mercoledì 29 gennaio 2014

Sociologia della tazzina

(Questo post lo scrissi nel 2009 sul vecchio blog di Splinder. pensavo di averlo perso, invece si salvò dal naufragio grazie alla ripresa su un blog amico. Ve lo ripropongo)

Non so se a causa del lavoro che faccio o perché sono curiosa per natura, ma a me piace osservare la gente nel quotidiano, alle prese con quelle abitudini che fanno parte della vita di tutti noi. Trovo che tale osservazione sia utile per capire la società che ci circonda. E il suo grado di decadimento. Nel mio posto di lavoro esiste un bar interno. Un caffè lo paghi 55 centesimi (erano 49 fino al 31 dicembre scorso, ma poi la crisi... n.d.r. oggi costa 60 centesimi), non è eccelso, ma ti risparmia di impugnare il tesserino e far girare il tornello per uscire dal CPTV di Teulada e andartene a prendere un caffè fuori, al costo di 80 centesimi. Alla lunga (e moltiplicati per 4/5 tazzine al giorno) quella differenza di 25 centesimi si sente. Il bar del CPTV (niente paura, significa solo centro di produzione televisiva) è stato ristrutturato da circa un anno, ha un aspetto molto trendy, con tavolini, divanetti, sgabelli e banconi tutti bianchi e neri. E' molto grande e confortevole. Eppure... Sorvolando sulla varietà di declinazione del caffè nelle richieste dei clienti (decaffeinato lungo al vetro con latte scremato freddo a parte, per dirne una), il fenomeno sociologico che mi interessa trattare è la conquista della postazione sul bancone di servizio. Ripeto che, una volta ottenuta l'agognata tazzina, è possibile e confortevole raggiungere i tavolini oppure i banconi dotati di alti sgabelli dove sorseggiare il caffè spettegolando del più e del meno. Eppure la maggior parte dei miei colleghi (lo sono tutti, a vario titolo) si comporta come un fante della prima guerra mondiale una volta conquistato il suo pezzetto di trincea. Il primo passo è infilare il braccio, armato di scontrino, sotto il gomito di colui/colei che sta prendendo la sudata tazzina. La mossa numero due è costringere il malcapitato a ingollare bollente il caffè e togliersi rapidamente dai cog***ni, il che avviene con un movimento laterale che poi diventa frontale, con successivo allargamento dei gomiti ad ala di gabbiano. Terzo punto: attirare l'attenzione degli indaffaratissimi camerieri chiamandoli per nome. Perché, sta qui il segreto, chiamare per nome Paolo piuttosto che Vittorio dà immediatamente il senso della famigliarità e del susseguente diritto ad essere serviti per primi. Ottenuto il cornetto integrale al miele e il marocchino con spruzzata di cacao la postazione è presa. E qui comincia la guerra di logoramento. Vince chi se ne frega della ressa che gli si forma alle spalle a assapora con voluttà la tazzina, intrattenendosi a chiacchierare con il vicino di bancone, con il barista, con chiunque. Vince chi riesce a impedire che uno scontrino alieno gli spunti sotto il gomito mentre beve. Vince chi sbocconcella lentamente il cornetto impedendo a chiunque di raggiungere la ciotola dello zucchero (bianco, di canna, dolcificante). Vince chi riesce a mantenere più a lungo la postazione. E non importa se potrebbe godersi la colazione comodamente seduto ai tanti tavoli vuoti oppure ai banconi con gli sgabelli. Non importa perché la vittoria è costringere il nemico all'attesa. Dove per nemico si intendono tutti gli altri. Mantenere la postazione signfica affermare la propria esistenza in vita, la propria supremazia, il proprio essere importante all'interno della compagine lavorativa. Mantenere la postazione vale quasi più che l'essere assunti a tempo indeterminato, quasi più che ricevere una promozione o una gratifica. Mantenere la postazione significa aver raggiunto uno scopo nella vita. Poi il caffè finisce. Puoi raschiare il fondo con il cucchiaino. Puoi raccogliere le briciole del cornetto. Ma alla fine devi cedere la postazione. E tornare la nullità di sempre.

lunedì 27 gennaio 2014

Il lettore buono e quello cattivo...

Di solito la ripartizione è tra poliziotto buono e poliziotto cattivo. Ma in questo caso si parla di lettura e si parla di me (Laura) e di lei (Lory). La riflessione me l'ha suggerita la socia/metà oscura proprio stamane, condividendo una mia entusiastica recensione del giallo di Roberto Riccardi "Undercover - Niente è come sembra" (E/O). Cosa c'è di strano? C'è di strano che, di solito, quello che piace a me non piace a lei. E che dove io vedo cose positive, lei di solito vede delle irrimediabili banalità. Al punto che un giorno mi ha affrontata a brutto muso dandomi della buonista senza speranza, dicendomi che sono una di bocca buona e che dispera di potermi recuperare. Ora dovete sapere che niente di ciò che la mia socia/metà oscura dice mi scivola addosso. E' anche vero che a me poche cose scivolano addosso, son così di carattere. Ma, dicevamo, su quanto afferma Lory io ci rifletto con attenzione. Sempre. Sono una lettrice troppo buona? Non credo, diciamo che analizzo il testo cercando di tenere conto di mille e una considerazioni. Diciamo anche che stroncare non mi piace. Lo faccio se l'autore mi ha sottoposto un testo, chiedendomi espressamente un parere. E se il parere è negativo, io lo dico. Pagandone immancabilmente le conseguenze con bannamenti, vendette e recensioni stroncatorie e ritorsive. Succede. Mi dicono sia normale tra gente che scrive. Non mi piace che sia normale. Ma torniamo al discorso iniziale. Io ricevo, per motivi vari, un sacco di libri da leggere. Spesso riesco a leggerli in tempo utile, mi piacciono e li consiglio a Loredana. Lei li prende, se li porta nei trasferimenti in metro, li legge e nove volte su dieci me li restituisce con una faccia tra lo schifato e il rassegnato. Potrei sbagliarmi, ma negli ultimi mesi, se non anni, di tutti i libri che ci siamo passate ha espressamente apprezzato "Nient'altro che amare" di Amneris Di Cesare (Cento Autori), "Non passare per il sangue" di Eduardo Savarese (E/O) ma conta meno perché è lei che lo ha passato a me, e appunto "Undercover". Quanti e quali ho passato io a lei meglio non dire, per non incorrere per interposta persona nelle vendette di cui sopra.
Tutto questo per dirvi che avere un apprezzamento da me, checché ne dica Lory, non è facile. Ma averlo da lei è veramente un caso eccezionale. Una specie di medaglia da mettere al bavero. Perché, sapete, se Lory fosse una cui piace avere visibilità nella Rete, molti dei blog libreschi famosi per non mandarla a dire potrebbero tranquillamente chiudere. Ho sentito giudizi, da Lory, che voi umani scriventi è meglio che non immaginiate neanche. Ne andrebbe del vostro equilibrio psico-narrativo.
Fidatevi.

martedì 7 gennaio 2014

Capitan Harlock 3D


Leggendario, epico e visivamente senza precedenti. Così recita la pubblicità di Capitan Harlock 3D, attribuendo la frase al Cameron di Avatar.
Leggendario, sì, perché parla di una leggenda recente eppure millenaria, una leggenda che ci portiamo dietro, noi 40/50enni, dall’infanzia, ma che affonda le radici nell’immaginario collettivo dell’eroe solo, taciturno, tormentato. Non senza macchia e non senza paura, ma proprio per questo più grande.
Epico, sì, di quell’epica che la vedi, la senti e pensi Giappone. L’epica dei gesti, degli sguardi, dei movimenti felini velocissimi ma rallentati, delle arti marziali, dello sventolio di bandiere (ma come sventola una bandiera nello spazio?), di mantelli, di capelli.
Visivamente senza precedenti, vero. Avatar è stato una scoperta, ma questo Capitan Harlock va oltre, coniugando una computer grafica con un impatto realistico eppure totalmente artificiale che apre a un nuovo modo di realizzare film.
Eppure… eppure si poteva, si doveva fare di più.
Il capitano silente, troppo, ombroso, troppo, sofferto, troppo e presente poco. Il film è il suo, ma non interagisce quasi mai e ci regala solo rari sprazzi di ciò che noi, pubblico per lo più di adulti rimasti adolescenti dentro, cercavamo.
È la trasposizione manga di Sandokan, del Corsaro Nero, di Ulisse, ma anche di Achille. È immortale come Highlander e ne soffre. È sfregiato e cieco di un occhio, eppure è bellissimo. Soprattutto, ed è la sua forza, è un uomo che ha sbagliato nel modo più atroce. Che ha distrutto ciò che amava di più e che sta, da oltre cento anni, cercando il modo di rimediare.
Scopriremo, con fatica e con molte lacune, che il rimedio che pensa di aver trovato sarebbe un’apocalisse totale. Lui lo sa, fin dall’inizio, e questo lo colloca in una luce di eroe cattivo, di cupio dissolvi, come denuncia il suo antagonista disabile e feroce. Perfino la sua ciurma ne rimane sconvolta, quando scopre a cosa serve l’aver disposto cento bombe a variazione dimensionale (o qualcosa del genere, i termini scientifici sono terribili da ricordare e troppi).
Da sempre l’eroe fortissimo, e Harlock lo è, ricercato in tutto l’Universo, temuto, invincibile ma fragile nello spirito, ferito e in cerca di riscatto parla alla nostra fantasia. Anzi, alla nostra anima. E parla in modo che vorremmo conoscerlo meglio, cosa che questo film non ci consente di fare. Così dobbiamo affidarci a scorci improvvisi: il primo arrembaggio, quando il capitano afferra il timone e, non diversamente da quanto avrebbe fatto il Corsaro Nero, scaglia la propria Arcadia contro un’astronave nemica in un frenetico girar di timone e sventolar di mantello; il salvataggio di Yama sul pianeta Tokarga, quando il capitano si tuffa in caduta libera per recuperare il pivello dell’equipaggio, ben sapendo che è una spia e accettando il rischio di esserne ucciso; l’unico momento di tenerezza e di rassegnazione, quando l’aliena detentrice del segreto del motore a dark-matter gli passa una carezza sul viso prima di dissolversi in particelle di luce; i duelli e quell’unica goccia di sangue che stilla dal corpo del capitano a rivelarci che, finalmente, ha perso l’immortalità derivata dalla materia oscura; il passaggio di consegne, di timone, forse di potere, con Yama che fin dall’inizio gli somigliava e alla fine sembra un clone di Harlock, cicatrice sul viso compresa.
Nel mezzo ci sono fuochi d’artificio visivi eccezionali. C’è la tragedia della Terra. C’è la speranza, ci sono i fiori che rinascono dall’oscurità. C’è una guerriera ben poco credibile (unica nota veramente stonata, al limite del ridicolo) con le tette corazzate e il perizoma sulla tuta spaziale (ma per piacere!). Ci sono armi di distruzione di massa che i potenti vogliono comunque utilizzare. C’è il riscatto del cattivo…

Sapete che vi dico? Dopo averne scritto, mi è venuta voglia di rivederlo da capo.

Un diritto non costringe, un divieto sì

Un diritto non costringe, un divieto sì. Sembra la cosa più banale del mondo, ma non lo è. Nel terzo millennio non siamo diversi, non abbiamo fatto passi avanti, non siamo riusciti a superare dogmi e leggi del più forte. Siamo ancora divisi tra coloro che si battono per ottenere, prima, e difendere, poi, dei diritti sacrosanti di autodeterminazione e coloro che lottano perché la regola del no annulli qualsiasi facoltà di scelta. Abbiamo assistito a questa lotta senza quartiere qualche anno fa, davanti al calvario incolpevole e inconsapevole di una giovane donna. Eluana Englaro, ricordate? La lotta di un padre perché venisse rispettato il volere di sua figlia, perché le venisse riconosciuta la dignità di essere umano piuttosto che una finta esistenza da vegetale. Vinse, quel padre. Ma lo scontro fu titanico e resta ancora irrisolto. I difensori dell'etica non riconoscono a nessuno il diritto di decidere della propria vita e della propria morte. A quanto pare incapaci di comprendere che il diritto al testamento biologico e all'eutanasia non significa, ipso facto, il dovere di chiunque abbia un parente in coma vegetativo a staccare la spina. Semplice. Eppure così complesso. Il padre di Eluana volle rispettare quanto detto, in vita, dalla sua bambina. Mai ha affermato che una decisione come quella, una decisione da far tremare i polsi e mettere in dubbio un'intera esistenza, fosse giusta per tutti. Voleva, ed ebbe, un diritto. E un diritto non è un dovere. È giusto ribadirlo oggi che la Spagna fornisce una sponda alle tendenze antiabortiste della destra italica, decurtando gravemente la libertà delle donne iberiche, privando di sostanza il diritto all'aborto. Diritto, non dovere. Ma se nel caso del testamento biologico e dell'accanimento terapeutico i temi etici e le ingerenze religiose sono state forti, di fronte alla possibilità (che ci illudevamo acquisita) delle donne di decidere del proprio corpo, i sedicenti movimenti per la vita sfoderano le armi pesanti. E i più retrivi luoghi comuni. Diciamocelo chiaramente: a fronte di decenni di lotte femministe, la società, soprattutto quella di matrice cattolica, non è e non vuole essere pronta a riconoscere a una donna la libertà di scegliere. Si parla di aborto e a parlare sono per lo più uomini, per loro stessa natura fisiologica esclusi dal vivere/subire l'argomento. Si parla di aborto e la più complessa delle scelte, la più intima e la più devastante, diventa esempio di superficialità femminea, di egoismo, di scarsa moralità. L'aborto come contraccettivo, si inveisce. L'aborto come scarico di responsabilità. L'aborto come disconoscimento dei diritti dell'embrione e di colui che ha contribuito a generarlo: il padre. Un padre che non dovrà né potrà mai vivere la gravidanza. Un embrione che, in quanto progetto di vita futura, ha immediatamente più diritti della donna/incubatrice. La nuova legge spagnola e i mille tentativi italici, senza contare la proliferazione virale di medici obiettori di coscienza negli ospedali, vogliono l'ultima e unica parola sul corpo delle donne. Vogliono imporre un divieto. Che è, per sua natura, un obbligo. Il contrario esatto di un diritto. Che è libertà di scegliere una maternità consapevole.

Laura Costantini