato. Nessuno di noi conosce il vero nome della sedicenne di Torino che ha raccontato di essere stata stuprata da due uomini stranieri. Dell’Est. Zingari. È minorenne, va tutelata. Per lei possiamo immaginare una famiglia che non coltiva il dialogo se è vero che ha messo in piedi la più odiosa delle frottole per non assumersi la responsabilità di un rapporto sessuale consensuale. Il 2011 sta per chiudere i battenti e siamo ancora qui a parlare di verginità. A raccontare di una ragazzina sottoposta, pare, a frequenti visite ginecologiche per confermarne l’illibatezza. A una nipotina che ha giurato alla nonna di arrivare vergine al matrimonio. Non ce l’ha fatta, si è innamorata, ha deciso di scoprire il sesso insieme al fidanzatino. Chissà com’è andata, chissà se hanno fatto le cose per bene questi due adolescenti, se hanno preso le doverose precauzioni. Se sono stati felici. Ma dal turbine dei sensi ci si risveglia e Sandra o Maria o Antonella, chiamatela come volete, è ricorsa al più retrivo dei luoghi comuni, alla più scontata e sessista delle bugie: non è stata una mia scelta, sono stata violentata. Qualcuno dovrebbe spiegare alla fanciulla il male che ha fatto. Prima di tutto alle donne che veramente sono state vittime di violenze e abusi. Poi a coloro contro i quali ha puntato l’indice, rivelandosi succube del pregiudizio. Esattamente dieci anni fa c’era un’altra ragazzina. Viveva non molto lontano da Torino e aveva pure lei sedici anni. Raccontò che due albanesi avevano massacrato a coltellate la sua mamma e il suo fratellino. Si chiamava Erika Di Nardo e proprio come l’adolescente torinese mentiva. Gli investigatori lo scoprirono in fretta, proprio come in fretta è crollato il castello di bugie costruito dalla protagonista della nostra storia. Solo che in questo caso il raid punitivo era già partito. Due albanesi nell’inverno gelido di Novi Ligure del 2001 erano difficili da trovare. Mentre nella Torino accesa di luminarie natalizie un campo rom ce l’avevano giusto sotto casa i prodi vendicatori dell’onore violato della fanciulla. Li ha scelti bene i colpevoli. Aiutata dal fratello maggiore, li ha anche descritti. “Erano in due: uno con una felpa grigia, uno con una grossa cicatrice”. Brutti, sporchi, cattivi. Perfetti. Ammettiamolo. Quando la stampa ha diffuso la notizia, ci abbiamo creduto tutti, subito. Una zona isolata, una ragazzina indifesa, due predatori. Le avevano intimato di consegnare il cellulare, perché i rom sono notoriamente ladri. Poi l’avevano costretta al rapporto sessuale, perché proprio come rubano i bambini, i rom son famosi per violentare le nostre donne. Notato come le donne divengano “nostre” solo quando le si immagina prede di appetiti estranei? E mentre la non più illibata sedicenne crollava davanti al cumulo di bugie, la spedizione punitiva si consumava tra spranghe e bombe carta. Perché quando i colpevoli sono perfetti, non c’è verità che tenga.

Laura Costantini

lunedì 12 dicembre 2011

Il racconto del lunedi': Dove vanno i palloncini?

Oggi inauguriamo un nuovo appuntamento blogghico: il racconto del lunedi'. E' un modo per farvi leggere, o rileggere, racconti che abbiamo scritto insieme o singolarmente nel corso del tempo. Quello che apre la rassegna e' una favola che scrivemmo per un'iniziativa benefica che conflui' in una bella antologia dal titolo
Buona lettura

“Uffa che caldo! Mi sento tutto molliccio ed è ancora mattina. Chissà quanto tempo ci vorrà prima che qualcuno si accorga di me… Tutta colpa di questo ridicolo papillon! Dove sì è mai visto un Tippete con un fiocco a pallini gialli e verdi intorno al collo? Tappete si che era carina, con quel nastrino rosa tra le orecchie, la bocca a cuoricino e le ciglia lunghe… Normale che sia stata la prima ad andarsene. Ed è stata pure fortunata perché la mamma della bambina ha legato il filo ben stretto intorno al polso, così Tappete non ha corso il rischio di volarsene via, com’è successo a Pigachu…”
“Come sei noioso! A forza di brontolare ti si sono ammosciate le orecchie!”
Una folata di vento scosse il grappolo di palloncini e li fece trovare faccia a faccia.
“Le mie orecchie non sono mosce! Piuttosto pensa alle tue pinne… se un bambino non si sbriga a sceglierti, scoloriranno al sole.”
Il palloncino-delfino si sforzò di scintillare assecondando il movimento del gruppo. C’erano dei bambini in avvicinamento.
“E’ inutile che ti agiti”, disse Tippete, “I delfini sono passati di moda.”
“Mai quanto i conigli, specialmente quelli con un ridicolo papillon a pallini gialli e verdi.”
L’uomo dei palloncini attrasse a sé il grappolo e immerse la grossa mano tra i fili candidi. Tippete strizzò gli occhi sperando di sentirsi sciogliere dal nodo, ma a sfilargli davanti fu la faccia di quell’antipatico di Titti.
“Bye bye ragazzi”, li salutò il palloncino giallo mentre il suo filo veniva affidato alle dita grassocce e sporche di gelato del bambino.
“Non è una bella mossa”, rifletté Tippete seguendolo con lo sguardo. “Ti ricordi cosa è successo a Willy?”
Il palloncino-delfino rabbrividì al suo fianco. Posto che un palloncino possa rabbrividire.
“Non farmici pensare… con tanto cielo a disposizione, andarsi a impigliare ad un ramo di acacia e…puff!”
“Certo, meglio volarsene via”, disse Gatto Silvestro, un po’ triste per la partenza di Titti.
“Si, ma almeno sapessimo dov’è che andiamo a finire… ci pensate? Girovagare in tutto quell’azzurro, senza meta. Fino a quando? Fino a dove?”
Gli occhi scintillanti del palloncino-delfino guardavano il cielo azzurro.
Tippete, invece, guardava altre persone in avvicinamento. C’era una bambina che tirava la mamma verso l’uomo dei palloncini. Le sue grida capricciose riportarono il silenzio nel grappolo e tutti rimasero in attesa della scelta, con il fiato sospeso.
A patto che un palloncino possa tirare il fiato.
“Sceglie me, me lo sento!”, disse speranzoso Gatto Silvestro.
“Senza Titti ti senti perso, eh?”, lo canzonò un palloncino-cuore.
“Lascialo dire”, lo consolò Tippete, “lui vede cuoricini dappertutto.”
La mano dell’uomo dei palloncini era di nuovo nell’intrico dei fili.
“Oh no…”, mormorò il palloncino-delfino sentendosi tirare, “ha scelto me…”
Il filo non voleva saperne di uscire dal nodo.
“Non sei contento?”, cercò di rincuorarlo Tippete. “Noi palloncini siamo fatti per giocare con i bambini…”
Era vero, ma al palloncino-coniglietto con il papillon a pallini gialli e verdi sembrò che lo strattone con cui, infine, l’uomo dei palloncini liberò il delfino, strappasse qualcosa anche nel suo cuore.
Posto che un palloncino abbia un cuore.
La bambina capricciosa prese il filo dalle mani dell’uomo e cominciò a scuotere il palloncino-delfino che lanciava barbagli argentei sotto i raggi del sole.
“Non così”, cercò di gridare Tippete. “Così gli fai male!”
Ma la bambina non poteva sentire la sua voce, tanto meno poteva accorgersi degli sguardi impauriti del grappolo di palloncini mentre continuava a sbatacchiare il suo nuovo giocattolo.
“Sta’ attenta”, urlò Gatto Silvestro alla bambina capricciosa mentre l’acacia, la stessa dove si era sgonfiato Willy, protendeva i suoi rami spinosi ghignando.
“Ho il mal di mare…”, si lamentò il delfino continuando a ballonzolare in cima al filo.
“Non puoi”, disse Tippete mentre la bambina si allontanava saltellando, “sei un delfino.”
Il puntuto muso argenteo si mosse per dire che no, non era un vero delfino, ma solo un palloncino di plastica impaurito…
Stunk!
“Oh no! Il filo si è rotto!”
Il delfino sembrò volgersi a quel grido disperato mentre la brezza lo trasportava in alto, seguito dalle lacrime stizzite della piccola.
Al grappolo di palloncini non restò che guardarlo diventare sempre più piccolo fino a confondersi con i raggi del sole.

Ci pensate? Girovagare in tutto quell’azzurro, senza meta. Fino a quando? Fino a dove?
Tippete non riusciva a darsi pace. Nel chiuso del magazzino dell’uomo dei palloncini, quelle parole continuavano a risuonargli nella testa già piena di elio.
Posto che un palloncino abbia una testa.
Mentre tutti i suoi compagni dormivano coricati contro il soffitto, lui continuava a spiare la luce della luna e a chiedersi dov’era il suo amico, se aveva paura, se anche volando tanto in alto si potevano trovare rami spinosi e malvagi.
“Neanche tu riesci a dormire?”
Quella vocina squittente lo costrinse a sgomitare, posto che un palloncino abbia i gomiti, per guardare in basso, dove incrociò gli occhietti luccicanti di un topolino bianco.
“Neanche tu dormiresti se il tuo migliore amico fosse volato in cielo.”
“E’ morto?”
Tippete ebbe uno scarto.
“Certo che no, i palloncini non muoiono… credo.”
“Tutti muoiono, l’ha detto la mamma.”
“La mamma dice pure che devi dormire. Lasciami pensare.”
Il topolino tacque ma zampettò lontano dai suoi fratellini addormentati e si arrampicò su una cassa di pacchetti di semi di zucca.
“Pensare a cosa?”, chiese quando gli fu più vicino.
“A dove vanno a finire i palloncini. Se lo scoprissi, potrei raggiungere il mio amico e lui si sentirebbe meno solo.”
“C’è un solo modo per saperlo”, disse il topolino agitando la coda con aria saccente.
“Ma dai, e scommetto che tu lo conosci”, lo canzonò Tippete.
“Sei proprio un pallone gonfiato. Peggio per te.”
Fece per zampettare via.
“Aspetta!”
Il topolino si voltò con un sorrisetto sotto i baffi.
“Vuoi saperlo?”
Tippete annuì agitandosi contro le ragnatele del soffitto.
“Però voglio una cosa in cambio…voglio volare!”

Per chi lo avesse visto, sarebbe stato un ben strano spettacolo. Un topolino bianco appeso al filo di un palloncino-coniglietto che attraversava il magazzino fluttuando verso la finestra aperta. La luce della luna li abbracciò quando furono all’esterno.
“Wow! E’ bellissimo!”, gridò il topolino mentre Tippete veleggiava lentamente, sorvolando i tetti dove le lenzuola stese a gonfiarsi di vento sembravano fantasmi.
“E’ bellissimo”, fu d’accordo il palloncino che non aveva mai veramente volato, “ma tu devi scendere o ti farai male.”
Lo depositò dolcemente sulla punta di un abbaino e approfittò del vento per voltarsi a salutarlo.
“Ciao topolino, e grazie…”
La luna lo avvolse dall’alto e sembrò attirarlo verso di sé, come una mamma che richiama i suoi piccoli.
“Ora lo so”, disse il topolino continuando a salutarlo, “so dove vanno a finire i palloncini.”
Poi si ricordò della sua, di mamma, e corse via.


Laura e Lory


Roma, 5 settembre 2007

martedì 6 dicembre 2011

Oggi su "La Sesia": Il ricatto della bonta'

Immaginate una giornata festiva di inizio dicembre. Traffico pigro, prime luminarie natalizie, pioggia e tappeti di foglie dorate. Arrivate al parcheggio. È festivo, siete esentati dal parcometro. Ma c’è lui. È vecchio, si ripara con l’ombrello e si trascina una bombola di ossigeno. Un elastico dietro le orecchie tiene i cannelli che si infilano nelle narici. Vi viene incontro, vi fornisce indicazioni per una manovra che ne non ha bisogno. E mentre lottate con ombrello, borsa e buste assortite, vi racconta che è appena uscito dall’ospedale e che ha bisogno di soldi. Sul cruscotto la raccolta dei tagliandi quotidiani del parcometro è un triste memorandum di quanto vi costa raggiungere ogni giorno un congiunto in ospedale. Date una moneta all’anziano, vi sentite aridi, perché era una moneta piccola, e allungate il passo verso la vostra meta. Immaginate di dover attraversare un ponte storico molto bello e di farlo con lo sguardo fisso al selciato viscido di pioggia e foglie cadute. Paura di cadere? Anche. Ma i motivi per cui vi sforzate di non incontrare sguardi sono, nell’ordine: una vecchina in sottana e fazzolettone neri che sembra la Befana come la disegnavate da piccoli, se ne sta seduta in terra, incurante della pioggia, e tende la mano al passaggio con voce di pianto; un punkabbestia circondato da cani macilenti, chiede l’elemosina e parla in un cellulare che sembra tanto un iPhone, voi non appurate, ma lo sguardo dei cani vi trapassa l’anima; un vecchio clochard dall’imponente barba bianca da Babbo Natale, zuccotto calato sulla testa, figura diritta anche se si appoggia a un bastone, mano tesa; una giovane zingara che si è assicurata il posto migliore, ben riparato dalle intemperie, con un gradino per sedersi e tendere il bicchiere di carta salmodiando: “Buongiorno signora, buonasera signora, auguri signora”, a seconda delle esigenze. Immaginate di averli evitati. Non è difficile, non quanto evitare il senso di colpa che vi attanaglia davanti all’ostacolo inedito. È un lui a giudicare dal poco che vedete, se ne sta in posizione fetale sul marciapiede. Non chiede nulla, dorme riparato da un ombrello aperto, le scarpe sfondate tenute per i lacci intrecciati tra le dita, le calze spesse sui piedi gonfi. Vi andrebbe di fargli un’offerta, ma non ha neanche un piattino accanto. Magari al ritorno lo trovate sveglio. Immaginate di essere giunti all’entrata dell’ospedale. Gli ostacoli non sono finiti. Una donna ben vestita brandisce un mazzo di foglietti, ve ne sbatte uno davanti agli occhi e non chiede. Lei pretende un’offerta per le malattie rare dei bambini. Stavolta non abbassate gli occhi, il “no” lo dite chiaro. E mentre la tipa vi bofonchia un ironico: “a Natale siamo tutti più buoni”, immaginate di scrollarvi di dosso i sensi di colpa per accogliere la consapevolezza di quanto sia perfido il ricatto della bontà. In un giorno d’inizio dicembre, con le luminarie natalizie, davanti a un luogo di sofferenza come un ospedale.

Laura Costantini

mercoledì 30 novembre 2011

I miei articoli per "La Sesia": Scarico di responsabilita'

Vi sarà capitato di vedere in tv una serie di spot pubblicitari. La merce da vendere è un’automobile di marca francese, ma questo interessa poco. È il plot immaginato dai creativi a essere degno di nota. Finora se ne sono viste due versioni. La prima: un uomo e una donna, tutti e due sulla trentina, eleganti e belli com’è giusto che siano due protagonisti di uno spot. Passano davanti alla vetrina di un negozio per mamme in attesa e neonati. La lei si blocca in contemplazione. Il lui sbianca. Lei, ignara, mormora sognante: “Luca, lo sai cosa mi piacerebbe?”. L’uomo è in preda al panico che lo rende totalmente afasico, la colonna sonora lancia il vagito di un neonato che assume lo stesso significato minaccioso dei barriti dei dinosauri di Jurassic Park. La tensione è alle stelle. Ma fortunatamente lei completa la frase: “Le scarpe che indossa la commessa”. Inutile dire che l’uomo si sente esattamente come uno scampato a terremoto scala 7 e tsunami in contemporanea. La seconda versione: sempre un lui e una lei, anche loro belli, eleganti, sulla trentina. Stanno visionando una casa, segno evidente che vogliono convivere, sposarsi, costruire qualcosa insomma. Mentre l’agente immobiliare declama le meraviglie dell’appartamento, lei entra in una stanza dalle pareti color pastello e sussurra con un sorriso: “Luca, lo sai cosa potremmo farci qui?”. Luca, che ha una faccia diversa da quello di prima, ma la stessa espressione atterrita, si sente nelle orecchie vagiti e ninne-nanne e attende il colpo di grazia. Ma lei continua: “Abbattiamo una parete e ci facciamo una stanza guardaroba”. Luca, manco a dirlo, torna a respirare liberamente. In entrambi i casi la pubblicità continua affermando che ci sarà un tempo per tutto, ma adesso è meglio godersi la vita. E acquistare l’auto di marca francese. Direte che la pubblicità vive di queste cose. E avrete ragione. Ma possiamo aggiungere che la pubblicità fotografa la realtà, alle volte meglio di inchieste e reportage. Non potete conoscere Antonella. Lei è una bella ragazza di Rossano Calabro, ma vive a Roma. Non li dimostra, ma ha 39 anni. E i suoi occhi azzurri sono molto tristi. Perché sebbene i medici le abbiano appena salvato l’utero da un enorme fibroma, Antonella non si nasconde che sarà difficile esaudire il proprio desiderio di maternità. Non per l’età, non per il quadro clinico. Ma perché Antonella ha appena chiuso una storia di tredici anni con un coetaneo. Che proprio come il Luca dello spot non se la sentiva. Di crescere. Di assumersi delle responsabilità. Di rinunciare a un viaggio o a una bella macchina nuova per sobbarcarsi l’impegno di un figlio. Alle volte basterebbe farsi un giro nei reparti di ginecologia per toccare con mano la realtà e realizzare come sia possibile la proliferazione di primipare attempate. Perché se Antonella non lo capisce subito che Luca non se la sente, gli anni fuggono via. E lo scarico di responsabilità diventa un modus vivendi. Per tutti.

Laura Costantini

giovedì 24 novembre 2011

Pensieri poco lucidi

Mi capita di ascoltare la canzone che Jovanotti ha dedicato alla madre, mi pare si intitoli "Tasche piene di sassi", ma non ci giurerei. Mi capita, dicevo, e mi metto a piangere. E' automatico, quasi ridicolo nella sua meccanicità. Jovanotti canta: Sono solo stanotte senza di te... e io piango. La mamma di Jovanotti è morta. Credo fosse molto orgogliosa di suo figlio, a ragione. Lo sarebbe di più se potesse ascoltare questa canzone che non è solo una canzone. Ecco. Mia mamma è viva e spero lo resti ancora a lungo. Ma domani la operano. Niente di gravissimo, operazione di routine (così si dice, no?), ma la paura c'è tutta. E il pensiero se ne va per strade tutte sue che io mai vorrei intraprendere: è orgogliosa di me? L'ho resa felice? Saprei, alla bisogna, scrivere qualcosa di tanto bello e importante da restare, da renderle giustizia? Mi rendo conto che spesso ho parlato di mio padre, sul blog, su FB. Mio padre è morto 17 anni fa, giovane. Troppo giovane per andarsene. In quel modo poi. Mia mamma è qui, c'è stata per me nei momenti bui, mi ha riaccolta tra le sue braccia quando ho perso la strada che credevo giusta per me. Eppure di lei non parlo mai. Non le ho dedicato neanche un post. Questo è il primo e vorrei avesse un senso compiuto. O per lo meno una sua poesia. Che poi non ci vogliono tante parole per dire: ti voglio bene, mamma. Resta con me.

giovedì 17 novembre 2011

I miei articoli per "La Sesia": L'esempio di Lavinia

Sarebbe facile raccontare di un uomo cui, volenti o nolenti, stiamo affidando la speranza di uscire alla meno peggio dalla crisi. Commentare la differenza di stile di un signore che, tra applausi e flash, sussurra alla guardia del corpo: “Ma dopo non sarà così, vero?”. No, professor Monti, non sarà così. Arriveranno i fischi, le critiche. Ma non parleremo di lei e della sua splendida giornata. Parliamo di Lavinia e dei pregiudizi di cui siamo tutti schiavi. Lavinia ha trent’anni, è di Roma. Lavora presso un centro estetico. È una nail-artist, una di quelle pazienti artigiane che armate di boccette e pennellini trasforma le unghie delle donne in manifesti della volontà di apparire. A volte sono trash quelle unghie. Ma sono frutto di ore di lavoro, chine sulle mani della cliente, una mascherina sulla faccia per difendersi dalla polvere del gel e delle unghie che vengono modellate con la fresatrice, guanti di lattice che lessano le dita. Quelle della nail-artist che rende splendenti le unghie della cliente e macera le proprie nel sudore di ore di lavoro. Guadagna bene, Lavinia. Saltare un appuntamento vuol dire pietire per trovare spazio nei giorni successivi. Lavinia non è padrona di avere la febbre o di essere stanca. Ma non le pesa. Come probabilmente non le pesa la consapevolezza che le donne giovani o meno giovani che le si alternano davanti pensino a lei come una che non ha avuto ambizioni. Che non aveva voglia di studiare. Che ha scelto la strada più facile. Una con cui parlare del più e del meno. Del tempo, delle notiziole di gossip sui rotocalchi, degli ultimi colori moda lanciati dal Cosmoprof. Non sappiamo se valga anche per voi, ma chi scrive questo errore lo ha fatto. Almeno fino a quando, indecisa tra un gel trendy color tortora e uno verde Tiffany, ha fatto una scoperta. Lavinia non ha sempre desiderato spennellare unghie e sagomare french. Lavinia ha frequentato il liceo linguistico, poi si è iscritta a Giurisprudenza alla Sapienza di Roma. Per chi non lo sapesse, la principale università romana è una sorta di girone dantesco che sforna, per lo più, studenti confusi e fuori corso. Lavinia no. A lei studiare piaceva, era in regola con gli esami, era al secondo anno di corso quando, racconta, si è seduta a tavolino e ha guardato in faccia la realtà. E la realtà erano lei e la sua mamma, due donne sole e la necessità di contribuire al bilancio familiare. “Non conoscevo nessuno, sarei stata una dei tanti avvocati tirocinanti che scarpinano tra studi e aule di tribunale, senza neanche un rimborso spese.” Ha pianto Lavinia, ha sofferto. Ma ha capito che anche i sogni hanno un prezzo e il suo era troppo caro. Si è guardata intorno. Un corso di ricostruzione unghie ed eccola qui. È brava Lavinia. E non ha rimpianti. Ma sarebbe bello se il professor Monti, che si schermisce dagli applausi, tra lacrime e sangue inserisse almeno una speranza per chi vuole ancora permettersi i sogni.

Laura Costantini

lunedì 14 novembre 2011

venerdì 11 novembre 2011

Pare che Splinder possa chiudere...

Pare che Splinder, la piattaforma, possa chiudere a breve. Il che significa che tutti i blog li' presenti, svaniranno nel vuoto digitale. Pare anche che non ci sia modo di importarli in toto. Pare quindi che sia finita un'epoca e ci viene da pensare che forse e' giusto cosi'. Una piattaforma digitale non puo' essere eterna, un blog non e' un archivio storico.
Svaniranno nel nulla commenti, scontri, cattiverie, troll assortiti, amicizie da clic compulsivo.
Comunque, se avete voglia di un ultimo clic da quelle parti, i nostri vecchi blog sono sempre:

http://lauraetlory.splinder.com/

http://lestoriedilauraetlory.splinder.com/

martedì 8 novembre 2011

Oggi su "La Sesia": La lezione dell'acqua

Ce lo insegnano a scuola. Puoi comprimere un gas, sempre. Puoi comprimere un solido, alle volte. Ma non si può comprimere l’acqua. È una prerogativa dei liquidi. Non puoi imprigionarli in uno spazio più piccolo di quello di cui hanno bisogno. Non puoi, nel senso letterale del termine, costringerli. Dovremmo saperlo, tutti. Dovrebbero saperlo, meglio di altri, coloro cui è demandato il compito di organizzare paesi e città, creare piani regolatori e farli rispettare, costruire abitazioni, scuole, strade, fognature. E lo sanno, di questo non possiamo dubitare. Ma fanno finta di non saperlo. E i risultati li abbiamo sotto gli occhi in questi giorni di piogge eccezionali che da eccezione stanno passando a regola. Nell’epoca che ci vede tutti inviati sul campo, i cittadini della Liguria e della Toscana, i sopravvissuti del Levante e della Lunigiana, continuano a riversare in Rete filmati amatoriali che poi vengono ripresi dai notiziari nazionali. In un’orgia di tsunami fangosi, di urla, di pianti, di bestemmie, di auto trascinate via. Di morti. È la pornografia della cronaca perché quei filmati danno allo spettatore il turbamento dell’imbarazzo, oltre a quello dell’orrore. Ma si parlava di acqua. Ci spiegano, a catastrofe compiuta, che i corsi d’acqua che attraversano le nostre città sono stati derubati, costretti, incarcerati. Convinti che bastassero ponti robusti e argini di cemento, gli urbanisti di ieri e di oggi hanno ridotto lo spazio di manovra dell’acqua. Le hanno imposto il come, il quanto, il dove scorrere. E l’acqua, ce lo hanno insegnato, si adatta. I liquidi prendono la forma del contenitore. Purché il contenitore sia abbastanza grande da contenerli. Ma i torrenti di Genova, i fiumi di Aulla, i ruscelli delle Cinque Terre non lo erano. E quando la piena sale, l’acqua non conosce regole. Cerca uno sfogo e lo trova, possiamo starne certi. Lo stesso prezioso elemento che ci lasciamo scorrere tra le dita, abbatte case, divelle argini, trascina massi, erode montagne. È la lezione dell’acqua. Una lezione che si ripete, negli anni, nei secoli, in tutto il mondo, ma che proprio non riusciamo a mandare a mente. Lungo il corso dei fiumi sono nati i primi insediamenti umani, le prime grandi città. Ci confrontiamo con l’acqua da millenni, ma non sappiamo ascoltarla. Eppure quel che potrebbe insegnarci è importante. Perché come la molecola H²O, anche la rabbia, il senso di ingiustizia, la ribellione sono incomprimibili. Come l’acqua, anche la pazienza della gente può un giorno esaurirsi. E ha poco senso imporre argini sempre più alti allo scontento oppure vietare a un corteo di sfilare. Lo abbiamo visto, ce lo hanno fatto vedere i testimoni. Nel mondo dei telefonini che registrano immagini senza filtro alcuno, dovremmo averlo imparato. Un tronco di traverso non ferma un torrente in piena. E la volontà di mantenere il potere nelle solite mani non può fermare la piena di chi ha deciso di farsi sentire.

Laura Costantini

mercoledì 2 novembre 2011

I miei articoli per "La Sesia": Generi di prima necessita'

Ha suscitato stupore quanto accaduto lo scorso giovedì a Roma. Non perché l’intera città si sia bloccata. A Roma succede. Per le partite di calcio. Per le manifestazioni di piazza. Per le udienze papali. Per le piogge. Basta poco, a Roma. Ma stavolta non era poco. Stavolta erano decine di migliaia di persone. Attratte dal tamtam pubblicitario come e più che da un beffardo pifferaio magico, si sono riversate nel luogo convenuto per il rito collettivo: l’inaugurazione di un nuovo centro commerciale. Inaugurazione sbandierata insieme a sconti strepitosi. E in tempo di crisi lo sconto conta. Soprattutto se taglia generosamente i prezzi non sempre abbordabili di generi di prima necessità. Perché è di questo che stiamo parlando. Un tempo era il pane, poi con il boom economico furono l’automobile e gli elettrodomestici. Oggi è la tecnologia. Il nuovo centro commerciale romano, l’ennesimo, vende solo gadget tecnologici: smartphone, computer, tablet, schermi piatti 3D. E venticinquemila persone lo hanno preso d’assalto. Alcuni addirittura pernottando all’addiaccio, pur di garantirsi il posto in prima fila. Al momento dell’apertura la ressa è stata tale da causare la rottura di alcune vetrine. I tempi di percorrenza sulla tangenziale hanno superato le tre ore. Ce n’è da far riflettere. Perché, a cose fatte, le cifre mettono paura: spesi due milioni e mezzo di euro con una media di 270 euro a cliente. Sono tanti? Pare di no, se è vero che gli italiani (ma giovedì c’erano anche tantissimi extracomunitari in fila, in quelle che Marco Lodoli ha definito efficacemente le Nazioni Unite del consumismo) spendono fino a 2 miliardi di euro l’anno in iPhone, tv e laptop. E lo fanno a costo di indebitarsi. Si potrà obiettare che così è sempre stato. I nostri genitori negli anni ‘50/’60 hanno firmato montagne di cambiali pur di inseguire il modello imposto da Carosello. La 500 parcheggiata in strada, in casa il Brionvega dalle linee tondeggianti, il frigorifero, la lavatrice, il frullatore. I sociologi ci spiegano che è importante questo adeguarsi ai modelli, per non sentirsi esclusi. Soprattutto oggi che la differenza tra benessere e povertà passa, agli occhi del mondo, proprio dal gadget tecnologico. Se hai un iPhone, allora non te la passi poi così male. Allora non sei ancora uscito dal consesso di quelli che, crisi o non crisi, vanno avanti. Allora forse un futuro ce l’hai. E vengono in mente certi contrasti stridenti da Terzo Mondo. Chi ha viaggiato lo sa: strade sterrate e pickup rutilanti, case fatiscenti e antenne paraboliche, niente fognature ma telefonino incollato all’orecchio. Perché non sapremmo dire come ci siano riusciti, ma è sotto gli occhi di tutti. In attesa che il 2012 sancisca la fine di un’era invertendo il polo magnetico terrestre, come vogliono i catastrofisti, l’inversione è avvenuta nelle nostre teste. E genere di prima necessità è tutto ciò che può darci l’unica qualifica che conti. Quella di consumatori.

Laura Costantini

venerdì 28 ottobre 2011

I miei articoli per "La Sesia": Sic transit...

È morto Antonio Cassese. Il nome non dirà molto ai più. Aveva 74 anni e aveva dedicato la propria vita alla tutela dei diritti umani. Per dirla con le parole del presidente della Repubblica, era un "giurista di alto prestigio nell'area del diritto internazionale e protagonista della importante esperienza del Tribunale Penale Internazionale". Parole importanti, ma che non rendono giustizia a un uomo che ci confidò, anni fa, l’orrore provato nel visionare i documenti sul genocidio della ex Jugoslavia. La morte gli ha negato la possibilità di commentare quanto accaduto in Libia. Mentre scriviamo, file chilometriche di persone attendono il proprio turno per prendere visione del cadavere oltraggiato del colonnello Gheddafi. Il professor Cassese, che di orrori ne aveva visti tanti da conservarne un’ombra dolente in fondo agli occhi allegri da uomo del Sud, forse si è risparmiato il filmato amatoriale del linciaggio del dittatore. E forse avrebbe sorriso ascoltando le parole che il ministro degli Esteri Franco Frattini ha voluto dedicargli: "Cassese ha saputo coniugare il rigore della dottrina e la profondità della sua competenza giuridica con il coraggio delle sue posizioni, ispirate da onestà intellettuale e acuta visione dei drammatici fatti che è stato chiamato a giudicare". Onestà intellettuale e acuta visione. Sì, il professor Cassese ne era dotato, almeno quanto era dotato di ironia. Perché il ministro che gli rende giustamente omaggio è lo stesso che durante le satrapiche visite di Gheddafi a Roma, ne parlava come di “un grande alleato dell’Italia”. Mentre oggi la sua barbara esecuzione diventa “una grande vittoria del popolo libico”. Avrebbe sorriso Antonio Cassese, lui che nei consessi internazionali chiamati a rendere giustizia alle vittime aveva dato dell’Italia un’immagine di equilibrio, saggezza e competenza. Lui che fino a pochi giorni fa difendeva l’Unità dai deliri padani della Lega e scriveva: “Sarebbe opportuno che si smettesse di inquinare il discorso politico con fumose ed inconsistenti chimere, che creano aberranti aspirazioni, distraendo dai tanti gravi problemi che affliggono l'Italia. E forse sarebbe utile che alcuni nostri politici si leggessero qualche manuale elementare di diritto costituzionale e internazionale”. Ci mancherà un uomo così. Ci mancherà in un paese che fino a ieri baciava la mano del colonnello Gheddafi e oggi viene invitato a gioire per la sua morte. Dal ministro La Russa, in questo caso. Ci mancherà in un paese dove viene eletto per il terzo mandato un governatore, Michele Iorio, che promette al Molise (300 mila abitanti) ben due aereoporti, ma nessuna prospettiva di lavoro per i giovani. Ci mancherà in un paese dove portare il tricolore viene considerato una fatica insostenibile da un’atleta, Federica Pellegrini, che dovrebbe esserne onorata. Posto che una gloria italiana ci sia stata, mai come oggi è giusto considerarla trascorsa.

Laura Costantini

mercoledì 19 ottobre 2011

I miei articoli per "La Sesia": Doppia notizia e doppia morale

Ci sono notizie che in qualunque altro paese solleverebbero ampia eco. Notizie che aprirebbero dibattiti, se non vere e proprie crisi. Ma noi non siamo qualunque altro paese e quindi queste due notizie, una vecchiotta l’altra decisamente meno, sono passate più o meno sotto silenzio. Cominciamo dall’attualità più stretta. La Rai ha cambiato direttore generale prima dell’estate con il chiaro intento di un brusco cambio di rotta. Via il Masi, assiduo frequentatore di mondanità assortite, è arrivata la Lei. Una donna, tanto per cominciare. Una donna gradita al Vaticano, tanto per rincarare. Svolta moralizzatrice. E va benissimo, soprattutto a fronte di una televisione, pubblica e non, che è ancora avviluppata nell’ideale della femmina muta e desnuda, possibilmente velina. La direttrice generale, eleganza antica con giacchine che stanno diventando un marchio di fabbrica quanto i cappellini della regina Elisabetta, vuole una tv diversa: meno morbosità verso la cronaca nera, meno sfruttamento dell’immagine femminile. Come non sottoscrivere? Poi, forse sulla scia delle intercettazioni che hanno evidenziato la linea diretta Rai-Mediaset per coordinare i palinsesti e non infastidire le reti del Cavaliere, si scopre che durante l’afa agostana la direttrice ha assunto un consulente per la sicurezza. Si chiama Luciano Campoli, ex appuntato dei Carabinieri poi passato ai servizi. Contratto legato a quello della direttrice. Clausola via Lei via lui e 200 mila euro annui di compenso. Per un’azienda che al 2009 dichiarava un deficit di bilancio di 120 milioni di euro, non sono pochi. Ma se la direttrice lo ha ritenuto necessario, così dovrà essere. Lei ha il polso della situazione. E sempre Lei ha ritenuto necessario un aggiustamento del proprio compenso. Tempi di crisi, questi. Tempi in cui vengono richiesti sacrifici a tutti. Perfino Napolitano ha rinunciato a un aumento di stipendio. E il Quirinale ha restituito 15 milioni al Tesoro. Invece la direttrice ha chiesto, e pare ottenuto, il passaggio da uno stipendio di 420 mila euro l’anno a uno di 650 mila Spiegazione? Non riteneva giusto guadagnare meno dei direttori, maschi, che l’hanno preceduta. Perché una donna dovrebbe guadagnare meno di un uomo svolgendo lo stesso incarico? Sacrosanto. Ma come la mettiamo con i sacrifici? Come la mettiamo con le voci incontrollate per cui la Rai potrebbe essere costretta a congelare le tredicesime dei propri lavoratori? Nessuna risposta. E passiamo alla notizia vecchia. Avete presente Pierferdinando Casini? Cattolico, moderato, contrario in modo viscerale alle coppie di fatto. Eppure divorziato e convivente con prole nata al di fuori del matrimonio. Niente di male, per carità. Però è buffo che proprio lui abbia ottenuto, da Presidente della Camera, che l’assicurazione sanitaria privata per i deputati venisse estesa non solo ai familiari, ma anche ai conviventi more uxorio. Lo scherzetto ci costa 10 milioni di euro.

Laura Costantini

lunedì 17 ottobre 2011

KLit, il festival dei blog letterari

KLit, il festival dei blog letterari si terra' a Thiene, provincia di Vicenza, il 7 e 8 luglio 2012.
Non e' detto che Lauraetlory riusciranno a esserci, ma invito tutti a divulgare la splendida iniziativa.
Di cultura e di voglia di fare non ce n'e' mai abbastanza in questo nostro povero paese.

Perché kLit?
La lettera “k” sta per key, “chiave” in lingua inglese, e “Lit” è la forma abbreviata di literature. Il festival kLit vuole essere una chiave interpretativa del mondo dei blog letterari.

Vi avevo parlato del festival lo scorso 8 settembre, ho letto le tante mail che ci avete scritto, proponendo idee e mettendovi a disposizione con le più disparate proposte. Nel frattempo ho anche chiesto l’aiuto concreto e competente di cinque persone che conosco da tempo essere impegnate sui loro campi, formando così la squadra organizzativa che si è messa subito al lavoro. L’amministrazione comunale di Thiene ha accolto con entusiasmo il progetto e stiamo lavorando assieme per presentare un festival ricco di attività.

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venerdì 14 ottobre 2011

Viaggiare a Roma by Lory


Buongiorno, sono Loredana. Non amo molto apparire, questo lo sapete tutti. Ma questa immagine dovevo condividerla con voi. Perche' quello che vedete e' solo una parte dei disagi cui siamo costretti noi romani che non ci muoviamo in automobile. Se vi pare poco...

mercoledì 12 ottobre 2011

I miei articoli per "La Sesia": ma c'e' davvero un'App per tutto?


È stata la notizia della settimana. Steve Jobs è morto. Milioni di persone in lutto. I mezzi di comunicazione in gara per sviscerare il fenomeno di quest’uomo geniale. Simpatico no, ammettiamolo. Ma simpatica, e significativa, è stata una vignetta in sua memoria. C’è Steve, dolcevita nero e jeans, alle prese con un San Pietro che scartabella faldoni alla ricerca del suo nome. E lui che alza l’indice e suggerisce: “Ho creato un’App per questo.” Se non sapete cosa sia un’App, vuol dire che appartenete a quella genia in via di estinzione che il telefono lo usa per telefonare. Ci dicono che la grande intuizione di Jobs sia stata creare un telefono per il quale la funzione strettamente pertinente è solo un dettaglio. Chi si è trovato in mano un iPhone sa che il fascino dell’oggetto, oltre che dalla bellezza del design, deriva da quel suo essere deliziosamente superfluo. Fiammelle che oscillano al vento, bicchieri che si vuotano se si ruota lo schermo, fucili a pompa che si caricano scuotendo il telefono. Un giocattolo per adulti. Un gadget da 007 che permette di accendere il televisore a casa anche se ci si trova in un altro continente. L’illusione di poter fare qualunque cosa, purché sia a portata di immaginazione umana. Ci dicono che quella creata da Jobs con le sue mele sia una nuova religione, basata sullo slogan che in questi giorni imperversa sui mezzi di informazione: stay hungry, stay foolish. Siate affamate, siate folli. Genio e sregolatezza, anche se Jobs era tutto fuorché sregolato. Un manager sognatore con un impressionante fiuto per gli affari. Odiava i tasti. Fu lui a inventare il mouse per bypassare la tastiera. A lui dobbiamo la sensazione di essere nel futuro, quando sfioriamo una superficie liscia e tutto cambia. Anche il nostro rapporto con il mondo. Iperconnessi, con un iPad in mano ci sentiamo padroni della comunicazione. Possiamo leggere qualsiasi cosa, sapere qualsiasi cosa, parlare con chiunque. In un terzo millennio che immaginavamo diverso, Steve Jobs ci ha regalato uno spicchio di fantascienza così come ce l’avevano illustrata i narratori del secolo scorso. Un essere umano che ha segnato la storia di questo pianeta. Che non muore insieme alle sue spoglie mortali. Ci assicurano, per il bene della Apple più che per il nostro, che abbia lasciato nuove idee per i prossimi quattro anni. Chissà se basteranno? Ma quello che non dovrebbe sfuggirci è che il ragazzino adottato e cresciuto nella California hippie ci ha fornito strumenti, non soluzioni. Contenitori, non contenuti. In un iPad possono essere stivati in formato digitale tutti i volumi di una grande biblioteca nazionale. Ma l’operatività di un tablet di ultima generazione non può, né potrà mai, sostituire la potenza innovatrice di un libro. Perché non servono giga di parole in memoria, se nessuno le legge. E chissà se esiste un’App per sconfiggere la compiaciuta ignoranza delle nuove generazioni?

Laura Costantini

sabato 8 ottobre 2011

I miei articoli per "La Sesia": il fascino delle dark girls


N.B. questo articolo è stato scritto due giorni prima che il tribunale di Perugia assolvesse la Knox e Sollecito per non aver commesso il fatto.

In questi giorni è grande l’interesse mediatico intorno alle protagoniste di due casi di omicidio ormai passati alla storia. Due dati su tutti: il settimanale Panorama ha dedicato la parte alta della copertina ancora in edicola a Erika Di Nardo e a Perugia si sono accreditati 412 giornalisti da tutto il mondo per la sentenza di secondo grado su Amanda Knox. Gli occhi di Erika in primo piano in tutte le edicole d’Italia. E colleghi che per descrivere Amanda usano espressioni come “bellezza irrimediabile”, “viso d’angelo”, “Amelie di Seattle”. Sembra di essere nel mondo di Raymond Chandler, dove la bellezza si coniugava con la malvagità, dove nasceva la figura della dark lady, quella che irretiva gli uomini e li spingeva a commettere nefandezze in suo nome. Erika, rea confessa e prossima a uscire di carcere dopo aver scontato 16 anni di carcere, è stata riconosciuta ideatrice del massacro di Novi Ligure. Fu lei a coinvolgere il fidanzatino Omar nell’uccisione della madre Susy e del fratello Gianluca. Novantasette coltellate, un’agonia interminabile, una scena del crimine che ha scosso profondamente gli agenti accorsi per primi. Oggi Erika, in posa sulle pagine di Panorama, racconta che le manca sua madre e che non vuole sentir nominare Omar, perché la innervosisce. Perché fu sua la colpa di tutto. Omar, che in realtà si chiama Mauro, è uscito di carcere prima di lei e si è sforzato di sparire dalla ribalta, di cancellare quel 21 febbraio 2001 e tutto quel che ne è seguito. Ha calato il pugnale, come Erika, ma è un comprimario. Proprio come Raffaele Sollecito che, lamenta il suo legale Giulia Bongiorno, “sta sempre un passo indietro, al guinzaglio, è al massimo un allegato”. E i pubblici ministeri di Perugia, in assenza di un valido movente per l’omicidio di Meredith Kercher, sono convinti che Sollecito abbia agito per amore di Amanda. Sotto la guida di Amanda. In entrambi i casi a farla da padroni sono quelli che il gergo giuridico cataloga come “futili motivi”. Mentre scriviamo non sappiamo quale sarà la sentenza di secondo grado per Amanda e Raffaele. Ma che arrivi l’assoluzione o l’ergastolo, resta il mistero di una morte, quella di Meredith, senza spiegazione. Esattamente come senza spiegazione è rimasta la morte della madre e del fratellino di Erika. Erika che andava male a scuola, che faceva uso di droghe leggere, che amava Omar nonostante sua madre fosse contraria. Che litigava con la mamma, come qualsiasi sedicenne. E Amanda come spesso accade tra ragazze sarebbe stata gelosa di Meredith e, secondo la procura, avrebbe voluto “vendicarsi di quella smorfiosa troppo seria e morigerata per i suoi gusti”. Basterebbe, per inorridire. Ma se a trasformarsi in efferate assassine sono ragazze dal faccino pulito e dalla fresca bellezza, la fascinazione del contrasto sale alle stelle. E in barba al distacco professionale, sono uomini i giornalisti che quella bellezza, fosse pure colpevole, la vogliono in prima pagina.

Laura Costantini

venerdì 7 ottobre 2011

CRONACHE DI INIZIO MILLENNIO: il cammino e' appena iniziato

Ieri sera eravamo alla libreria "Books and brunch" per la prima presentazione dell'antologia. Ci sono scrittori che odiano le presentazioni, altri che le snobbano, perche' le trovano noiose. Lauraetlory non sono tra questi. Superata ormai da tempo l'emozione che attanaglia autori anche piu' navigati e famosi di noi (non che ci voglia molto), ci piace moltissimo incontrarci con altri scrittori e, soprattutto, con i lettori. Perche' e' cosi' che i libri vedono veramente la luce. E' nel momento della condivisione con gli altri, nelle parole, nelle domande, nelle curiosita'. Si sara' capito che a questa antologia ci teniamo molto, non solo per il valore filantropico dell'iniziativa (vi ricordiamo che i diritti d'autore verranno devoluti a un progetto brasiliano dell'AVSI), ma per il profondo significato "storico" dello sforzo che abbiamo condiviso con altri 30 autori. Ieri sera eravamo parecchi, mai quanti si prevedeva, ma e' cosi' che vanno le presentazioni, lo sappiamo. L'imprevisto dell'ultimo momento e' sempre in agguato. Per questo vogliamo ringraziare tutti quelli che sono comunque venuti. E un grazie piu' grande va agli autori Francesco Dido' Di DomenicoSimonetta Simonoir Santamaria, che si sono spostati da Napoli per l'occasione. Con loro c'era anche la giornalista Emilia Ferrara, di Un mondo di italiani. Dopo, e ve ne sara' fornita prova fotografica, cena in una trattoria di quelle romanacce a botte di carbonara, rigatoni con la pajata, trippa e coda alla vaccinara. Chi non c'era non sa cosa si e' perso :)

giovedì 6 ottobre 2011

CRONACHE DI INIZIO MILLENNIO: dopo TURITTO, TURSI

Ci siamo ragazzi. Con Floriana Tursi finisce il ciclo di presentazione dei 32 autori che hanno reso possibile il miracolo di questa antologia. Il racconto di Floriana e'nato prima nella sua testa che nelle nostre intenzioni. lei lo ha scrtitto, lo ha postato su FB, io l'ho letto e ho pensato che non poteva mancare perche'tocca uno degli argomenti piu' discussi e controversi di questo inizio di millennio. La sua data e' 28 gennaio 2011.


E’ napoletana cento per cento, discendente da gente che aveva le palle, nel blasone. Laureata in storia dell’arte aveva imboccato una strada seria,  come ricercatrice di storia della miniatura e delle arti minori. Poi pensò bene di creare lei stessa delle opere d’arte e fece due meravigliosi figli, Chiara e Guido, che ha affidato all’Accademia di Belle Arti di Napoli, come allievi. Pubblica il suo primo libro nell’anno 1989: “Le miniature di Silvestro dei Gherarducci e la cultura degli Scriptoria”, la sua tesi di laurea che corredata di bacio accademico, divenne un must delle librerie universitarie: tutti la sfogliano nessuno la compra.La sua biografia entra negli archivi della questura dopo aver frequentato il corso di scrittura umoristica “Achille Campanile”. Non contenta, pubblica un racconto umoristico dal titolo “Tamarrus Balnearis, una specie in evoluzione” su “il Roma”. Ha partecipato all’’antologia curata da Gianni Puca “Se mi lasci non male” (Kairòs Edizioni) e ha pubblicato “Tamarreide” (BoopenLed), il romanzo che non ha niente a che vedere con l’omonimo programma Mediaset.

P.s.
Oggi, ore 19, presso la libreria
Books&brunch
Via Saluzzo 53/55
Roma
presentazione ufficiale dell'antologia
alla presenza delle curatrici, di Francesco Giubilei
e di alcuni autori


mercoledì 5 ottobre 2011

CRONACHE DI INIZIO MILLENNIO: dopo SANTAMARIA, TURITTO

Si chiama Pierpaolo Turitto, ha esordito con un bel giallone tutto romano, La memoria del destino e per la nostre Cronache ha scelto la data del 28 settembre 2003, raccontando un momento buio, nel vero senso del termine, del decennio.


Nasce a Roma nel 1969. Si occupa da sempre di giochi e videogiochi. Ha diretto la rivista Check Point, ha scritto per MC Microcomputer e per vari portali di informazione ludica. Ha realizzato il gioco di carte Grangol. Il suo romanzo d’esordio “La memoria del destino” (Absolutely Free) è uscito a ottobre 2010.

p.s. Vi ricordo che domani,
6 ottobre 2011,
alle 19 presso la libreria "Books&brunch"
a Roma, in via Saluzzo 53/55
 si terra' la presentazione dell'antologia, alla presenza di alcuni autori.
tra cui il qui citato Pierpaolo Turitto.
SIATECI!

domenica 2 ottobre 2011

CRONACHE DI INIZIO MILLENNIO: dopo PIZZORNO, SANTAMARIA

Questa signora è bella come il sole e buia come la notte. Non a caso la chiamano Simonoir. Quando le abbiamo chiesto di partecipare e scegliere un argomento, non ci siamo certo stupite che abbia pescato uno dei temi più delicati, difficili e "neri" della storia recente. La sua data è 27 novembre 2010 e il suo racconto gronda orrore. Di quello vero.

Simonetta Santamaria vive e scrive a Napoli, col Golfo e Capri di fronte e il Vesuvio alla sua sinistra. Ha la R moscia, infatti l’hanno simpaticamente definita "la donna che scrive horror perché non riesce a pronunciarlo". Come il grande H. P. Lovecraft adora i gatti, in particolare quelli neri perché sono dei paria. Scrive horror perché va a braccetto con quei generi che scavano nel profondo della mente umana mettendone a nudo il lato oscuro. Proprio quello che si nasconde in silenzio da qualche parte, dentro ognuno di noi. Ha pubblicato nel 2008 il romanzo “Dove il silenzio muore” (Centoautori), ha partecipato a numerose antologie ed ha avuto un grande successo di pubblico e critica con il volume “Vampiri, da Dracula a Twilight” (Gremese). Per lo stesso editore sta per uscire “Licantropi – i figli della Luna”

venerdì 30 settembre 2011

CRONACHE DI INIZIO MILLENNIO: dopo PANDIANI, PIZZORNO

E' l'unico nel gruppo a non essere uno scrittore. Ma e' un grande artista, come sanno tutti coloro che conoscono il lavoro di Niccolo' Pizzorno. Lui ha scelto di illustrare quella che si configura come una sorta di chiusura del cerchio di questa antologia. La data e' il 2 maggio 2011.


Nasce nel 1983 a Genova, dove si diploma presso l’Accademia di Belle Arti. Talento figurativo poliedrico sperimenta varie tecniche e frequenta la scuola chiavarese del fumetto. Si occupa di illustrazioni e tecniche calcografiche. Ha illustrato “Il settimo plenilunio” romanzo collettivo di Carlo Menzinger e Simonetta Bumbi (Liberidiscrivere 2010). Ha illustrato la pubblicazione online del romanzo inedito di Laura Costantini “La lunga guerra” di cui gestisce la pagina Facebook. Una sua tavola figura nel petit cahier di viaggio “New York is a woman” di Laura Costantini (Historica 2011).

martedì 27 settembre 2011

Oggi su "La Sesia": la colpa di essere bambine

Due casi emblematici. Uno decisamente locale, l’altro sotto gli occhi di tutti. Entrambi giocati sulla pelle delle bambine, colpevoli di essere donne in nuce, pronte a sbocciare. A Oria, in Puglia, provincia di Brindisi, c’è una scuola media, la “Milizia Fermi”. Il preside, Vincenzo Sportillo, è evidentemente un signore vecchio stampo perché il regolamento scolastico, esposto sul sito dell’istituto, fino a qualche settimana fa rendeva obbligatorio l’uso del grembiule nero. Ve lo ricordate il grembiule nero che le mamme degli anni ’70 tentavano di sdrammatizzare sferruzzando all’uncinetto artistici colletti bianchi? Quello. Obbligatorio. E, proprio come più di quarant’anni fa, obbligatorio solo per le femmine. Una madre battagliera, la signora Miglietta, ha deciso di dichiarare guerra all’evidente discriminazione. Lei, madre di un ragazzo e una ragazza, non ne poteva più di vedere il figlio libero di vestirsi come gli piace e la figlia mortificata dalla versione occidental-scolastica del burka. Quando il preside, irremovibile, ha rilanciato motivando il regolamento con l’indecenza dell’abbigliamento femminile, la signora Miglietta è partita lancia in resta. Ha scritto al ministero dell’Istruzione, si propone di scrivere anche a quello delle Pari Opportunità. Il preside, forse spaventato dalla cagnara mediatica, ha reso l’uso del grembiule “facoltativo”, come da comunicato sul sito della scuola. Ma la signora Miglietta segnala che il messaggio discriminatorio è comunque passato e sono molte le famiglie che continuano a costringere le bambine a coprirsi con il grembiule nero. E mentre la mamma di Oria minaccia di ricorrere al tribunale dei minori per maltrattamenti psicologici nei confronti delle bambine, noi passiamo al secondo caso. Quello a carattere nazionale. “Ti mando una canzone”, show del sabato sera di RaiUno. Bambini e bambine dai 5 ai 16 anni si sfidano a colpi di canzoni entrate nella storia della musica italiana. Sorvoliamo sulla duplicazione del programma nella tv commerciale e restiamo al colpo d’occhio. I maschietti, di qualsiasi età, vestono come nella vita di tutti i giorni: jeans, scarpe da ginnastica, T-shirt colorate, gilet, giacche e giubbini. Gel nei capelli, tagli all’ultima moda, facce da piccole e navigate pesti. Simpatici, va detto. Poi guardiamo le bambine e ci troviamo davanti a uno scaffale di vecchie bambole di porcellana con boccoli e crinoline. Di quelle che hanno fatto la fortuna di parecchi film horror. Che abbiano cinque anni o sedici. Che siano tenere bimbette o giovani donne dalle forme compiute. Non importa. Nessuna di loro, mai, nella vita di tutti i giorni si vestirebbe in quel modo. Abiti taglio impero, obbligatori le scarpe senza tacco e un profluvio di cerchietti e fermagli tra i boccoli. Sembrano foto dei primi del Novecento. Si dirà che non sono grembiuli neri e che meglio così che conciate da Lolite. Vero. Ma ancora una volta è la femminilità in erba a far paura.

Laura Costantini