martedì 15 ottobre 2013

Il male esiste

Il male esiste. Fa parte della natura umana. Ne abbiamo le prove tutti i giorni. Prove di cui faremmo volentieri a meno. Il male sono le centinaia di persone che perdono la vita in un esodo senza sosta e senza speranza. Il male sono i racconti delle violenze cui esseri umani inermi vengono sottoposti da altri esseri umani che speculano sulla loro disperazione. Il male è l'ostinazione di un vecchio che è sopravvissuto per settanta anni agli orrori di cui è stato artefice. Il male è un destino beffardo che gli ha concesso di arrivare al secolo di vita, lui che di vite ne ha stroncate troppe, senza un briciolo di ripensamento, pentimento, presa di coscienza. Ha negato fino alla fine Eric Priebke. Continua a negare attraverso un testamento che racconta l'arroganza di un uomo che ha torturato un'intera città, Roma, e ne è sempre andato fiero. È morto nella sua casa romana, verrebbe da dire in pace. In ogni caso senza un frammento della sofferenza che ha saputo e voluto infliggere. È morto omaggiato dalla genia dei cretini che mai mancano in questi casi, quelli che portano fiori e imbrattano muri stuprando superfici e parole incolpevoli. Onore, hanno scritto, al capitano. Onore all'assassino, al boia, al male. Per quanto ci si sforzi, non capiremo mai cosa si nascondesse dietro quel volto, dietro quello sguardo, dietro quell'obbedienza a ordini disumani. Forse è bene che sia così. Ma il male esiste e non è nato con Eric Priebke, né con lui si è esaurito. Come ben raccontano i romani del ghetto "i nazisti non se so inventati gnente". La stoffa gialla per contrassegnare i giudei, il divieto di esercitare le professioni, la reclusione in un recinto insalubre, l'impunità per chi volesse sfogare le proprie frustrazioni sul "diverso", la licenza di uccidere. Tutto questo, ai danni degli ebrei, esisteva ben prima della follia genocida di Hitler, ben prima dell'Olocausto. Fu un papa, Paolo IV Carafa, a sancire con una bolla pontificia il diritto alla persecuzione degli ebrei. Era il 1555 e la colpa era quella di sempre: erano diversi. Per religione, per attitudini, per capacità anche. Paolo IV li chiuse nel ghetto, lo stesso dove il 16 ottobre del 1943 i commilitoni di Priebke li rastrellarono a migliaia. Ne sopravvissero solo 14, adulti, tredici uomini e una donna. Bambini neanche uno. E chi era adulto settanta anni fa, oggi è vecchio, troppo per sperare di continuare a combattere con la forza della testimonianza le bugie di gente come Priebke. Che anche da morto continua ad abiurare l'orrore, a negare lo sterminio. Per questo è importante essere consapevoli che il male esiste. Possono morire i carnefici, possono spegnersi le vittime. Ma il male esiste e non merita perdono e tanto meno oblio. In un paese capace di dimenticare le vittime di una settimana fa, di distogliere lo sguardo e restringere la compassione, non possiamo permetterci distrazioni. Il male esiste e non si esaurisce con la vita di un vecchio malvagio.

Laura Costantini

mercoledì 9 ottobre 2013

Sono tanti e saranno sempre di più

Ci sono fenomeni contro i quali non si può lottare. Oppure sì, ma con la consapevolezza di non poter vincere. L'avanzata delle dune del Sahara. La deforestazione dell'Amazzonia. L'innalzamento del livello delle acque. La migrazione dei popoli. Sì, la migrazione dei popoli. Da quando esistono, gli esseri umani migrano. Spinti dalla fame, dalla necessità di spazio, dalla paura, dalle guerre, dai cambiamenti climatici, dalla speranza nel futuro. Spesso da tutte queste cose messe insieme. Noi lo sappiamo. Ci siamo passati. Cerchiamo, e ci riesce benissimo grazie alla scarsa memoria e la scarsa istruzione di cui meniamo vanto, di dimenticarlo. In ogni caso, quando qualcuno prova a ricordarci che c'è stato un tempo in cui eravamo noi quelli che rubavano il lavoro, compivano crimini, stupravano donne ed erano brutti, sporchi e cattivi, ci chiudiamo a riccio. E ricordiamo che il nostro bisnonno, la prozia o il lontano cugino erano bravissime persone, grandi lavoratori e che, comunque, avevano il permesso di soggiorno e non sbarcavano a tradimento sulle coste di lontani continenti. Vero, noi sbarcavamo come i neri ai tempi della schiavitù: laceri, sporchi e con un debito quasi inestinguibile sulle spalle, quello del biglietto e del passaporto rosso. Tempi diversi, circostanze diverse, risultati identici. Ci odiavano. Gli abitanti del posto, spesso immigrati a loro volta ma già lì da tempo, ci consideravano estranei, alieni, invasori. Inferiori. C'è una scena di un film, bello e triste, che descrive, forse, i sentimenti, le paure, le fobie e il senso profondo di quanto ci sta succedendo. Il film è "Balla coi lupi". Le grandi praterie americane erano e sono immense, ma la loro immensità era la base stessa di uno stile di vita, quello dei nativi, che di mobilità e di ampi spazi si nutriva. Poi, come sappiamo tutti, cominciarono ad arrivare i bianchi. Noi. Che arrivavamo con la pretesa di disboscare, scavare, costruire, sezionare il corpo vivo della prateria in quarti di cui cibarsi e non solo in senso metaforico. Distruggi, costruisci, sporca, consuma. I nativi non capivano, nom potevano capire. Nella scena di "Balla coi lupi" un nativo, saggio e simpatico, chiedeva a Kevin Costner: "Quanti sono gli uomini bianchi?" e Costner, l'ex soldato blu convertito alla spiritualità dei nativi, abbassava gli occhi e rispondeva: "Tanti..." Tanti come le stelle in cielo, tanti come i bisonti prima che i bianchi li massacrassero, tanti come le locuste delle piaghe bibliche. I nativi americani tentarono di fuggire, di isolarsi nelle zone più impervie, di lottare, anche. Ma l'avanzata dei bianchi era uno di quei fenomeni inarrestabili con cui l'umanità si è trovata tante volte a fare i conti. I nativi furono costretti a soccombere. I bianchi morivano affrontando le difficoltà delle praterie, ma non si fermavano. Erano troppi per poterlo fare. Oggi noi vediamo persone disperate affrontare il mare e morire, a centinaia, a migliaia. Ma non si fermano, non si possono fermare. C'è un intero continente di disperazione a premere alle loro spalle. E noi non possiamo alzare barriere. Sarebbero inutili.


Laura Costantini

mercoledì 2 ottobre 2013

Marco e i tuareg

Mentre il mondo cade a pezzi, recita una canzone. Mentre la politica tradisce ogni pur modesta aspettativa, c'è chi percepisce i cambiamenti, li recepisce e si organizza di conseguenza, creandosi una piccola oasi di serenità. Periferia di Pordenone. Strade pulite, palazzine dignitose, un piccolo mini-market, di quelli che non se ne trovano quasi più. Troppa e troppo potente la concorrenza dei centri commerciali, dei mega-discount. Ce ne sono almeno tre in zona, a portata di passeggiata in auto. Marco in quel mini-market c'è cresciuto. Gestione familiare, il negozio era di suo padre, un piccolo alimentari d'altri tempi. Poi le cose sono cambiate. Il mondo è cambiato. Siamo a Pordenone, ma le voci che si rincorrono hanno poco a che spartire con il friuliano. I volti sono scuri, le vesti colorate, i nomi raccontano storie di posti lontani, quasi mitici. Agadez, Timbuctù, Tamanrasset. Con gli anni, una quindicina, a Pordenone si è creata una bella comunità di tuareg. Sì, gli uomini del deserto, quelli con lo sguardo impenetrabile tra le pieghe del tagelmust, il turbante tinto con l'indaco. Quelli degli spazi enormi, della cerimonia del tè, del rifiuto costante di aderire ai modelli di vita esportati dagli occidentali. I tuareg tra loro si chiamano imoagh, uomini liberi. Eppure può capitare che la loro ricchezza più grande, la libertà, siano costretti a rincorrerla fino a una piccola, ordinata città del nord Italia e a trovarla tra le quattro mura di un appartamento in periferia. Sono una quarantina i tuareg di Pordenone, una comunità unita e forte. Abitano quasi tutti nella zona del mini-market di Marco. Hanno cominciato a entrare, aggirarsi tra gli scaffali, chiedere. Sempre con il sorriso e l'educazione che, racconta Marco, ormai mancano ai clienti italiani. Cercavano riso, cereali, tè, pasta d'arachidi, pesce di quello povero, carne. Ma che fosse halal, lecita ovvero macellata secondo i dettami dell'Islam. Marco li ha ascoltati. Ha preso un taccuino e cominciato a raccogliere ordinazioni: zenzero fresco, platani da friggere, interi pancali di riso, di mais bianco, di farina di miglio. Ibrahim, Haddoe, Muhammad ringraziavano, compravano, spargevano la voce. Le donne, nei loro abiti variopinti, scendevano tra gli scaffali insieme ai bambini e al necessario aggiungevano i piccoli piaceri. Bevande d'orzo frizzante per i piccoli, creme e oli per i capelli crespi, buste di platani fritti, dolci o salati, come snack. Oggi quello di Marco è l'unico mini-market etnico gestito da italiani. E non risente della crisi. Anzi. La sicurezza di una clientela numerosa e affezionata ha consentito di tenere bassi i prezzi anche per la merce abituale. Gli affari vanno bene, gli immigrati si sentono bene accolti e il rapporto è diventato amicale. Marco viene invitato alle loro cene e alle loro cerimonie. Suo padre, che i tuareg chiamano papà, viene consultato per interpretare le pastoie della burocrazia italica e per chiedere saggi consigli. Ibrahim, Haddoe e gli altri sono grati. Ma anche Marco e la sua famiglia lo sono. Figli del deserto e figli del Friuli si sono dati la mano e hanno superato le difficoltà. Insieme.

Laura Costantini