domenica 27 settembre 2015

De gustibus non disputandum est


Dibatto spesso con le persone che conosco, e che leggono (ne conosco parecchi di lettori, il che alle volte mi fa dubitare del poco amore per la lettura degli italiani, poi mi dico che è una questione di frequentazioni e io, modestamente, gli amici me li so scegliere) sul reale valore di un testo e sulla questione “gusto personale”. Spesso mi trovo nella posizione di quella che dice che alcuni pilastri della letteratura mondiale non possono non piacere. Poi mi smentisco da me. Ho faticato, e molto, a leggere “Il maestro e Margherita” e, per buona metà del testo, ho dovuto trattenere la voglia di far volare il volume oltre la finestra. Giunta alla fine, però, mi sono ricreduta. E’ un grande libro, dice moltissimo se si ha la voglia (o la capacità?) di ascoltarlo. Ma non posso condannare chi proprio non l’ha sopportato. Un lettore ha il sacrosanto diritto di chiudere un testo e usarlo come supporto per la tazzina del caffè. Anche se si tratta di un pilastro della letteratura mondiale. Figurarsi se, invece, si tratta dell’ultima fatica di autori ben inseriti nei salotti che contano. Mi sono divertita a leggere le recensioni su GoodReads di un romanzo italiano uscito da pochi mesi. Non ha importanza quale. Ha goduto di ottima critica, battage giusto, visibilità. Le recensioni, a colpo d’occhio, erano per lo più negative. Una o due stelline, argomentate da lettori delusi e pure arrabbiati. Ma ce n’erano molte entusiastiche, con tre o quattro stelline. È la scoperta dell’acqua calda? Certo. Ma è interessante. Perché lungi dal definirsi critici letterari, i lettori di quel romanzo dimostravano, argomentando, riportando stralci, facendo riferimenti ad altri autori e altri testi, di aver riflettuto su quelle pagine. Di averci ragionato, esercitando un diritto di critica che è inalienabile. Un esercizio fatto senza timori né dietrologie, come invece accade tra scrittori (o sedicenti tali). Perché, ammettiamolo, se capita, a noi che scriviamo, di leggere un testo di un altro autore, che magari conosciamo personalmente, che ci è simpatico, che magari potrebbe metterci una buona parola con quel giornalista/libraio/editore, e quel testo ci fa, fantozzianamente, cagare, scatta il dramma. Impossibile dire che ci è piaciuto. Ma ancor più impossibile mettere nero su bianco che, per i nostri gusti, quel testo non avrebbe mai dovuto vedere la luce. Adesso ci vado giù dura, sia chiaro. Ma sarà capitato anche a voi di scuotere la testa davanti a pagine banali, non necessariamente mal scritte, ma sostanzialmente inutili. Ecco, forse il peccato peggiore è questo: un libro può essere bello, brutto, mediocre, pieno di strafalcioni o ben scritto, troppo lungo, troppo corto, troppo strombazzato. Ma non può mai permettersi di essere inutile. Di far pensare al lettore di aver perso tempo (e denaro) che avrebbe potuto utilizzare in modo più proficuo. Ecco, di lettori così quel romanzo di autore italiano molto noto e ben introdotto ne ha incontrati parecchi. A dimostrazione che ciò che ci viene costantemente presentato come “imperdibile” dalle fascette, dalle case editrici, dai critici, può non esserlo. E lo si può affermare, questa è la notizia, senza doversi per forza sentire ignoranti, invidiosi o superficiali.

3 commenti:

  1. Concordo: tutto, ma non un libo inutile. Fa sentire letteralmente truffati sia nelle tasche, che nella fiducia (mal riposta), che nel tempo perso. Meglio: sprecato.
    Su Il maestro e Margherita: pensa che l'ho riletto lo scorso anno, dopo la prima lettura intorno ai vent'anni.
    Noto che i russi, che ho letteralmente divorato, amandoli sconsideratamente, fra i 16 e i 23 anni, oggi fatico di più ad avvicinarli. Però, dopo la fatica iniziale che mi fa sempre pensare di desistere dal proseguire, poi finisce che dopo le prime 50/80 pagine, mi catturano esattamente come quando li ho letti la prima volta.
    Come fossero nuovi, mi chiedo sempre come diavolo abbia potuto amarli e comprenderli allora, prima di aver aggiunto letture su letture e esperienze su esperienze.
    Se te la senti, tenendo conto che l'ostacolo potrebbero essere appunto le prime 50/80 pagine, mi sento di consigliarti L'adolescente di Dostoevskij.
    Così grande da essere attuale come nessuno, come solo un immortale può.
    Per amarlo, consiglio tempo e silenzio: nulla è più difficile che leggere i russi interrompendoli spesso o immersi nel frastuone della quotidianità.
    Il premio, vale.
    Un abbbraccione a tutte e due.

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  2. Non è che tuttavia l’«utilità» di un libro sia un criterio oggettivo, e nemmeno chiaro, direi.

    A che fine dev’essere «utile», un libro? A che cosa serve? Quello che per è è tempo perso non lo è per un altro, se solo si sia deve divertito a leggere un romanzo.

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    1. Un libro utile, per me, è un libro che mi resta dentro. Se continua a vivermi nella memoria. Se penso ai personaggi come a persone reali. Se la storia mi mupve emozioni. Ovviamente secondo i miei gusti. Mi capita spesso di leggere libri gradevoli, che ti fanno spendere in leggerezza qualche ora. Ma poi svaniscono dalla memoria. Sai che lo hai letto, ma non ti ha lasciato niente. Ecco, questi sono i libri inutili. Per me.

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