lunedì 19 marzo 2012

I racconti del lunedì: Giro di do

Oggi, in occasione della festa del papà, un racconto... paterno. Sempre a firma delle vostre Lauraetlory,
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Un campanaro suonava a distesa e una donna con un gran cavolo sotto il braccio osservava la scena. Checco pensò che poteva capire la sua curiosità. C’era una bara, portata a braccia dagli amici, due anziani genitori che si sostenevano l’un l’altra in uno scambio di sospiri asciutti. E c’era lui, i soliti jeans cuciti addosso, la giacca con le toppe sui gomiti, le Clark inzuppate e quel fagotto di ciccia tra le braccia: Lella. Checco capì che la donna con il cavolo la pensava come tutti gli altri: uno con la sua faccia non poteva prendersi cura di un neonato. In fondo era esattamente quello che gli aveva detto Letizia, anche pochi minuti prima di morire.
Il piccolo corteo funebre scivolò silenzioso lungo il sagrato incuneandosi sulla stradina che portava al cimitero. Checco lo lasciò sfilare, accodandosi al gruppetto neanche tanto sostanzioso dei compaesani. Del resto nessuno di loro era riuscito a dimenticare il disprezzo che Letizia nutriva verso tutto ciò che sapeva di legna bruciata, di terra, di stalle. Se n’era andata sbandierandolo, quel disprezzo. E se era tornata era stato solo per sgravarsi di Lella. La piccola gli si agitò tra le braccia, mentre, a passi sempre più lenti, cercava di rimanere indietro. Se la sistemò meglio contro la spalla e ne assorbì il sorriso complice. Checco era certo che Lella avesse percepito il colpo di fortuna che le era toccato perdendo una madre come Letizia. Letizia che non gli aveva mai nascosto la verità. A tenerli insieme era il suo modo di prendersi cura di lei: lavorava per tutti e due, pagava l’affitto, cucinava, lavava, stirava e, all’occorrenza, le scaldava il letto. Quando non era già occupato. Un figlio non rientrava nei suoi piani. Glielo aveva chiarito nel momento stesso in cui Checco, un sorriso ebete sulle labbra, aveva alzato gli occhi dal rosa del test di gravidanza che lui stesso aveva comprato dopo aver notato che da mesi la scorta di assorbenti restava intatta. Non era riuscito a farla ragionare. Letizia aveva deciso che quel bambino era di troppo e che non era disposta a dividere con nessuno la dedizione che Checco le doveva. Era troppo tardi per abortire, ma di questo non si era preoccupata. Bastava tornare al paesello, partorire e lasciare il fagotto ai nonni per poi tornare nel loro seminterrato al Tuscolano.
La pioggia battente affrettò la marcia del corteo verso il cimitero. Lo avevano ormai distanziato ma nessuno se n’era accorto, raccolti sotto la volta degli ombrelli. Era il suo momento. Attento a non scivolare sul selciato viscido, tagliò per i vicoli verso la statale. Aveva studiato gli orari. Il prossimo Acotral stava per passare. Raggiunse la pensilina deserta e scostò il lembo della giacca con cui aveva riparato Lella. Lei gli sorrise ancora, sebbene avesse il pannolino pieno e fossero trascorse più di due ore dall’ultima poppata. “Tu sei come me”, le sussurrò strofinando il naso contro il suo. “Lotti, se vale la pena lottare.” E lui aveva lottato, fino alla fine, fino alle estreme conseguenze. Era successo a pochi metri dalla fermata. Era sera, Lella piangeva affamata, ma Letizia non aveva intenzione di rinunciare all’aperitivo al bar. Non aveva mai avuto intenzione di rinunciare a ciò che riteneva le fosse dovuto.
“E tu vieni con me”, aveva detto. “A Lella ci pensa mia madre, prima comincia meglio è.”
Checco l’aveva seguita, più per convincerla che per altro.
“Senti, io ci ho pensato. Potrei chiedere un part-time. Tu torni a fare la commessa per qualche ora, almeno fino a quando non ha un paio d’anni. Poi la portiamo al nido.”
Lella si era fermata sul ciglio della statale e si era girata a guardarlo.
“Un giorno mi ringrazierai. Fammi accendere.”
Checco aveva estratto l’accendino, gli occhi offuscati dalle lacrime. Lella gli mancava già. Come poteva solo pensare di rinunciare a lei per sempre? Due grossi fari si accesero alle spalle di Letizia. Un camion, uno dei tanti che percorrevano veloci la statale.
“Mi dispiace”, aveva mormorato prima di darle una spinta. Lo sfiato stridente dei freni del camion non era stato diverso da quello dell’autobus che apriva le porte per farlo salire. Si sistemò in fondo, Lella stretta tra le braccia e lo sguardo rivolto indietro al rincorrersi della mezzeria e poi più su, fino alle punte dei cipressi del cimitero, fino a Letizia. Senza un motivo gli fiorì in mente il giro di do di “Buonanotte fiorellino” e cominciò a cantarla sottovoce, cullando Lella. Era stato suonando quella canzone che aveva attirato lo sguardo di Letizia. Era così che era cominciata la loro storia. Era da quelle parole che era germogliato il seme di sua figlia. Il pensiero lo accompagnò fino alla stazione Anagnina e poi giù, nel tunnel della metropolitana. “Torniamo a casa”, disse alla piccola ormai addormentata sullo sferragliare del vagone. Mancava un mese a Natale e alla fermata Giulio Agricola si affollavano gli ambulanti. Qualcuno, sulle scale che guidavano all’esterno, suonava “Buonanotte fiorellino”. Le note lo raggiunsero insieme all’odore freddo e umido della pioggia che lo aspettava all’uscita della metro.
Lauraetlory


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