giovedì 24 maggio 2012

I miei articoli per "La Sesia": Vite da trincea


Ciò che colpisce nella tragedia sono le storie minime. Spesso la tragedia è troppo grande, troppo distante, troppo imprevedibile o indecifrabile per toccarci veramente. Siamo assuefatti alla morte, purché distante, estranea, reiterata. Le stragi del sabato sera, le morti sui posti di lavoro, l’infinito rosario di attentati in medio Oriente, sciagure aeree o marittime. Sono titoli su un giornale, sono lanci di un notiziario. Sono, sempre più spesso, immagini tremolanti girate con un cellulare da un reporter improvvisato. E tutto resta in superficie fino a quando non si scoperchiano i particolari, le coincidenze, le fatalità. Quello appena trascorso è stato un weekend di sangue per il nostro paese. In un sabato da corsa in spiaggia per la prima tintarella, ci siamo svegliati con la notizia di un attentato. Un attentato a una scuola. Una scuola intitolata a Francesca Morvillo Falcone. Una scuola premiata per l’impegno civile contro la criminalità organizzata. Ma pur sempre una scuola. Un istituto tecnico frequentato per lo più da ragazze. Ci dicono che Brindisi è zona di mafia, la Sacra Corona Unita. Ci dicono che stavano per arrivare don Luigi Ciotti e la marcia per la legalità. Ma la nebbia dei perché non si disperde mentre i notiziari ci ripropongono l’asfalto annerito dal fuoco e chiazzato di quaderni, libri, zainetti. Neanche il tempo di riflettere e un nuovo risveglio di sangue saluta una domenica grigia: una scossa di terremoto, devastante come quella dell’Aquila. Sesto grado della scala Richter in un punto dove non te lo aspetteresti: piena pianura padana, tra Modena e Ferrara. Asfalto sfregiato, muri crollati, palazzi sventrati, chiese e castelli millenari sbriciolati. Immagini purtroppo consuete. L’Aquila è lì, ancora infranta a ricordarci il dramma a tre anni dalla scossa. Una tragedia dietro l’altra in un periodo in cui neanche la disinformazione di certi notiziari giovanilisti riesce più a convincerci che passerà, che andrà meglio. Potremmo dirci assuefatti, indifferenti se a squarciare il velo non arrivassero le storie minori. Le persone. Melissa aveva 16 anni e delle belle foto sul profilo Facebook. Era una pendolare e le toccavano levatacce per arrivare a scuola in orario. Anzi, in anticipo. Come in anticipo sono esplose quelle tre bombole di gpl. Melissa e la sua amica Veronica investite in pieno. Melissa morta, Veronica devastata. Mentre andavano a scuola. Invece Nicola e Tarik erano a lavoro. Nicola aveva 35 anni e sostituiva un collega malato. Tarik ne aveva 27 e preparava i documenti per portare la famiglia in Italia. Due aziende diverse, stesso turno di notte. La scossa li ha sorpresi nei capannoni, ha accartocciato le strutture. Li ha uccisi. Storie minime come ne abbiamo sentite tante. Persone normali, con vite normali. È questo a colpire. Forte. Perché un qualsiasi weekend può trasformarsi in una prima linea e una qualsiasi vita può diventare morte. Come in trincea.

Laura Costantini

mercoledì 23 maggio 2012

Un racconto di Lory: Mèla


Questo è il 201esimo post di un blog che continuiamo a considerare "nuovo". Il vecchio Lauraetlory si è inabissato insieme al naufragio di Splinder. Non abbiamo voluto salvarlo, perché i blog sono così, materia viva che si alimenta di momenti. Nell'epoca di Facebook e Twitter un blog è una creatura fragile, introversa, schiva. Va curato, un blog. E noi lo curiamo così, con parole che scaturiscono dal cuore e immagini che si nutrono di suggestioni. Buona lettura.

Prima di uscire a giocare deve rassettare la cucina Mèla.
La mamma glielo ha ripetuto all’infinito prima di mettere il fazzoletto intorno al viso ancora bello per scendere nei campi a strappare le erbacce. La sua schiena si sta curvando ogni giorno di più e Mèla la sente di notte che si lamenta mentre si rigira nel letto e fa scricchiolare il materasso pieno di foglie secche.

Pompa l’acqua alla fontana Mèla.
Il sudore le imperla la fronte, le scende sul naso e un guizzo di lingua lo raccoglie. Sa di sale. Come il pizzo delle lenzuola lasciate ad asciugare al vento. Da quando la mamma le ha messo il peperoncino sul pollice non lo succhia più. Ma la notte, quando fuori il buio è fitto fitto, quando dalle montagne arriva il sibilo del vento tra le cime degli alberi a vorticare coi suoni che giungono dalla spiaggia. In quelle notti, quando la voce di suo padre che la rasserena le manca come l’aria quando si tuffa con Tano in cerca di conchiglie. In quelle notti Mèla non resiste all’impulso. Attorciglia il pizzo del lenzuolo e lo infila in bocca. E succhia, succhia come se da quel tessuto intriso del suo odore e del suo calore potesse trarre la forza di resistere alla paura.

Il secchio è pieno,
Mèla se lo issa sul capo, come le ha insegnato la nonna. Trotterella verso casa attenta a non versarne neanche una goccia. L’acqua è vita, le dice sempre il nonno. L’acqua è speranza, gli fa eco la nonna facendosi il segno della croce. Ma il pozzo è quasi asciutto ormai. Come gli occhi della mamma a forza di bagnare il cuscino di lacrime. Mèla la sente, notte dopo notte, soffocare i singhiozzi nel lino, chiedere alla Madonna di farlo tornare, di far tornare il suo Tonio. Ché la campagna non è più la stessa da quando  se n’è partito.
E pure il sole è cambiato. Non è lo stesso che le accecava gli occhi mentre gli correva incontro quando tornava dai campi. Ricorda le braccia forti di suo padre Mèla. Qualche volta, nei sogni, lui torna a sollevarla e a vorticarla nel vento come un aeroplano. E lei comincia a ridere, incapace di fermarsi. Ride fino a svegliarsi. Ride fino a quando la luce del giorno che entra dalla finestra non dissolve il viso che le è tanto caro.

Mesce l’acqua nel catino Mèla.
Poi comincia a grattare dai piatti sbeccati quel che resta del pasto. In bocca ha ancora il sapore del pomodoro maturo e degli acini di uva nera in cui ha inzuppato il pane. Le piace l’uva, l’uva è ricchezza, è vino, è il sangue di Gesù. L’ha detto Don Carlo carezzandole i riccioli neri con le sue dita lunghe dalle unghie pulite. Don Carlo con la testa sempre china sulle pagine del messale a ripetere le sue parole di chiesa.

Getta l’acqua nel solco Mèla.
Ne segue lo scorrere verso l’orto, lì dove i pomodori offrono il viso al sole. Presto sarà tempo di raccoglierli per preparare le bottiglie da far bollire nel pentolone. A suo padre piace il ragù, lo vuole in tavola tutti i giorni di festa. E Annuccia, sua madre, lo mette sul fuoco ogni domenica.

Si asciuga le mani sul grembiule Mèla.
Poi conta i giorni sulla punta delle dita. Domenica è domani.
Lascia il secchio accanto al pozzo e corre in casa a preparare il vestito buono. Lo appoggia sulla spalliera della sedia, ne liscia le pieghe della gonna.
Sarà lunga la notte nell’attesa. E il lenzuolo sarà zuppo della sua saliva quando finalmente le campane annunceranno il giorno. Allora Mèla sciacquerà via il sonno nell’acqua del catino, indosserà il suo abito della festa e correrà a sedere gradino di casa.

Perché la domenica è il giorno delle cose buone. E sarà domenica quando suo padre tornerà.

Tonio raccontava di prugne succose imbiancate di zucchero che rilucevano sotto i raggi come pomi d’oro. Raccontava di grappoli d’uva dal succo rosso sangue e di fiori di mandorlo a vista d’occhio.
Se qualcuno le avesse chiesto com’era la sua terra Mèla avrebbe risposto gialla e rossa e ocra e blu come il mare. Quel mare in cui si è bagnata in un tempo troppo lontano perché possa ricordare.


Loredana Falcone

lunedì 21 maggio 2012

Lory ha letto "Il metodo del coccodrillo" di Maurizio De Giovanni


C’è un errore che non dovete fare leggendo il nuovo romanzo di Maurizio De Giovanni: pensare al commissario Ricciardi. Questo vi impedirebbe a) di interagire con l’ispettore Giuseppe Lojacono, protagonista de “Il metodo del coccodrillo” , b) di gustare a pieno lo snodarsi di una vicenda che, sebbene ambientata ai giorni nostri, ha il gusto e il sapore delle storie vere, quelle che caratterizzano la prosa del nostro Maurizio. Se la scientifica resta ai margini delle indagini dell’ispettore Lojacono e del magistrato Laura Piras non è un caso. Qui non siamo davanti a una spy story, a un giallo dai risvolti politici o a un thriller psicologico. Qui siamo davanti a una tragedia umana i cui risvolti ci trascinano nostro malgrado nelle vite dei protagonisti. Ancora una volta ad armare la mano dell’uomo è l’amore, quell’amore che intorbida i sogni di un padre che non vede e non sente sua figlia da troppo tempo. Quell’amore che spinge una madre a rinunciare a se stessa per un figlio che non comprende il suo sacrificio. Perché i temi cari a Maurizio, i sentimenti, vedono protagonisti gli uomini non i fatti. Quelli, sebbene splendidamente narrati, fanno da contorno, si intrecciano e si dipanano in un gioco di chiaroscuri che mette in mostra la grandezza dello scrittore. Perché Maurizio è uno scrittore in purezza, senza artifizi, senza costruzioni fantasmagoriche. Le storie scivolano via dalle sue dita con la semplicità con cui l’acqua sgorga dalla sorgente e a noi non resta che unire le mani a coppa per estinguere la sete. Lojacono non è Ricciardi, Laura Piras non è Livia e Letizia non è Enrica, la Napoli di oggi non è quella degli anni ’30. Ma la grandezza e le piccolezze degli uomini sono le stesse. E a coloro che  potrebbero rimpiangere Luigi Alfredo io dico solo aspettate, date a Peppuccio il tempo che occorre e allora entrerà nei vostri cuori.  Non per scalzare Ricciardi ma per fermarsi accanto a lui a ricordarci che dove c’è il male c’è, sempre anche il bene.
Lory

domenica 20 maggio 2012

Soggettiva di ZG: La seconda mezzanotte, di Antonio Scurati

"L'odio razziale non si nutre di disprezzo ma d'inconfessabile venerazione [...] La ferocia sterminatrice è invece sintomo inequivocabile di un complesso d'inferiorità [...] C'è bisogno di una collezione di perfezioni per scatenare stragi a cuor leggero. Un istante prima sono superumani, un istante dopo subumani. L'importante è che non si adagino mai sulla linea di galleggiamento di una possibile parentela con la gente comune."


Questo brano è la parte migliore, il reale significato di questo romanzo di Scurati. Poche righe a fronte di 343 pagine di compiaciuta e barocca estetica del decadimento. Siamo dalle parti della distopia, quella cupa alla Cormac McCarthy ma in chiave nostrana. Anno 2090, circa. Venezia è stata sommersa da un'onda. Il clima è mutato. A Natale il caldo si taglia col coltello, mentre tutti i giorni dell'anno sotto la cupola che custodisce Piazza San Marco a essere tagliati col coltello, massacrati, stuprati, sventrati, mutilati, squartati (potrei continuare ancora a lungo) sono gli sfortunati abitanti della città lagunare. Perché i cinesi (e poi dite che dovremmo sforzarci di capirli e integrarli) sono diventati i padroni di gran parte del mondo. O di ciò che ne resta. E mentre cinenotiziari mostrano a getto continuo le apocalissi in corso nei cinque continenti (o in ciò che ne resta, Scurati ci tiene a ricordarcelo), i veneziani superstiti si vendono, si prostituiscono, scendono nell'arena, si battono e muoiono per compiacere i nuovi padroni dalla pelle gialla e dalla crudeltà ottusa. Venezia, anzi, Nova Venezia, è un parco di divertimenti per turisti danarosi, annoiati, disperati. Il divertimento non è tale se non crea sofferenza. Le donne sono prede, i rapporti sessuali sono stupri mirati all'omicidio. I gladiatori sono morti che camminano. Il tempo è quello di un medioevo prossimo venturo. I cinesi sono crudeli, stupidi, con un enorme complesso di inferiorità che li spinge a continui interventi chirurgici per abolire le loro caratteristiche di razza. Ma, ci racconta Scurati, nonostante questo restano brutti, piccoli e cattivi. In compenso sono poco dotati sessualmente e quindi godono nel cedere le loro donne ai gladiatori che trionfano nell'arena. Bestioni che pesano tutti cento chili, Scurati è preciso in proposito, e che sono sessualmente proporzionati al peso. E anche questo è ben sottolineato. C'è un gladiatore ribelle, Spartaco (ça va sans dir). C'è un gladiatore capo, il Maestro, che tra uno stupro e l'altro concepisce una bambina. Non dovrebbe, ma si è espiantato l'anticoncezionale sottocutaneo. La piccola potrebbe rappresentare la rinascita del genere umano (occhio, fa un caldo della malora, ma siamo pur sempre dalle parti del 25 dicembre). Ma anche no. Il lieto fine sarebbe banale. Il finale aperto fa fico. E Scurati ci tiene ad apparire fico. Ogni singolo vocabolo, da ipospadico a infecondo prolasso addominale, mira a ricordarci che l'autore è fico, usa vocaboli fichi e ci degna, nella sua ficaggine, di promanare erudizione così come i corpi dei gladiatori promanano turgidi afrori. Penultima cosa: la descrizione di come è ridotta Venezia fa veramente male al cuore. Ultima cosa: ma tradurlo in cinese e vedere come la prendono, no?
ZG

giovedì 17 maggio 2012

Soggettiva di ZG: Da parte di padre di Marco Proietti Mancini

Questo romanzo è stato pubblicato, per ingenuità dell'autore, con una casa editrice che non voglio neanche nominare. Di solito di questo genere di pubblicazioni non parlo, per principio. Ma come ho avuto modo di dire in altri post, il male assoluto in editoria è altro. E' il market(t)ing imperante. Quindi voglio dare a Cesare quel che è di Cesare. E questo "Da parte di padre" è un bel libro.

Credo esista una scrittura buona e una scrittura professionale. Un lettore attento e non sviato da considerazioni personali o di interesse (tipo amico scrittore che può darti qualche dritta e quindi lo devi trattare bene a prescindere) se ne accorge subito. Quella dell'autore è una scrittura professionale. Mai, neanche per un istante si pensa all'esordiente. Mai si incappa in un'ingenuità di quelle che fanno sgamare il neofita. C'è qualche refuso, un gli riferito a una donna, ma son peccati veniali. Sa scrivere, Marco Proietti Mancini. E sa raccontare, che è ancora più importante. Ha quel talento affabulatorio che cattura l'attenzione del lettore e lo conduce dove vuole essere condotto. Raccontare è la parte più importante di questo mestiere (vogliamo chiamarlo così?). E' forse l'unica cosa che conta veramente (fatta salva la conoscenza professionale del mezzo, ovvero della lingua italiana). Ho amato la storia che ha raccontato, ho palpitato per le vicende dei suoi antenati. Mi sono incazzata per come venivano trattate le donne (quel passo di Antonia che non mangia a tavola con la famiglia ma in un angolo per poter scattare a riempire piatti e bicchieri dei maschi m'ha mandato il sangue al cervello, ma è storia, purtroppo). Mi sono inferocita con quello stronzo fascista di Bergamo e ho gioito quando lo hanno fottuto. Ho amato moltissimo Benedetto, l'ultimo Benedetto, lo scalpellino che approda a Roma. Che bel personaggio. Anche Bittuccio ha un grande spessore. E poi Menica, Nazareno. Non so se questo romanzo avrebbe trovato spazio nell'editoria vera, quella non a pagamento, ma il dubbio è dovuto solo a come vanno le cose oggi: troppo lungo, troppo slegato dalle mode del momento. Comunque da leggere.

martedì 15 maggio 2012

Oggi su "La Sesia": E a Roma si marcia contro la libertà di scegliere


Quello in cui viviamo è un mondo difficile da decifrare. Prendiamo la condizione della donna. Mentre in India un padre decide di seppellire viva la figlia di due anni per chiedere in cambio agli dei un maschio, negli Stati Uniti una donna ricopre una delle cariche politiche più importanti e influenti del mondo. Si chiama Hillary Clinton, dirige la politica estera di Obama, è praticamente l’unica donna ad avere una seria possibilità di entrare alla Casa Bianca. Avventato affiancarla a quella bimbetta che stava per essere sacrificata per un fratello non ancora nato? Eppure c’è un filo che le unisce. Perché il fatto che Hillary Clinton sia l’unica donna ad aver sfiorato la carica di presidente degli Stati Uniti la dice lunga sulla strada ancora da fare. Soprattutto alla luce dell’attacco del sito Drudgereport. Succede che qualche giorno fa, durante una visita in Bangladesh, Hillary si sia fatta fotografare senza trucco, con spessi occhiali da vista, carica di tutti i suoi 64 anni. Una colpa che a una donna, soprattutto se è una donna in vista, non si perdona. Va detto che l’attacco si è trasformato in un boomerang perché gli Stati Uniti, paese con un alto tasso di donne mature, hanno appoggiato senza riserve il segretario di stato quando si è detta felice di essere nella fase in cui: “se voglio portare gli occhiali, li porto. Se voglio tirare indietro i capelli, li tiro indietro”. Resta il fatto che una donna di 64 anni che non nasconde la propria età possa essere oggetto di critiche. Che una manager texana sia stata licenziata perché non voleva tingersi i capelli che cominciavano a incanutire. Che in Italia si dibatta sull’opportunità o meno del neologismo “femminicidio” a fronte di un bollettino di guerra che quasi ogni giorno ci racconta di una donna uccisa. E uccisa in quanto donna. Proprio come quella bimba indiana strappata piangente dalle braccia del padre che aveva appena finito di scavarle la fossa. L’uomo si è giustificato parlando di un rito tantrico, un sacrificio umano per ottenere la gioia di un figlio maschio. Perché le femmine valgono di meno. Lo pensavano anche i nove pachistani arrestati a Liverpool dopo aver violentato per anni 613 ragazze minorenni. Uno di loro si è rivolto al giudice affermando che in Pakistan non è reato accoppiarsi con una dodicenne. E nessuno si pone il problema se sia consenziente o meno. Altre culture? Sì, ma non caliamola dall’alto noi italiani, che solo da qualche decennio abbiamo abolito l’attenuante del delitto d’onore. Noi che le donne le vediamo cadere sotto i colpi di uomini frustrati. Noi che assistiamo indifferenti alla marcia di chi chiama omicidio l’aborto e assassine le donne che vi ricorrono. Noi che siamo costretti a difendere diritti acquisiti e sanciti con una legge dello stato, ma non riusciamo a impedire che un uomo continui a vedere la donna come una proprietà di cui disporre. Fino alle estreme conseguenze.

Laura Costantini

lunedì 14 maggio 2012

Francesco e Antonella: due giovani a confronto

Francesco non è un nome di fantasia. Antonella sì. Francesco, nel suo piccolo, è un personaggio pubblico. Classe 1992, ha quindi 20 anni e già da 5 si occupa di editoria. Ormai è difficile star dietro a tutte le volte che è stato intervistato da quando i media hanno scoperto che è l'editore più giovane d'Italia. L'ultima intervista in ordine di tempo la trovate QUI. Ed è da qui che voglio partire per una riflessione amara. I giovani sono bamboccioni, si dice. Se ne stanno comodi nel nido familiare, non si rimboccano le maniche. Poi arriva un esempio come Francesco: a 13 anni pubblica un libro come autore, a 15 fonda una rivista letteraria e una casa editrice, a 20 ha già un catalogo di oltre 50 titoli e un bel parterre di autori. Una storia da raccontare, un esempio? Macché. Sul sito del Corriere arrivano complimenti ma anche stroncature. Perché Francesco è figlio di due medici, perché è di sicuro un privilegiato, perché è un figlio di papà. Così, sulla fiducia. Senza conoscerlo. Ovvio che non posso sapere chi siano i detrattori, ma dai commenti si evince che, almeno uno/a, sia un giovane attanagliato dalla crisi. Che ha tutto il mio rispetto, perché capisco la rabbia, capisco la stanchezza. Capisco molte cose. Ma non il voler vedere nel successo degli altri sempre il privilegio, la raccomandazione, la pappa pronta. Eppure è lo sport nazionale italico. Fateci caso: mai una volta che si sia disposti di riconoscere agli altri dei meriti. Soprattutto se questi altri hanno raggiunto degli obiettivi. E' fin troppo facile trarne un sillogismo: se chi ha successo in realtà non se l'è meritato, io che successo non ce l'ho non ho colpe. Posso continuare a crogiolarmi nel mio bozzolo di lamentele e livore senza chiedermi se ho veramente fatto tutto il possibile che raggiungere i miei obiettivi. Posto di averli, gli obiettivi. E qui entra in ballo Antonella. Il nome è di fantasia, la persona esiste realmente. La signorina in questione ha una trentina d'anni, è laureata (una laurea breve) in ingegneria edile. E' figlia di due vigili urbani i quali le hanno trovato un posto di lavoro: segretaria in una ditta edile. Uno si aspetterebbe che la scelta sia dovuta a una volontà di crescita professionale. Tra una telefonata e un'e-mail magari Antonella spera di mettere a frutto gli studi fatti. Invece no. Antonella percepisce uno stipendio di circa mille euro al mese. In nero. Antonella sa che il suo datore di lavoro deve della riconoscenza ai suoi genitori, quindi è consapevole di trovarsi in un ventre di vacca. La sua giornata lavorativa è scandita dalle telefonate col moroso, dal manicure, dalla frequentazione di social network, di (rare) risposte alle frequenti telefonate che riguardano la ditta. I suoi orari sono regolati in base ai corsi di cucito, cucina, ricamo cui si è iscritta. Poi c'è la palestra, ça va sans dir, e la passione per il tennis. Antonella, da grande, vuol fare la maestra di tennis. E quando ci sono gare importanti in tv, non si presenta a lavoro per seguirle. Nessuno le fa notare la profonda disonestà di tutto questo. Eppure Antonella non è felice. Non lo è perché i suoi solleciti genitori non le hanno ancora trovato un contratto a tempo indeterminato nell'amministrazione pubblica. Lo faranno, sia chiaro. Ne hanno i mezzi. Ma per il momento le tocca andare a lavoro senza avere una targa col titolo di dottoressa sulla scrivania. E senza un contratto che le permetta di prendere tutti i permessi che vuole per andarsene a giocare a tennis. Antonella non legge libri, a malapena sfoglia riviste. Quindi la storia di Francesco bisogna proprio mettergliela sotto il naso. Scorre le righe, storce il naso e non concede spazio ai dubbi: capirai, editore a 20 anni. Quello è un raccomandato. Mica come me...

Laura

martedì 8 maggio 2012

Oggi su "La Sesia": Dissero no in 69



L’Unità d’Italia ha compiuto 151 anni. Numero meno importante di quello bello  tondo dello scorso anno. Ma è passato troppo poco tempo dal quel 17 marzo per non ricordare il coro di polemiche che ha accompagnato una ricorrenza che doveva unire e invece ha diviso. Da nord a sud è stato un coro di voci dissonanti, di distinguo, di ma e di però. Tutti a scoprire che Franceschi e Ferdinandi assortiti furono fulgidi esempi di sovrani illuminati che, se lasciati in pace da lestofanti quali Mazzini, Garibaldi e Cavour, avrebbero portato i rispettivi regni alla pace, alla prosperità, alla giustizia. Ci hanno informato che senza la spedizione dei Mille del mercenario Giuseppe Garibaldi, non sarebbe esistiti brigantaggio e mafia. E che quell’intrigante di Giuseppe Mazzini ha impedito che il Lombardo Veneto fosse oggi perfettamente bilingue, pulito e ordinato, con un PIL invidiabile e ben lungi da tangentopoli, calciopoli, affittopoli e Milano da bere assortite. Ovviamente questo accadeva prima che si scoprisse che quelli che gridavano contro l’Italia unita e contro Roma ladrona erano i primi ad attingere a piene mani nelle sempre più povere tasche degli italiani. Ma questa è un’altra storia. Perché succede che un bel giorno di inizio maggio vi ritroviate in una Venezia congestionata di turisti. La fila per ammirare il profluvio di ori dei mosaici di San Marco è disarmante. Così vi infilate tra i tesori senza tempo del Palazzo Ducale. Un’ora e mezza a testa in su, mettendo a dura prova la cervicale. È la potenza della Serenissima che vi si dispiega davanti. Una teoria infinita di ritratti di dogi. Uomini che presero una piccola città su palafitte e la portarono a dominare il mondo. Se non con il potere militare, col commercio, con la cultura, con la bellezza. E mentre vi si dispiegano davanti le pennellate immortali del Tiepolo, del Tintoretto, di Tiziano, potrebbe sorgervi il dubbio che tutte quelle voci contro l’Italia unita non fossero nel torto. Dov’è finita quella sapienza. Che ne è stato di quella maestria. La potenza che rese possibile realizzare il miracolo della Sala del Maggior Consiglio, 54 metri di lunghezza per 25 di larghezza per quasi 16 di altezza senza neanche una colonna a sostenerne l’immane soffitto, dov’è oggi? E quando il dubbio sembra prendere piede, in un corridoio tutto sommato anonimo alzate gli occhi e la vedete. È una lapide di marmo scuro con lettere dorate. Lettere e numeri. Dice che votarono sì 641.758 veneziani, 273 si astennero, solo 69 dissero no. Era l’ottobre 1866 e Venezia poteva finalmente esprimere il proprio voto. C’erano volute guerre, c’erano voluti morti, c’erano voluti eroi. Ma alla domanda se volevano far parte dell’Italia unita gridarono un sì che echeggia ancora. Lì, sotto gli occhi di tutti, nel centro stesso della Serenissima. Nella culla di coloro che dileggiarono il Tricolore affisso alla finestra dalla veneziana Lucia Massarotto.

Laura Costantini

lunedì 7 maggio 2012

Venezia non è una città, è un luogo dell'anima

Dicono sia stato un plenilunio speciale. Concordo. Forse perché io me lo son goduto in quel di Venezia. Non so se sia stata la luna piena a risucchiare la laguna in piazza San Marco. Forse. O forse è stato il vento di scirocco. Resta il fatto che l'immagine qui accanto è quella che mi è presentata venerdì sera. Un velo d'acqua scintillante disteso sul selciato a riflettere luci, palazzi, suggestioni. Venezia è questo e molto di più. Condivide con Roma la magia di un luogo dove ogni singola pietra sussurra storie. E ad ascoltarle tutte c'è di che impazzire. Non so se qualcuna di quelle storie che mi sussurrano nell'orecchio vedrà la luce. Ma ci sono immagini che scorrono nella mia mente. Alcune reali e altre solo immaginate. Qualcuno che corre nelle calli strette e claustrofobiche cercando una via di fuga impossibile. Perché alla fine della corsa in quei cunicoli che all'improvviso si aprono sui canali, perché allo scalpiccio di passi terrorizzati tra l'infinita teoria di ponti, di finestre chiuse, di giardini segreti dietro cancelli antichi, è impossibile sfuggire allo spirito di Venezia: una sagoma oscura, un mantello color sangue, una maschera bianca, una mano diafana e su tutto le ombre proiettate dalla luna. Che anima facciate, che risveglia ricordi, che scintilla sui marmi e sull'acqua. Venezia non è una città. E' un luogo dell'anima.

giovedì 3 maggio 2012

I miei articoli per "La Sesia": Se il danno è irreparabile


Dobbiamo rassegnarci. Il messaggio è passato. L’idea che essere visibili e riconoscibili conti molto più dell’aver eventualmente qualcosa da dire e da offrire è ormai patrimonio comune. Lo si tocca con mano, è sotto i nostri occhi quotidianamente. Ma assume una consistenza drammatica quando lo leggi nello sguardo imbambolato di un quattordicenne in un ventoso 25 aprile romano. Siamo a ponte Milvio, tra incrostazioni di lucchetti innamorati di Moccia e quel tempo sospeso del pomeriggio festivo. È la festa della Liberazione, ma potrebbe essere una domenica qualsiasi. Anzi, una domenica di altri tempi, con le partite alla radio. Nel catino poco distante dell’Olimpico la Roma sta per prendere una batosta dalla Fiorentina e il personaggio che dobbiamo intervistare avrebbe di gran lunga preferito restarsene a casa a seguire la partita. Ma è la tv, bellezza. E alla tv non si dice mai di no. Così questa pin up del terzo millennio, bocca rinforzata di filler e una bombastica quarta di reggiseno, ci raggiunge sullo storico ponte. Ammettiamolo: è bella, lo sarebbe anche senza quel popò di davanzale che la precede. Ammettiamolo: è simpatica, come solo i coatti romani sanno esserlo con quel mix di sguaiataggine e aggressiva timidezza. Ammettiamolo: non è affatto stupida, come non lo è la maggior parte delle bellezze plastificate che approdano sul piccolo schermo in cerca di gloria. Lei sa di essere fortunata. Sa che da un momento all’altro i riflettori che ben due reality show le hanno acceso addosso si possono spegnere. Si sforza di restare con i piedi piantati nelle zeppe tacco 12 mentre risponde e dice che sì, la bellezza e la quarta di reggiseno contano. Ma solo per entrare nel dorato mondo dello spettacolo. Poi, certo, non basteranno. Perché lei ha 26 anni e già ha capito che ci sarà presto una più bella, più plastificata e più giovane di lei. Però, insiste, lei ha carisma. Lei è simpatica, spigliata, ha la battuta pronta. Ammette senza remore che “studia” da Sabrina Ferilli e in effetti le somiglia un po’. Ma guarda anche ad Anna Magnani e a Luciana Littizzetto. Due esempi lampanti che la bellezza non è tutto, sottolinea. Un discorso che non fa una piega mentre confessa il sogno di condurre un programma tutto suo o di recitare in una fiction. Mai, neanche una volta, cita il talento. Mai, neanche una volta, azzarda un corso di dizione o recitazione. Intanto la gente la circonda. Le chiedono di posare per una foto, gli autografi ormai son passati di moda. Extracomunitari timidi e ragazzine cinguettanti la immortalano con gli smartphone. Poi arriva lui, 14 anni, la sigaretta in bocca. “Sei la migliore”, le dice adorante. “Io voglio essere come te, voglio fare il Grande Fratello”. Lei scuote la testa: “Lascia perdere”, dice e noi cominciamo a sperare che stia per parlare di studio, di formazione. Di talento. “Meglio l’Isola dei famosi”, conclude. Fine delle speranze.

Laura Costantini

mercoledì 2 maggio 2012

Soggettiva di ZG: Hunter Games di Suzanne Collins

La mia fortuna è che ho una nipote 18enne, appassionata di lettura e con gusti molto simili ai miei (non so se questo sia un complimento, e per quale delle due, ma sorvoliamo). Così succede che un giorno mi mette in mano questo libro e con i modi spicci che la contraddistinguono mi dice: Zia, leggilo. Punto. E io obbedisco perché è già capitato che mi abbia consigliato qualcosa e non mi ha mai deluso (è vero anche il contrario, ma questo ve lo deve dire lei). E veniamo al libro. Quando una persona appassionata di lettura è anche una persona che scrive, accade che il suo modo di approcciare un libro sia duplice, direi quasi schizofrenico. Se poi quella persona lavora anche in televisione e l'autrice del libro da leggere è una famosa autrice televisiva, allora le chiavi di lettura sono almeno tre. Vi siete persi? No, dai, abbiate fede. Cominciamo dalla lettrice pura, quella che apre la prima pagina, legge le prime righe, sospende l'incredulità e si tuffa senza rete in un mondo post-apocalittico dove i reality son giunti alla loro versione ultima. Quella che Stephen King, da genio qual è, seppe precorrere quando un reality show non era ancora neanche nelle menti degli autori Endemol. Dodici distretti sconfitti dopo una sanguinosa repressione e costretti, tutti gli anni, a fornire 2 concorrenti ciascuno per gli Hunger Games, i giochi della fame. Ne resterà solo uno, come direbbe Highlander/Lambert, ma tutti gli altri non finiranno sulla copertina di rotocalchi a raccontare come hanno vissuto nella casa. Tutti gli altri moriranno. La cosa è crudele, ancor più se si pensa che sono tutti ragazzi e ragazze di età compresa tra i 12 e i 18 anni. Panem (che sarebbe ciò che resta degli Stati Uniti) seguirà per settimane il loro destino. Li vedrà soffrire, morire, ma anche improvvisare strategie e cercare di guadagnarsi visibilità e quindi sponsor. E qui subentra, nella sottoscritta lettrice, la persona che lavora in televisione e che questi meccanismi li conosce bene. La Collins ci svela il dietro le quinte del Grande Fratello, dell'Isola dei Famosi. I consigli autorali, il lavoro dei look-makers, l'importanza di colpire il pubblico laddove vuole essere colpito. Protagonista assoluta, convincente e riuscitissima è Katniss. Ha 16 anni e ci racconta tutto in prima persona, in presa diretta, verrebbe da dire, con brevi flashback che non spezzano mai il ritmo. Il lavoro dei due traduttori non deve essere stato facile, ma non si percepiscono sforzi nel rendere l'animo ribelle di questa adolescente... Adolescente? E qui subentra la scrittrice che, mentre la lettrice arrivava a commuoversi per alcuni passaggi molto riusciti, sgamava subito il gioco della Collins. Che poi non è diverso dal gioco della Meyer. Perché Katniss è bellissima, anche se non lo sa, ed è amata da due ragazzi: Gale, che con lei condivide la fatica quotidiana di cacciare per non morire di fame, e Peeta, che con lei si trova a condividere gli Hunger Games.  La ama, ma potrebbe essere costretto a ucciderla. O forse ad esserne ucciso. Non vi svelo nulla, ma il gioco della bella con il cuore in altalena tra due possibili amori è la chiave giusta per invogliare il lettore a leggere gli altri due libri. Già, perché anche questa è una trilogia. E se anche alla scrittrice il giochetto dell'attesa, dei capitoli come puntate televisive bloccate sul più bello e del meccanismo narrativo appare visibilissimo, la lettrice c'è cascata con tutte le scarpe. Leggerò gli altri due e questo, secondo me, è indice di un romanzo che emoziona, resta dentro, si ricorda.


ZG