venerdì 27 luglio 2012

In principio fu il manoscritto... riflessione sul mondo dell'editoria visto dal basso


Dopo aver letto esternazioni varie e argomentate di librai ed editori sulla difficoltà di vivere con i libri, mi è venuta voglia di scrivere questo post. Il titolo non è messo lì a caso. In principio fu il manoscritto. La prima volta che elaborai il concetto mi trovavo, ignorata commentatrice, sul blog di Vibrisse. Ora, va detto che ero all'inizio della mia conoscenza con la realtà editoriale. Quando io e Lory abbiamo pubblicato il nostro primo libro correva l'anno 2006 e noi eravamo due Alici nel paese delle meraviglie (oddio, meraviglie) dell'editoria italiana. L'unica cosa che sapevamo per certo era che pagare per pubblicare era un errore da non fare mai, tutto il resto lo avremmo imparato sulla nostra pelle negli anni a venire. Ma torniamo al manoscritto. Su quel post di Vibrisse si confrontavano fior di addetti ai lavori uniti in un coro di lamentele contro la mole di manoscritti di esordienti che erano costretti a non dico leggere, anche solo toccare. A sentirli sembrava che quei cumuli di carta pieni di speranze e di sogni fossero in realtà spazzatura altamente contaminante. Mi incazzai e scrissi loro che senza quei cumuli di carta, il loro lavoro non sarebbe esistito. Nessuno mi rispose.
Oggi, a distanza di sei anni, posso dire con cognizione di causa che molte delle loro osservazioni non erano sbagliate. Il problema stava nel fatto che io mi basavo sulla mia esperienza: potevano e possono non piacere, ma i nostri manoscritti sono scritti con cura, senza incongruenze, senza assurdi refusi, senza banalità, con un lavoro di documentazione certosino alle spalle. Pensavo fosse così per tutti e mi sbagliavo. Ma il discorso rimane.
Al netto degli esordienti con manie di grandezza e paranoie complottiste (l’editoria italiana per loro è tutta volta a non riconoscere la grandezza del capolavoro che ritengono di aver scritto), l’atteggiamento del mondo editoriale nei confronti degli autori è di fastidio. Cazzo vuole questo? Ha scritto un romanzo, e allora? Vorrà mica che noi ci sbattiamo per pubblicarlo, distribuirlo, farlo conoscere al pubblico? No, dico, vorrà mica guadagnarci pure qualcosa?!
Di editori, piccoli e medi, ormai ne ho conosciuti parecchi e il discorso è sempre lo stesso: io ci investo i soldi e l’autore che fa? Pretende che io abbia un ufficio stampa efficiente, che organizzi presentazioni, che magari riesca a ottenergli un passaggio tv oppure lo iscriva a un premio. Ti rendi conto?
Ciò di cui io, autrice, mi rendo conto è che ci sono troppe cose che non funzionano nel mondo dell’editoria. A partire dalla conventicola imbattibile dei distributori. Per quel che so (e se qualcuno ha dei dati sarei grata se li fornisse) a conti fatti il distributore è quello che ci guadagna di più da un libro. Non chi lo scrive (‘sto fortunello dovrebbe accontentarsi della sua copia omaggio e non rompere le balle), non chi lo pubblica (che effettivamente ci investe denaro, non fosse altro che per la fattura del tipografo), non chi lo vende (che c’ha da mantenere il negozio con l’affitto, le tasse e tutto il resto), bensì chi lo distribuisce. Ovvero chi lo trasporta nelle librerie e convince il libraio a prendere quelle 4/5 copie da relegare in magazzino in attesa di renderle.
Sarò strana io, ma a me sembra un’assurdità. E mi viene da pensare che sia tutta italiana, ma forse mi sbaglio.
Cosa vorrei? Vorrei rispetto. Perché senza nulla togliere al lavoro del resto della filiera produttiva di un libro, in principio c’è sempre, ci deve essere, un manoscritto. Che appartiene all’autore che ha creato quel mondo e quei personaggi. La materia prima la fornisce lui. E non è una materia prima grezza, perché io a questa storia che siano gli editor a rendere un libro fruibile non ci credo. E se accade, allora vuol dire che il manoscritto era da buttare. Gli editor sono dei rifinitori il cui lavoro, rispettabilissimo, non sempre fa la differenza. Altrimenti mi viene da chiedere: perché non lo scrivono loro un libro? Son come le sarte che danno qualche punto al vestito, ma il vestito l’ha voluto, creato, disegnato lo stilista. E se un modello piace e vende, vi parrebbe logico che a guadagnarci fossero tutti, escluso lo stilista?
In principio fu il manoscritto. Tra mille da cestinare ce n’è sempre uno che vale la pena. Cercarlo, scovarlo e portarlo alla luce è compito degli addetti ai lavori. L’editore lo pubblica, il distributore lo porta alle librerie, il libraio lo vende. E tutti insieme dovrebbero dire grazie a chi l’ha scritto.

mercoledì 25 luglio 2012

Accedeva 14 anni fa...


Quello che riporto è lo scherzoso articolo che compilai il giorno in cui mia nipote Lara è venuta alla luce. Sono trascorsi esattamente 14 anni e lei, come prometteva quel giorno, è diventata il nostro orgoglio. L'unico difetto che le riconosco è di essere cresciuta troppo in fretta. Mi sarebbe piaciuto avere più tempo per coccolarmela....

p.s. nella foto di anni ne aveva solo 12.




E’ nata a Monaco di Baviera l’attesa erede della coppia Binaco-Costantini.
La cicogna di Lara si posa sulla Geisenhofer Klinik

Impenetrabile il cordone sanitario voluto dalla famiglia per proteggere la privacy della piccola.

Monaco - ‘E’ venuta alla luce alle 10 e 23 del 25 luglio 1998, madre e figlia godono di ottima salute’. Il comunicato, scarno come di consuetudine, è stato diffuso alle 12,50 di sabato 25 luglio da un portavoce della famiglia allo scopo di allontanare il capannello di giornalisti e fotografi che si era formato davanti all’ingresso dell’esclusiva clinica privata di Monaco di Baviera. Inutile insistere per ottenere maggiori particolari: la cicogna di bronzo che sovrasta l’entrata della ‘Dr. Geisenhofer Klinik’ ha tenuto fede al proprio compito. E questo è quanto.
Ma, nonostante il personale sia quanto mai abbottonato, nelle ore successive alla nascita le notizie sono cominciate a trapelare. La madre, Elisa Costantini, 30 anni, nota a livello internazionale per il suo passato di ballerina classica, attualmente costumista e insegnante di danza di grido, era stata ricoverata il 24 luglio per un inizio di contrazioni dopo una gravidanza trascorsa senza alcun disturbo. Nulla, quindi, lasciava presagire difficoltà per il parto al punto che il padre, Marco Binaco, sottufficiale dell’Aeronautica militare italiana attualmente in forza all’agenzia Nato che si occupa della costruzione del caccia ‘Eurofighter 2000’, è stato raggiunto a casa dalla comunicazione che sua moglie era in camera operatoria. Una sospetta sofferenza cardiaca da parte della bambina ha convinto l’équipe medica della clinica ad optare per un parto cesareo.
Lara, questo il nome scelto dai genitori, pesa 3 chili e 130 grammi, è lunga 52 centimetri ed ha sicuramente la voce più acuta tra tutti i piccoli ospiti della nursery della clinica. Per il momento viene tenuto top secret il giorno in cui mamma e piccola verranno dimesse dalla clinica. Ma i paparazzi sono già appostati, complici i folti alberi dell’Englischer Garten, e difficilmente la signora Binaco potrà evitare di essere immortalata.
Laura Costantini

martedì 24 luglio 2012

Oggi su "La Sesia": La foto di ogni giorno


Un quotidiano è il fermo immagine del mondo. Dura poco, il tempo di una lettura frettolosa, spesso limitata ai titoli. Dura poco e per pochi. In Italia a leggere i giornali siamo una minoranza. E viene da pensare che facciano bene quelli che evitano di fissare quel fermo immagine. Salvo poi scoprire che lo schivano su carta, ma ne sono bombardati su schermo. Sorvoliamo sulla qualità dell’informazione fornita dai telegiornali, sarebbe un discorso lungo. Evitiamo anche di esaminare la diffusa tendenza a guardare il mondo attraverso la Rete. Sarebbe un discorso ancora più ampio. Torniamo al nostro giornale di carta, fermo immagine di una calda domenica di luglio, e proviamo a cogliere il volto del mondo. Non quello definitivo. La foto è istantanea. Poche ore, forse minuti, e lo scatto già non corrisponde più alla realtà oggettiva. Ma riesce a restituirci un’impressione. Un’impressione amara. Titolo d’apertura: gli stipendi dei dipendenti sono fermi da dieci anni. Eppure i dipendenti, quelli col posto fisso, devono considerarsi fortunati, perché l’ottanta per cento dei nuovi assunti resterà precario, forse per sempre. Una situazione italiana. L’Italia, rispetto al mondo, è un frammento, una tessera di un puzzle molto più complesso. Non siamo esemplificativi, noi. Ma non siamo soli e la foto ci mostra anche gli indignatos di Israele. La notizia non è delle più importanti, ma sul nostro giornale c’è. Ci dice che Moshe Silman si è dato fuoco. Storia vecchia? Giusto. L’uomo, disperato e ormai privo di risorse, si è dato fuoco più di una settimana fa. Ma è morto dopo sei giorni di agonia. Ma ha aperto una strada: per protestare contro i tagli del governo Netanyahu un altro cittadino israeliano, costretto sulla sedia a rotelle, si è dato fuoco. Dal fermo immagine che abbiamo davanti è evidente che il peggiore dei drammi è la disoccupazione. Ce lo dice l’Italia. Ce lo dice Israele. Ce lo dice la Spagna, con Madrid occupata da coloro che il lavoro lo hanno perso. O non l’hanno mai avuto. Una tragedia esistenziale. Ma c’è di peggio. Ci sono dodici persone, molte delle quali bambini, che hanno la sfortuna di vivere a Denver e di incrociare la strada di James Eagan Holmes. Lui è un ragazzo come tanti, ma entra in un cinema gremito per una prima cinematografica. È armato fino ai denti. Apre il fuoco. Uccide. Gli esperti proveranno a spiegarci il perché. Ma nel giornale che stiamo sfogliando c’è anche l’anniversario della strage di Utoya. Dopo dodici mesi dall’esecuzione metodica di 77 tra ragazzi e ragazze capire è ancora impossibile. Il fermo immagine, almeno, non pretende di spiegare. Mostra. E lo sguardo torna da noi. Ozzano, provincia di Bologna. Una ragazza di 21 anni dà alla luce due gemelli. Uno lo getta nella spazzatura, l’altro muore prematuro. C’erano mille altre soluzioni per salvare quei due bambini. Storia vecchia? Già. Mentre leggete, la foto è diversa. Che non vuol dire migliore.

Laura Costantini

martedì 17 luglio 2012

Oggi su "La Sesia": E poi succede che non ci importa più


E poi succede che non ci importa più. Che i numeri hanno la meglio e più crescono e meno impattano sulle nostre coscienze. È successo la scorsa settimana, l’11 luglio. Su quotidiani, tv e siti online rimbalza la notizia dell’ennesima strage in mare. Sì, ennesima. E basta questo aggettivo dalla portata numerica infinita a spiegare quello che poi è successo. Perché, parlando solo degli ultimi mesi, era aprile e i superstiti raccontavano di 10 persone morte di stenti e gettate in mare; era maggio e i corpi gettati in mare erano 7 su 90; era giugno e una piccola barca naufragava causando la morte di quattro persone. Migranti, tutti. Migranti come i 54 di cui lo scorso 11 luglio ci ha raccontato l’unico superstite. I fatti. Il gommone parte da Tripoli a fine giugno. Puntano in Italia, sono 55, per la maggior parte eritrei. Dopo un giorno sono già in vista della meta ma il vento li respinge, trascinandoli in mare aperto. Inizia così l’agonia di cinquantacinque persone. Proviamo a contare fino a 55, a renderci conto di quanti erano. Il gommone comincia a sgonfiarsi, a bordo non c'è acqua. Molti, compreso il superstite recuperato da pescatori tunisini in fin di vita, cominciano a bere acqua di mare. Non serve. Uno dopo l’altro muoiono per disidratazione. A dare la notizia è l'Alto Commissariato dell'Onu per i Rifugiati. "Una vera tragedia", ha commentato il vice commissario Alexander Aleinikoff, facendo appello "ai comandanti delle imbarcazioni nel Mediterraneo affinché l'antica tradizione del salvataggio in mare continui ad essere rispettata". E come no? Nello stesso giorno, 50 persone tra eritrei e somali, si sono viste rifiutare soccorso delle Forze Armate maltesi. Non solo, dopo aver fatto notare che non c’erano conferme, ovvero corpi da recuperare, di quanto raccontato dall’eritreo superstite, i media hanno dimenticato la vicenda tornando a parlare di crisi, di rating, di spread e di elezioni. Perché succede, appunto, che non ci importa più. Che abbiamo altro a cui pensare. Cinquantaquattro morti. Contiamoli e proviamo a immaginare come si muore di disidratazione in mare aperto, sotto un sole implacabile, durante un’estate tra le più calde. La sete, la stanchezza, il mal di testa, la pressione che precipita, gli svenimenti. Poi arrivano la nausea, il formicolio agli arti, le convulsioni, i crampi. Si seccano gli occhi, non si urina più, se si piange, le lacrime non escono. Si vedono cose che non esistono, si delira, tutto si confonde. Dicono che si possa, in modo approssimativo, paragonare la morte per disidratazione a quella da dissanguamento. Dicono sia una morte dolce, posto che dolce possa essere la sensazione del proprio cuore che si sforza di pompare un liquido che diminuisce di ora in ora. Siamo fatti di acqua, per un 70%. Possiamo sopravvivere molto senza cibo, pochissimo senza bere. Cinquantaquattro vite, spente come candele. E noi le abbiamo liquidate come roba della settimana scorsa.

Laura Costantini

venerdì 13 luglio 2012

Soggettiva di ZG: Nient'altro che amare di Amneris Di Cesare

Chiariamo subito un punto. Io e l'autrice di questo romanzo non siamo d'accordo su una cosa fondamentale: l'attribuzione di genere. Come è facile evincere dalla copertina, questo romanzo è stato inserito dall'editore Centoautori nella collana Palpiti. Lo recita lapalissianamente la fascetta in alto, non a caso fucsia e con un bel cuoricino per far capire anche ai più tardi tra i lettori che siamo di fronte a un libro ROSA. Secondo me questo è un errore clamoroso. Intanto è notorio che i lettori maschi leggono poco le femmine. Intanto è notorio che i lettori maschi si piccano di disprezzare i cosiddetti libri d'amore. E soprattutto, se aveste letto questo romanzo, sapreste che NON è un libro d'amore e che l'autrice, che stimo come persona oltre che come scrittrice, si fa un grosso torto in questa autoghettizzazione di genere.
Chiarita la premessa, andiamo a spiegare. Nient'altro che amare (il titolo non mi fa impazzire, tante volte non si fosse capito) è un romanzo. Punto. E' una storia, una bella storia. E' uno spaccato sociale. E' una testimonianza di quale inferno potesse (possa?) essere la vita di una donna in un contesto provinciale e chiuso che l'autrice colloca nel meridione d'Italia (siamo in Calabria) ma atteneva (attiene?) a molte altre realtà geografiche. La protagonista assoluta è una donna al di fuori di qualsiasi scontato cliché normalmente venga associato al genere rosa. Non è bella Maria, detta 'a zannuta. Ha i denti davanti irrimediabilmente sporgenti che le danno un'espressione da ciota, da stupida. Non è ricca, non è elegante, non è colta. Per i suoi compaesani non è neanche una brava donna, anzi. E' decisamente una zoccola. Perché sebbene nasca e viva in una realtà repressa e repressiva (delle donne sia chiaro), le piace fare sesso. Le piacciono gli uomini. E accetta di buon grado ogni figlio che il suo ventre concepisce. Ne partorirà sei, ne perderà, a vario titolo, tre. Si guadagnerà da vivere lavorando duro, sgobbando, prostituendosi anche. Maria è un personaggio vero, vivo, palpitante. Una che non si piange addosso, anzi, decide di non versare più una lacrima subito dopo la perdita lacerante del suo primo bambino, partorito dopo una violenza a sedici anni. Maria non si arrende alla vita. Continua a crederci, a combattere, a vivere a dispetto della rabbia delle beghine, dell'odio delle malelingue, del disprezzo e del desiderio incattivito degli uomini che la vogliono possedere e umiliare. Eppure non ci riescono. Mai. Questo romanzo è la storia, credibilissima (io una Maria l'ho conosciuta, era una zia di mia madre ed ebbe sei figli anche lei, nella Sicilia del dopoguerra, da sei padri diversi), della vittoria di una persona che ha opposto se stessa alle convenzioni sociali, ai diktat di una moralità ipocrita. E' la storia di una donna che è stata capace di amare e perdonare, di darsi nella piena consapevolezza del proprio corpo, di agire con l'altruismo totale che solo un amore di madre rende possibile. Vi consiglio di leggerlo, questo romanzo. E' scritto bene, con il passo piano e semplice di un narratore di quelli di una volta. Di quelli che lasciano che sia la storia al centro dell'attenzione del lettore, non le capriole dello stile o l'originalità ad ogni costo del linguaggio. Vi consiglio di leggerlo senza lasciarvi fuorviare dal titolo, dalla fascetta fucsia, dalla collana Palpiti, dal cuoricino. Perché Maria è una donna, non la cenerentola di turno. Perché gli uomini che incontra sono uomini veri, non principi azzurri. Perché il vissero felici e contenti ve lo scordate. E dopo averlo letto sarete d'accordo con me. Nient'altro che amare è un romanzo. E con i cliché degli Harmony non ci azzecca proprio niente.

ZG

giovedì 12 luglio 2012

Fiume pagano nella recensione di Marco Proietti Mancini


Ci sono storie, romanzi, che scorrono come scorrono i fiumi. Non tutti i fiumi scorrono nello stesso modo. I fiumi di montagna scendono giù impetuosi, saltano le rocce, cadono, sbattono, la loro acqua è tanto trasparente e pura da sembrare non esserci. I fiumi di montagna sono come ragazzini immaturi, pensano solo a divertirsi, a correre via, non si fermano un istante, non si godono un momento di vita e consumano tutto quello che incontrano sulla loro strada
Poi ci sono i grandi fiumi di pianura, quelli che scendono lenti, gravidi di tutto quello che accumulano nel loro viaggio. Una pagliuzza strappata via da un torrente si distrugge in un metro, una pagliuzza presa – non strappata – dal corso di un fiume che scorre in pianura, quella arriva fino al mare.

Tra i fiumi di pianura quello che amo di più è il Tevere. Ma va? Bella forza, è il mio fiume, il fiume della mia Città (Eterna). Ma non è solo campanilismo. Il Po se lo dividono in tanti, come l’Arno. Il Tevere invece è solo di noi romani. Il Tevere nasce in Romagna, passa in Toscana, in Umbria e poi finalmente arriva nel Lazio, 405 chilometri in quattro regioni, eppure, manco a farlo apposta, per toccare una città deve arrivare quasi alla fine. Quindi il Tevere fino a Roma non è un cazzo, poi diventa il fiume Sacro, e che sia Sacro non c’è dubbio. Sacro per i pagani, come per i Cristiani.

Ecco “Fiume Pagano” di Laura Costantini e Loredana Falcone – Historica Edizioni – non è un romanzo, e non è un fiume. E’ tutte e due le cose. E’ una storia gialla, vera, ambientata ai giorni nostri, con tanti morti, qualche assassino (si, qualche, non uno solo) e con un movente che non nasce oggi, ma nasce qualche decina, tante decine, di secoli fa. “Fiume Pagano” è come il Tevere, E’ il Tevere. Porta dentro un sacco di cose, tutte insieme, che uno può anche pensare che stanno male messe insieme. Invece sbaglia, perchè quando vedi scorrere un fiume, gonfio e rabbioso, o lento e pigro, e vedi che porta dentro tutto e di tutto, pensi che ci sta bene tutto dentro alla corrente, le storie nuove e quelle vecchie, i Santi e i bastardi, le mignotte e le vergini. Dentro i tremila anni di storia (quella conosciuta) di questo fiume c’è la storia di Roma e dei romani. Che se vai a grattare sotto i vestiti fighetti sono ancora quelli rozzi e prepotenti di tremila anni fa.

“Fiume Pagano” è un libro potente, eppure semplice, arrogante eppure cinicamente autoironico. Ogni  personaggio è complementare all’altro, la ragazza ricca e la zia popolana, il carabiniere che ancora ci crede e il vecchio giornalista che ormai non ci crede più, il laureato che “si accontenta” ed il rampollo che sotto la presunzione nasconde la speranza. In “Fiume Pagano” Laura e Loredana prendono tutto e lasciano che sia la corrente della storia, del fiume, a trasportarlo verso la foce, la fine. Dove nulla finisce e tutto può ricominciare.

Laura Costantini e Loredana Falcone sono l’emblema, l’icona del fallimento di una mia convinzione; io che quando scrivo litigo perfino con me stesso, ero convinto che da una collaborazione a quattro mani non potesse uscire nulla di buono. E che cazzo, di Fruttero&Lucentini ne abbiamo già avuti due (ambo!), Guccini & Machiavelli? Si va be’, li ho letti, mi sono pure piaciuti tanto, ma lì alle spalle c’è Mondadori, una megaredazione, e c’è pure profumo di marketing editoriale, che sistema ed aggiusta gli sfridi. Qui invece ci sono Costantini & Falcone, si sente l’odore del sudore dell’anima e si vedono le macchie di inchiostro sulle dita. Insomma, ancora una volta, chiusa l’ultima pagina mi è venuto da dire, ma perchè devo trovare in libreria tanta merda di carta sprecata ed invece per trovare questo bel libro ho dovuto ordinarlo? Si lo so, domanda inutile. Il problema non è la “piccola editoria”, il problema è la “grande distribuzione”.

Vabbè, Suggerimento; cercatelo, ordinatelo, leggetelo.

mercoledì 11 luglio 2012

I miei articoli per "La Sesia": Khodia e gli altri

C’è uno spot che passa su Sky. Mostra una bimba drammaticamente bella. Impressionante come regga il primo piano. L’intensità dello sguardo non è sminuita dal velo opaco che oscura una delle pupille. La bimba, che chiameremo Khodia, è nera. Avrà poco più di due anni. Sul cranio glabro e percorso da sfoghi è fissato un ago a farfalla. Ha lunghe ciglia e fissa dritta in camera mentre una voce ci racconta, per un tempo televisivamente infinito, che quella bimba sta morendo di fame. E che basterebbero nove euro al mese per salvarle la vita. La voce parla, reitera il concetto e intanto Khodia ci fissa. Ha il dolore nello sguardo, la rassegnazione, la consapevolezza di essere venuta al mondo nel posto sbagliato e di dover pagare questa involontaria colpa. Lo spot è estremamente efficace. Deve essere costato un bel po’ di soldi. Perché certo nessuno ha pagato Khodia o i suoi genitori, posto che li abbia. Ma nella scelta dell’immagine, delle luci, della musica, nel montaggio c’è una professionalità altissima. Il committente è Save the children, benemerita onlus che si occupa di salvare, appunto, bimbi come lei. Il problema è che se si riesce a superare l’impatto emotivo, un vero e proprio pugno nello stomaco, che furbescamente ci viene impartito, la domanda vera è: quanti di quei nove euro al mese finiranno nell’acquisto di buste di alimento iperproteico e quanti in pubblicità? Negli ultimi anni la sensibilità del mondo occidentale nei confronti della strage di bimbi del Terzo mondo è aumentata. E il merito, va riconosciuto, è anche degli sforzi divulgativi di numerose onlus. Se vi è mai capitato di donare una cifra, anche piccola, a Save the children, saprete che da quel momento è iniziata una vera e propria pioggia di carta nella vostra buca delle lettere. Magari, non ci giureremmo, è carta riciclata. Ma è stampata a colori vivaci, preminente il rosso. Ha un ottimo impatto visivo, dietro il quale è facile immaginare uno studio grafico di quelli capaci. Di quelli che costano. E, non bastasse, spesso nella busta è allegata la vostra tessera socio, plastificata, e un bel gadget, tipo una gomma per cancellare, anche lei rossa e col simbolo sopra. Non dovete pensare che sia solo Save the children a operare in questo modo. Se qualcuno ha adottato a distanza un bimbo, è facile lo abbia fatto attraverso ActionAid, altra onlus molto attiva in questo campo. E molto seria, sia chiaro. Però ActionAid, una volta che abbiate scelto di essere socio sostenitore e genitore affidatario di un bimbo, vi tiene aggiornati. E sono opuscoli, depliants, addirittura riviste. Voi in realtà non dovreste preoccuparvi, in fondo fate la vostra buona azione con quei 23 euro mensili per mantenere Khodia e vederla crescere attraverso foto e resoconti. Eppure, dopo esservi detti quanto siete generosi, fatevi, facciamoci la domanda: non sarebbe meglio se tutti quei (pochi) soldi servissero a dar da mangiare Khodia e a tutti gli altri?

Laura Costantini

lunedì 9 luglio 2012

K.Lit, ovvero se vuoi, puoi

E' avvenuto il 7 e l'8 luglio scorsi. E' avvenuto nella bella città di Thiene, in provincia di Vicenza.
E' avvenuto per idea di Morgan Palmas e per volontà di un team che ci ha creduto fino in fondo. 
Non starò a fare l'elenco di tutti coloro che sono intervenuti, vi basti sapere che c'erano i più importanti, letti, discussi, amati e odiati blog letterari presenti in Rete. C'erano scrittori, tanti, editori, tanti, addetti ai lavori, tanti. C'era soprattutto la voglia di confrontarsi, di parlare delle cose che ci appassionano, dei temi più dibattuti in Rete e fuori. Difficile dare un'idea del K.Lit, il primo festival dei blog letterari nello spazio di un post. Posso dirvi che ho accolto con gioia l'invito che molti mesi fa Morgan Palmas, attraverso il blog SulRomanzo, mi ha fatto per partecipare come relatrice a una tavola rotonda su linguaggio femminile e linguaggio maschile in Rete. La foto qui sopra rimanda a quel momento e mostra, da sinistra, lo scrittore Federico Baccomo (simpaticissimo e, per sua stessa ammissione, lontano dalla maschia introspezione che molti pretendono da lui), Marta Perego, moderatrice e giornalista Mediaset, la sottoscritta e Giulia Penzo (blogger, educatrice, scrittrice). Peccato aver avuto solo una mezzora di tempo per parlare di un argomento tanto stimolante. E peccato anche che ci fossero almeno due ore per ascoltare il dibattito tra Giovanni Turi (editor di Stilo, tra le molte altre cose) e Marco Civra (direttore editoriale di Marco Valerio, tra le molte altre cose) su meridionalismo e settentrionalismo in letteratura. A me, indegnamente, è toccato moderare l'incontro e sarei stata a sentirli, e a sentire le domande del pubblico, per tutto il pomeriggio.
Al di là di questo e dell'abbraccio circolare esteso a Massimo Maugeri (nume tutelare di Letteratitudine), ad Andrea Malabaila (direttore editoriale di Las Vegas Edizioni) e a Carlotta Borasio (ideatrice dello Starbooks Coffee), resta lo stupore per aver visto un'idea, una bella idea, farsi realtà. Perché se davvero VUOI fare cultura in questo paese, checché se ne dica, ancora PUOI.

martedì 3 luglio 2012

Oggi su "La Sesia": Veronica, la raccolta punti e il francobollo


N.B. Sono in ferie nel luogo che vedete qui sotto, ma vi penso comunque.


Veronica ha 50 anni. Di mestiere fa la badante. La persona di cui si prende cura è una signora che la vecchiaia ha reso un peso. Il suo unico figlio la vede una volta a settimana. Per tutto il resto c’è Veronica. Ivi compresa una piccola mania di quelle che diventano importanti per gli  anziani: la raccolta punti. Come sappiamo tutti, le raccolte punti sono un subdolo mezzo di fidelizzazione. Niente di ciò che viene spacciato per regalo è regalato. Se ci si fermasse a fare il conto di quanto ci costa ogni singolo punto e di quanti punti ci vogliono per quelle due tazzine con lattiera, faremmo voto solenne di non ricascarci mai più. Ma la consapevolezza che tazzine e lattiera ci costerebbero la metà della metà ad acquistarle in un negozio non basta a toglierci il gusto di raccogliere e incollare punto dopo punto. La signora di cui si occupa Veronica è una professionista, in questo campo. Non solo acquista tutto ciò che è necessario a racimolare più punti possibile, ma ha anche precettato il vicinato perché collabori alla causa. Alla fine, a prezzo di condivisi sacrifici, il raccoglitore è rigido di punti incollati e pronto per essere spedito. È qui che entra in ballo Veronica, con le sue gambe gonfie di varici e la tessera per muoversi con i mezzi pubblici. Non sia mai il raccoglitore vada perso, la signora spedisce Veronica alle Poste per una lettera raccomandata con ricevuta di ritorno. La badante obbedisce. Il plico parte, la ricevuta torna a testimoniare che tutto è a posto. Ma non è tutto a posto perché un giorno, invece delle agognate tazzine con lattiera, arriva una lettera: siamo spiacenti, mancano 50 punti, a meno che non veniate personalmente a ritirare il regalo. Nel caso, questo è l’indirizzo. Ed è in un’altra città. La signora si dispera, ma c’è un’ultima chance. Entro tot giorni dal ricevimento della lettera si possono ancora inviare i 50 punti in carenza. Comincia la corsa contro il tempo e contro la difficoltà di ingurgitare litri di latte sufficienti a totalizzare l’ammanco. Riparte la precettazione del vicinato. Il target è raggiunto. I punti vengono messi in una busta. Manca solo il francobollo. A questo punto Veronica, nella calura estiva, sui mezzi pubblici con le sue gambe gonfie di varici scopre che i francobolli non ci sono più. Non li vendono i tabaccai, perché non ci guadagnano. Non li ha l’ufficio postale, perché li ha finiti e la spedizione della corrispondenza non è più lo scopo di Poste Italiane. Stanno diventando banca, loro. La busta con i punti in borsa, Veronica mente alla signora e intanto continua a cercare. Il tot di giorni è ormai passato quando, in una piazzetta di periferia, compie l’estremo tentativo. Si vergogna a chiedere il francobollo. E invece quel tabaccaio ce l’ha. “Siamo all’antica, noi”, proclama. I 50 punti son partiti fuori tempo massimo. Tutto il vicinato tiene le dita incrociate in attesa delle tazzine.

Laura Costantini