venerdì 26 novembre 2010

E adesso tocca a Mara Carfagna

La macchina del fango si è rimessa in moto. Quella che Saviano denuncia. Quella che Belpietro, Sallusti e Feltri, abili timonieri, negano. Quella che Boffo, ex direttore dell’Avvenire, conosce fin troppo bene. Mara Carfagna, ministro delle pari opportunità in odore di dimissioni, deve averla messa in conto. Si spera. Perché neanche lei, con quel suo sguardo sbigottito sul mondo, può aver pensato di passare indenne nella trincea degli infangatori di professione. Speriamo abbia indossato vecchi pantaloni e scarponi pesanti. Speriamo abbia una tempra più robusta di quel suo aspetto da danzatrice classica calata per sbaglio in austeri tailleur. Perché i titoli son tutti per lei, adesso. E non importa sia stata un ministro inaspettatamente efficace. Non importa abbia abbandonato i pregiudizi che la spinsero, nel 2007, a condannare l’omosessualità con parole degne di un vecchio cardinale. Né che si sia fatta promotrice di una legge contro lo stalking, sanando un colpevole ritardo. I titoli sono tutti per lei. Perché non si dichiara impunemente di volersi dimettere da ministro, dal partito e dal parlamento quando si è parte integrante dell’autodefinito partito dell’amore. Perché non si accusa impunemente il popolo del premier di essere in preda a una guerra tra bande. La macchina del fango l’aspettava al varco, pronta a vincere facile. Mara Carfagna è “stata la prima a fare pubblicamente arrabbia­re Veronica Lario per le galanterie che le riserva­va il cavalier Silvio Berlu­sconi”, dichiara Il Giornale dandole della “battistrada”. Libero fa di più, molla gli ormeggi della decenza e si gioca un doppio senso servito su un piatto d’argento sul cognome del portavoce di Fini, amico personale della Carfagna: “Mara e il fascino del Bocchino, spiegatele che non è quello che crede”. L’articolista del Giornale rilancia: “Non è la prima donna che prossima alle nozze - fissate in prima­vera con l’immobiliarista Marco Mezzaroma - coltivi in contempora­nea un’amicizia con un collega di la­voro. Nessuno dubita infatti che die­tro le fibrillazioni di Mara ci sia lo zampino fascinoso di Italo Bocchi­no, il pasdaran finiano.” Ammettiamolo: è difficile aver simpatia per la Carfagna, non foss’altro per quel suo essere il tipo di donna in politica preferito dal premier: bella, giovane, inesperta, succube del fascino del capo. Eppure è la prima a sottrarsi al controllo del seduttore massimo e nessuno se lo sarebbe aspettato. Non dalla ragazzetta campana che nel 1997 partecipò a Miss Italia, colse una fascia da Miss Cinema e debuttò subito a “Domenica In”, al fianco di Fabrizio Frizzi. Era l’anno della clamorosa separazione di Frizzi da Rita Dalla Chiesa e gli indici accusatori si appuntarono sulla fresca bellezza della Carfagna. Fu allora che la conoscemmo. Ci spalancò in faccia lo stesso sguardo sbigottito che le conosciamo e negò. Nessuno era disposto a crederle. Invece era sincera. E se lo fosse anche oggi?
Laura Costantini

martedì 23 novembre 2010

I miei articoli per "La Sesia": la cicala Califano e le formichine italiane

Franco Califano come Gavino Ledda, Alda Merini, Dario Bellezza, Umberto Bindi e Joe Sentieri. Un elenco di nomi che potrebbe dirvi poco ma che rappresenta solo una parte di coloro che hanno beneficiato della legge n. 440 dell’8 agosto 1985. Meglio nota come Legge Bacchelli, venne istituita per soccorrere lo scrittore Riccardo Bacchelli, famoso per il monumentale romanzo “Il mulino del Po”, e prevede l'assegnazione di un vitalizio a tutti coloro che, nel corso della carriera si siano distinti nella cultura, nell'arte, nello spettacolo e nello sport, ma che versino in condizioni d'indigenza. Proprio quelle condizioni di indigenza denunciate in questi ultimi giorni da Franco Califano, classe 1938 e una vita sregolata che gli ha fruttato il titolo di Califfo. Uno che ha cambiato più donne che camicie. Uno che vanta una citazione nella serie televisiva “Romanzo criminale”, una laurea honoris causa in filosofia dall’Università di New York, una nutrita serie di imitazioni e varie autobiografie con obiettivo puntato sulle proprie performances sessuali. Uno che percepisce una rendita annua di 20 mila euro di diritti da canzoni come “Minuetto”, “La nevicata del ‘56” e “Tutto il resto è noia”. È stato lui stesso a dichiararlo chiamando i media a testimoni della propria situazione. Ma questa cifra, l’equivalente dello stipendio medio di un impiegato, al Califfo non è sufficiente. Come la cicala della favola di Esopo, ha vissuto una vita puntata al presente, sperperando tra donne, grandi alberghi, auto di lusso e frequentazioni non sempre irreprensibili miliardi di vecchie lire. Oggi, anziano e reduce da una caduta dalle scale che gli impedisce di esibirsi nelle piazze, vive in una villa nei pressi di Roma il cui canone di affitto gli è diventato insostenibile al punto da sospenderne il pagamento da mesi. E il ministro per i Beni culturali, Sandro Bondi, si è immediatamente attivato per fargli ottenere il vitalizio previsto dalla Bacchelli, auspice il senatore Gramazio, amico personale del Califfo. Una lunga premessa per arrivare al nocciolo della questione: è giusto? Il vitalizio della Bacchelli prevede un assegno annuo di 24 mila euro. Cifra che molte famiglie si fanno bastare in 3 se non 4 persone. Cifra che molti giovani precari possono solo sognare. Cifra che, per Califano, andrebbe ad aggiungersi a quei 20 mila euro di diritti che lui ritiene insufficienti. Mentre il solerte ministro si attiva, è lo stesso Califfo a fare dietrofront e a smentirsi. Non avrebbe chiesto soldi, ma una “capanna dove poter tornare la sera”. Una casa popolare, come quelle che migliaia di famiglie aspettano invano per anni. E a lui, che è stato definito poeta, verrebbe da ricordare un vecchio adagio romano: “pazienza vita mia se paghi pena, vale pe’ quanno hai fatto vita bona”. Se “tutto il resto è noia” è stato il suo motto, dovrebbe quantomeno essergli coerente, oggi che il resto presenta il conto.

Laura Costantini

domenica 21 novembre 2010

C'è Lory, la mia metà oscura, in questo post: "E' NOTTE"

E’ notte.
C’è aria di mare fuori, aria di mare in questo cielo nero di novembre che solo quando è notte ti consola dal pensiero di tutto il peso che ti porti dentro. Deve essere per via della pioggia che è caduta tutto il giorno, monotona sinfonia che incanta come le note di un carillon.
E’ notte, ed è freddo e il fiato si condensa alla luce dei lampioni e ti sembra che un po’ della tua vita va via, insieme a quel fiato che è tutto ciò che sei.
E’ notte e i pensieri si aggrappano alle scale della mente e premono per venire fuori e si accavallano uno sull’altro, si calpestano che ti sembra di sentirne il lamento.
E’ notte di novembre e l’aria gelida ti pizzica il naso e ti costringe a mettere le mani nelle tasche, in quelle tasche vuote in cui ti affanni a cercare te stessa, ciò che sei stata, ciò che sei, ciò che, forse, non vorresti mai diventare.
E’ notte e intorno a te il silenzio è come una coperta che ti avvolge, che ti protegge dal famelico brusio degli altri, quelli che ti dicono che tutto è perfetto, che la Terra gira intorno al sole, che la marea sale e scende lambendo coste e spiagge che non saranno mai tue, che la tempesta passerà e il vento tornerà nella giara e le ferite che ti ha scavato sul viso si rimargineranno.
E’ notte e le tue gambe sono stanche e invece tu vorresti camminare, vorresti correre per lasciar dietro l’angoscia insieme ai giorni persi, i giorni in cui pensavi che una carezza spazzasse via la solitudine e quella mano, stretta nella tua, era ancora illusione.
E’ notte e sei sola sulla strada che si allunga davanti a te luccicante di umido e di terra. Dall’alto qualche goccia di pioggia lascia il ruvido riparo di un ramo e ti cade sul viso mischiandosi a lacrime silenziose. Ma stavolta col pianto non se ne andrà il dolore. Quello resterà dentro a macerare coi se e coi ma.
E’ notte e tra le nuvole in corsa si affaccia una gravida luna a illuminarti sul viso la consapevolezza che gli errori non si possono dividere con nessuno, le illusioni forse, ma gli errori no. E allora pensi, perché se è notte ed è freddo, e il fiato si condensa sulla via i pensieri vengono fuori puliti, allora pensi che ti basterebbe una voce. E infili le mani in quelle tasche vuote e trovi il cellulare che tante, troppe volte, avresti gettato via per impedirgli di rubarti l’attimo.
E’ notte e la notte dilata il tempo e quegli squilli sembrano allungarsi nell’eternità come le stelle che ti regala questa periferia dove alle cinque, di novembre, è notte.
E tu stai lì, sul ciglio della strada, nemmeno una macchina a illuminarti il cammino. Tu stai lì, più sola di un astronauta alla deriva nello spazio, quando la voce arriva. Poche parole, nessuna filosofia, solo la grande consolazione di un - c’è - .
L’amicizia è più grande, di notte.

Lory

venerdì 19 novembre 2010

Io volevo essere Sandokan

Sono sempre stata una bambina anomala. Mentre le mie coetanee (parliamo di scuola elementare) leggevano a malapena il sussidiario o, al massimo, "Topolino", io mi appassionavo all'intera saga di Tarzan delle Scimmie di Edgar Rice Burroghs. E proseguendo nelle letture da maschio (cosi' venivano considerate all'epoca) scoprivo Jules Verne. Sono stata tarda nell'arrivare a Emilio Salgari, ma basto' il mitico sceneggiato televisivo firmato da Sergio Sollima, perche' mi buttassi a pesce sull'opera omnia di quello che rimane uno dei miei autori preferiti. E qui arriviamo alla vera stranezza. Inebetita dalla bellezza di Kabir Bedi (per me Sandokan e il Corsaro Nero hanno e avranno per sempre la sua faccia), non ho mai sognato di essere la bella di turno (Marianna alias Perla di Labuan oppure Honorata van Gould). Io volevo essere LUI. Volevo il ruolo dell'eroe, di quello che lotta, soffre, sfida, viene ferito, rischia la pelle, arringa la ciurma, si mette al timone durante la tempesta, piange calde lacrime quando perde l'amore della sua vita, ma risorge dalle sue ceneri in nome di ideali piu' grandi. All'epoca non mi rendevo conto della stranezza di queste sensazioni. Poi ho cominciato a elaborare, attraverso romanzi e film, che in realta' il maschio e' quello che si diverte di piu'. Quello che parte per la guerra o verso nuovi orizzonti e lascia lei a casa, a salutarlo col fazzolettone e a tessere, ricamare, sferruzzare sospirando in attesa che l'eroe ritorni. E se poi l'eroe non ritorna, lei piange, si dispera, a volte si suicida, si veste comunque a lutto e vive nel ricordo imperituro. Ora, senza nulla togliere al valore dei sentimenti (sono una romanticona), potrete convenire con me che essere Sandokan, la Tigre della Malesia, destinato a contrastare validamente il bieco invasore inglese sia decisamente piu' appagante che non vestire i panni della languida Marianna, la Perla di Labuan, modernissima nel mollare tutto per seguire il proprio uomo (lei bianca e nobile, lui un delinquente, seppur di nobili origini) ma comunque destinata a cuocergli il riso, lavargli le casacche e, all'uopo, morire di tragica morte per lasciarlo libero di puntare verso nuove ed entusiasmanti avventure a fianco del fido Yanez.
Con questo non voglio dire che Salgari sia stato un maschilista, anzi. Per l'epoca fu moderno e spregiudicato al punto di immaginare eroine avventurose come Jolanda (la figlia del Corsaro Nero) o la Favorita del Mahdi. Ma le figure femminili in letteratura hanno risentito da sempre della classica divisione dei ruoli: la donna a casa, l'uomo fuori a caccia, alla guerra, a farsi gli affari suoi. Facendo un volo pindarico, segnalo una fiction Rai appena terminata: "Ho sposato uno sbirro 2". Flavio Insinna e' un vice questore aggiunto a Roma, Christiane Filangieri e' sua moglie, un'ispettrice di polizia. La serie ha affrontato, in toni da commedia ma efficacemente, il problema di una donna poliziotto, madre di due gemelle e moglie del proprio capo, che pretende di svolgere il proprio lavoro esattamente come fa lui, cioe' correndo i propri rischi. Cosa che ovviamente mette in crisi nera la coppia. Nella fiction, com'e' giusto, tutto si risolve. Ma nella realta' non e' cosi' e io continuo a sentirmi una strana perche', a distanza di anni, continuo a preferire essere Sandokan.

domenica 14 novembre 2010

Per ricordarvi che...

Il mio romanzo inedito LA LUNGA GUERRA si sta avviando a conclusione sul nostro blog di lettura LE STORIE DI LAURAETLORY, accompagnato dalle splendide illustrazioni di Niccolò Pizzorno.
Ve ne regalo una che trovo veramente intensa:

venerdì 12 novembre 2010

I miei articoli per "La Sesia": lo strano caso di "Giovinezza" e "Bella ciao"

Era il 3 novembre. Il flusso mediatico da Avetrana sembrava in stallo, il Veneto veniva sommerso dalle prime piogge autunnali. La giornata, giornalisticamente parlando, era tranquilla quando all’improvviso scoppia la bomba. Lucio Presta, padrone indiscusso del Festival di Sanremo, annuncia in via ufficiosa che sta per sdoganare le canzoni “politiche” sul palco dell’Ariston. C’è di che saltare sulla sedia. Nel regno incontrastato di “sole, cuore, amore” sta per approdare l’impegno, la denuncia, la presa di posizione. Ma siamo sicuri? Nell’attesa della conferma ufficiale in sede di conferenza stampa, ci si prepara a trattare l’argomento e i punti di vista sono, ovviamente, diversi. C’era bisogno di portare la politica tra i fiori della Riviera? Oppure è giusto prendere atto che la musica ha sempre fornito un armonico scivolo alle idee e agli schieramenti? Il melodramma italiano, per dirne uno, si è trovato a coesistere cronologicamente con il nostro tanto vituperato Risorgimento e dietro amori appassionati e intrecci da telenovela ha lasciato intravvedere la netta opposizione ai regimi vigenti, quelli degli usurpatori asburgici, borbonici, pontifici. Viene da pensare, mentre si attende il verbo di Lucio Presta dai suoi profeti Mazzi e Morandi, che a ben guardare la politica sul palco dell’Ariston non è mai mancata. L’orecchiabile “Chi non lavora, non fa l’amore” di Adriano Celentano e Claudia Mori era una canzone politica negli anni ’70 delle grandi lotte sindacali e dei grandi scioperi. Era una canzone politica quanto altre mai “Minchia, signor tenente” di Giorgio Faletti, all’indomani dei sanguinosi attentati a Falcone e Borsellino. Era una canzone politica e provocatoria già nel titolo “Pensa”, di Fabrizio Moro e parliamo di un paio d’anni fa. Ma il tempo delle ipotesi finisce presto, in quel mercoledì 3 novembre, e si svela l’arcano. Il presidente Giorgio Napolitano, nel tentativo di rimediare al colpevole ritardo sulle celebrazioni del Centocinquantenario dell’Unità d’Italia, aveva chiesto che il Festival della Canzone dedicasse una serata alla nostra storia patria. Detto e fatto, il duo Mazzi-Morandi partorisce l’idea: “nella serata evento di giovedì 17 febbraio ogni artista, oltre al proprio brano inedito - spiega il direttore artistico Gianmarco Mazzi - ne proporrà uno edito tra quelli che legati a momenti storici italiani importanti”. E Morandi rilancia l’idea di poter sentire i quattordici artisti in gara cantare “Bella ciao”. Apriti cielo. Non era lo sdoganamento dell’impegno sul palco dell’Ariston. Era un coro di vip della canzone che canta l’inno della Resistenza. Mazzi e Morandi fanno un rapidissimo errata-corrige: non facciamo politica, sono canzoni storiche, ci mettiamo anche “Addio Lugano bella” degli anarchici e “Giovinezza”, sono già state eseguite in tv. Ma alla Rai non vogliono sentir ragioni e lo strano caso delle canzoni politiche a Sanremo si chiude. Con un no che fa rumore. Ma che fa anche rima con cuore e amore.
Laura Costantini

giovedì 11 novembre 2010

In previsione del trasloco...

Buongiorno a tutti. Questo e' solo un post di prova, anche per cercare di capire come funziona questa piattaforma. E' l'11 novembre 2010 e potrebbe diventare un giorno importante nella storia del blog di lauraetlory. Vedremo...