sabato 13 gennaio 2018

Importunare le donne non è un diritto costituzionale dei maschi


Mi riaggancio alla polemica circa l'importanza della libertà 
di corteggiamento molesto, fondamentale per i maschi. 
E medito su uscite che, purtroppo, ho sentito e letto da donne. Quali? Sappiate che noi femmine siamo ipocrite perché facciamo tanto le schizzinose se qualcuno non proprio avvenente ci palpeggia, occhieggia, apostrofa e corteggia in modo che consideriamo molesto. Mentre non abbiamo niente da ridire se a farlo è un maschio attraente e/o danaroso. Questa la sintesi del pensiero comune corrente tra (molti, troppi) uomini e (molte, troppe) donne. 
E allora? chiedo.
Il corpo, il ginocchio, la coscia, il culo, le tette son tutti roba mia. Ci siamo? 
Ebbene, solo IO (nel senso di donna coinvolta) ho il diritto di decidere se e quanto e come e da chi desidero e/o accetto di essere toccata, palpata, apostrofata e/o corteggiata. 
Corteggiare (educatamente o in modo rozzo e volgare) NON è un diritto costituzionale concesso ai maschi. 
E sentir dire che una donna è ipocrita se accetta la strizzata d'occhio dal collega giovane e carino mentre si infastidisce se arriva dal capo-reparto per nulla attraente mi fa infuriare. Stessa cosa quando si giudica una donna perché accetta un passaggio dall'uomo ricco e potente e non dallo spiantato. 
E allora? Quando ero ragazzina si diceva una cosa che pare si sia dimenticata: "Io sono mia". Proviamo a ricordarcelo.
Io sono mia e io decido se tu, maschio interessato, bello, brutto, ricco, povero, educato o maleducato puoi o non puoi relazionarti con me.

P.s. Questo non ha nulla a che spartire col discorso denunce per molestie. Perché la molestia è una cosa grave e, ve lo assicuro, una donna sa sempre se viene molestata. Anche se a farlo è un modello bellissimo come quello della foto.

venerdì 5 gennaio 2018

Doccia bollente #7 Nel buio

Era tremendamente tardi e Francesco Corsi aveva le palpebre pesanti nonostante l’adrenalina circolasse ancora a torturargli il cervello. Ore surreali si erano inseguite a cascata, scandite dalle sirene: quella della sua macchina all’impatto, poi la polizia, l’ambulanza e anche in pronto soccorso… e dire che aveva desiderato solo tornare a casa, al caldo, per stiracchiare i muscoli sotto le coperte. Ma non era stata la stanchezza; era ben sveglio quando quella, che giurava fosse una donna, gli era apparsa davanti al cofano per poi schizzargli sul vetro. L’aveva vista protesa verso qualcosa, in direzione del bosco che svettava a bordo strada. Ne ricordava i contorni rigidi del viso, riempiti da grandi occhi scuri, fin troppo, simili a due buchi neri, e gli sembrò che stesse ringhiando. Ricordava la canzone alla radio –  The dark side of the moon – e il cellulare che vibrava a vuoto sul sedile del passeggero, con il nome di Marta che lampeggiava chiedendogli quando si sarebbe sbrigato a tornare. Poi la frenata, un botto terribile e la cintura di sicurezza che, togliendogli il fiato, gli aveva annebbiato i sensi. Istanti? Minuti? Non sapeva dirlo. In preda al panico, era sceso aspettandosi di trovare la donna scaraventata chissà dove, incosciente e sanguinante, non di certo un uomo sporco, peloso e mezzo nudo che rantolava nel suo vomito. Aveva chiamato i soccorsi e, nell’attesa dilatata dall’angoscia, aveva continuato a guardarsi intorno, mentre gli ultimi bagliori di tramonto si perdevano dietro le colline lasciando spazio alla nebbia. Nessuna luce, nemmeno in lontananza, nessuno che passasse, un deserto buio rotto dall’antifurto che continuava a urlare disperato.
E il rumore continuò  a trapanargli la mente per ore, anche mentre veniva interrogato dagli agenti e quando i medici gli assicurarono che l’unica ferita trovata sull’uomo non poteva essere imputata a lui, che quell’uomo non era mai stato investito o, per lo meno, non quel giorno.
Furono rumorosi anche quando, con una pacca sulla spalla, lo rimandarono a casa; sembrava quasi che avessero fretta di toglierselo di torno.
Tentò di insistere – Su quella strada c’è una donna ferita! Potrebbe morire… potrebbe essere già morta! Perché non volete credermi? – ma di rimando ebbe solo sbuffi impazienti di sanitari e poliziotti con un’espressione ebete che aveva del soprannaturale.
- Ma quale donna? Sarà stato un cinghiale. Lo shock fa brutti scherzi, signore, sono solo fantasie, allucinazioni. Si riposi e vedrà che passeranno – dicevano – Lei è un eroe, signor Corsi e il tizio è stato fortunato, se l’è scampata per un pelo! Ora si rilassi! –
Rilassarsi? Erano proprio dei coglioni! Come poteva rilassarsi? Chi avrebbe potuto riuscirci?
Invece, una volta fuori dall’ospedale, sentì la mente spegnersi con un click e la stanchezza invaderlo, come se qualcuno si fosse impadronito della sua coscienza facendola zittire.
La macchina era distrutta ma la distanza che lo separava dal suo appartamento era accettabile; con un inaspettato senso di leggerezza, preferì evitare il taxi e andare a piedi per  respirare a fondo l’aria della notte e tentare di tornare, passo dopo passo, alla realtà. Forse il colpo o la paura l’avevano davvero stordito e gli occhi ingannato. La testa ora era più leggera, vuota, e a metà strada si era quasi convinto che la priorità non fosse chi o cosa avesse investito ma spiegare a Marta che la sua cara Pandina non aveva altro futuro se non la rottamazione.
L’aria, però, era davvero troppo fredda e pareva diventarlo sempre di più a ogni metro, come un alito ghiacciato sulla nuca e poi… la sensazione di essere osservato. 
Si rese conto di averla sempre avuta; più blanda, latente, mascherata dai rumori, ma lì, presente, e il suo sesto senso l’aveva avvertita per tutta la sera. Tentò di allontanare questi nuovi pensieri alzando il bavero del cappotto e allungando il passo ma, di sicuro, non avrebbe dimenticato quel giorno: non un fatto o una persona che avessero seguito un senso logico, forse era quello a dargli i brividi. Da buon ingegnere era abituato a un mondo matematico, ma gli stava impazzendo sotto gli occhi e si sarebbe sentito matto anche lui se, arrivato a casa, avesse seguito il suo primo istinto, ovvero scappare.
L’aria fredda sembrava provenire proprio da lì. Afferrò la maniglia ma le sue mani erano scosse da spasmi di incertezza che gli impedivano di girarla. Quindi respirò a fondo e chiuse gli occhi.
– Francesco, non essere stupido – si disse – Ora ti calmi, ti dai una mossa ed entri. Ti prepari una bella tazza di tè e a Marta ci penserai poi.  Tanto a quest’ora starà dormendo e, se non fai casino, si incazzerà domani a colazione come al solito. È fatta così, la conosci. – e per una volta ne fu contento.
Finalmente aprì la porta.
Compiaciuto dal calore che lo avvolse, prese a ridacchiare di se stesso; si era proprio comportato come un bambino che ha paura dell’orco cattivo. – Stupide fantasie! –
Abbandonò le scarpe sullo zerbino e, senza accendere le luci, si lasciò guidare dalle mani, lungo il muro, fino alla cucina dove trovò la teiera e la mise sul fuoco.
Bastarono pochi minuti. Con la tazza bollente a coccolarlo e un risolino isterico scaricò definitivamente la tensione e si sentì pronto ad andare a dormire.
Nella stanza, deboli raggi di luna filtravano attraverso le tapparelle lasciando intuire appena il profilo di Marta sotto le coperte. Era una donna ancora molto bella, nonostante i segni dell’età che le cesellavano delicatamente il viso; le davano fascino e l’avrebbero potuta rendere amabile se l’età stessa non gli avesse indurito il cuore. Si tolse i vestiti facendoli scivolare a terra e, per evitare di far rumore, non tentò nemmeno di cercare il pigiama; si infilò così com’era nel letto.
Chiuse gli occhi sperando di addormentarsi ma un odore sgradevole aleggiava nella stanza. Ma che diavolo si è messa addosso? Puzza da morire! pensò voltandosi a dare le spalle alla moglie, ma una mano prese a scivolare lungo il suo fianco. Cavolo, l’ho svegliata! Adesso parte con la lagna e non si dorme più.
Immaginò che sarebbe stato meglio giocare in attacco.
– Oggi è stato un vero incubo, una giornata priva di senso, assolutamente snervante. Non ce la faccio più! Lasciami stare! Ne parliamo domani. –
Ma a tuonargli accanto fu una voce rauca che non poteva essere quella di Marta.
– Invece ne parliamo adesso! Hai lasciato che il mio nemico, il lupo, sopravvivesse e questa è la mia vendetta! –
Francesco Corsi si girò di scatto perdendosi nei due occhi, scuri come buchi neri, che lo stavano fissando. Un urlo disperato si spense prima che potesse raggiungere la gola e la sua anima scivolò via, risucchiata in un vortice buio; inghiottita e persa per sempre mentre la furia stridula della banshee riecheggiava nella notte, tra i palazzi, per le strade, e poi giù fino al bosco dove la donna scomparve tra le maglie della nebbia.
Al mattino il signor Corsi fu trovano seduto sul letto, con lo sguardo vuoto, a dondolarsi davanti al corpo della moglie inchiodato alla parete.
– È pazzo! – fu la sentenza quando serrarono la porta della cella per non riaprirla mai più.
 

 










martedì 2 gennaio 2018

Doccia bollente #6 La gita

Bella era bella.
Era minuscola e perfetta. Faceva seconda liceo. Rideva tanto, ascoltava musica celtica, quando ancora non era di moda, andava a teatro e camminava in montagna come un alpino.
In un anno l’aveva vista con la gonna due o tre volte, non di più. Aveva otto di latino e greco e faceva schifo di matematica, ma era intelligente e un sei a fine anno lo raccattava sempre. E aveva delle tette da urlo.
Sapeva di essere bella? Immaginava di essere desiderata da molti?
Non aveva saputo dirlo allora e non lo sapeva neppure adesso. A volte pareva giocare e invece era seria, unica ragazza, il lunedì, a commentare con perizia i risultati calcistici della domenica. Ne aveva sempre due o tre intorno, pareva sincera quando sosteneva che fossero amici.
Per scoparsela aveva convinto il consiglio di istituto dell’opportunità di portare una quinta ginnasio in gita sulla costiera amalfitana, insieme alle classi del liceo.
Cinque giorni. Gliene erano bastati due.
Venticinque anni, supplenza annuale: italiano, latino, greco, storia e geografica, praticamente il signore assoluto della quinta ginnasio.
Liceo della buona borghesia cittadina, luogo di tradizioni, di ordine costituito, di muffa e un po’ di noia. Si sfilava la giacca al suono della campanella, rimaneva in jeans, t-shirt e gilet di stoffa, l’aria un tantino dandy e scendeva a giocare a pallone in cortile invece di rintanarsi in sala professori.
Faceva dei culi a cappello da prete, infieriva con cinque versioni di castigo per il giorno successivo, ma era un mito: per le ragazzine perché era bello, per i loro compagni perché era un figo.
Era sopportato dal corpo docente e dal preside perché era bravo, preparato ed entusiasta, ma guardato con sospetto.
Portava gli studenti ai cinema d’essai, rendeva rock la tragedia greca, di Catullo leggeva i componimenti audaci, mimava l’assalto al villaggio di Platoon ed era più vicino ai ragazzi della maturità che ai suoi colleghi.
Si trovava in quella terra di mezzo quando si era accorto di lei.
Di tutti gli occhi adoranti che lusingavano la sua prepotente vanità, era stato catturato da quegli sguardi sfuggenti che non volevano dargliela vinta, ma che scappavano al controllo e lo seguivano per i corridoi.
Un quadrimestre a girarsi intorno. A sfiorarsi, per caso, con le gambe nel buio della sala cinematografica. Giulia, la sua fidanzata, seduta a fianco che gli cercava la mano.
Mesi a ridere di una barzelletta, a discutere sull’interpretazione di un frammento di Saffo, a far finta di non sentire i commenti sulla prof di filosofia. Giorni a raccontare a se stesso e a Giulia che era solo l’entusiasmo del giovane insegnante che consegnava troppo spesso le loro serate, i loro dopo teatro, a un gruppo di studenti.
E lui baciava Giulia e la baciava forte, davanti ai ragazzi, fra un sorso di birra e un morso al panino e cercava quegli occhi che lo sfidavano senza mai concedersi e non li trovava. In quei momenti non li trovava mai. C’erano tutti, gli sguardi: quelli ammirati dei ragazzetti brufolosi della sua classe, quelli compiaciuti dei più grandi e quelli invidiosi delle ragazze. Non c’erano i suoi.
Probabilmente sarebbe rimasta una fantasia destinata a svanire con il rintocco della campanella sull’ultimo giorno di scuola se la gita a Sorrento non avesse corso il rischio di saltare.
«Pietro, ci devi salvare. Quella stronza della Fusier…»
La Fusier, collega di matematica, era una zitella acida ed effettivamente era stronza, ma si era sentito in dovere di intervenire.
«Vediamo di non esagerare, eh!»
L’espressione seria comparsa sul suo volto aveva, in parte, quietato l’animo degli insorti.
«Si è tirata indietro, non ci accompagna in gita. La Siri e De Marchi da soli non bastano. Se non troviamo un altro prof disponibile il preside dice che non possiamo partire»
«E dovrei accompagnarvi io?» il sopracciglio sollevato dubbioso non era molto rassicurante.
«Dai cazzo, abbiamo sempre fatto gite da sfigati. Questa è l’ultima prima della maturità, abbiamo organizzato tutto noi, è tutto pronto e approvato. Non ci tradire anche tu»
«Ci devo pensare e comunque è una gita del liceo, io insegno al ginnasio»
«Porta anche i tuoi piccoletti» era stata la soluzione che gli avevano suggerito in coro.
«E che ci vuole, porto anche i piccoletti» si era ripetuto infilandosi in sala professori per prendere i testi di greco.
Lo sapeva. Lo sapeva benissimo e non aveva fatto niente per impedirlo.
La vecchia Siri se ne era accorta. Lo ricordava ancora: sala tv dell’albergo, undici passate, stava guardando la finale del Roland Garros e Siri era entrata irrompendo:
«Cosa ci fate ancora in giro? Tutti in camera, veloci»
«Sono con me»
«In camera anche tu!»

A Minori, i primi di maggio, non è che ci fosse tutta questa folla.
La discoteca, uno stanzone con qualche luce stroboscopica e una saletta con un grande biliardo, la occupavano tutta loro, se si escludeva qualche curioso infiltrato autoctono. Si era fatto convincere e li aveva accompagnati. Siri e De Marchi già dormivano in albergo.
Ai maggiorenni aveva concesso una birra, sui minorenni vigilava che non consumassero alcool, la musica non gli piaceva e si era bevuto un rhum scadente.
Faceva caldo, stava per dare il rompete le righe e tutti a dormire, quando era stato coinvolto in una partita a carambola. Forse era stato un caso o forse no, c’era anche lei.
Come in un film di quart’ordine aveva passato la successiva mezz’ora a mostrarle i rudimenti.
Non facevano neanche più finta che le strusciate, gli sfioramenti, le mani sulle mani per indirizzare la stecca fossero casuali. Aveva un buon profumo e l’avrebbe stesa lì, su quel panno verde, invece si era limitato a metterla seduta, sul bordo del tavolo, dopo averla sollevata per festeggiare un buon colpo e la fine della partita. Poi erano suonati i lenti e si era dimenticato, definitivamente, di essere il professore si era lasciato prendere per mano e condurre in mezzo alla pista.
Non era stato il pensiero di Giulia, ma la precisa sensazione che tutti li stessero fissando che, in un barlume di lucidità, gli aveva impedito di baciarla.
Non gli aveva impedito, però, più tardi, di portarsela in camera.
Era stata sottile, dopo il lento lo aveva lasciato ed era tornata a chiacchierare, ovviamente di lui, con le amiche. Una volta in albergo, però, era rimasta indietro, ultima a salire le scale.
«Coraggio prof, non sei il primo…»
«Se mi chiami ancora prof mi si ammoscia, ritorno in me, e ti spedisco in camera tua»
«Pietro, Pietro» si era affrettata a dire e poi non avevano più parlato un granché.

Il giorno dopo gli dava di nuovo del Lei, lo chiamava prof, ma lo guardava dritto negli occhi.
«Ha visto prof la traduzione del Monti, un manoscritto della prima stesura dell’Iliade»
In contemporanea avevano allungato il capo sulla teca del Museo Nazionale di Napoli e al riparo dagli sguardi altrui si erano sfiorati il dorso della mano, intrecciando le dita per un attimo.
«Cantami, o Diva, del
pelide Achille l'ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei» aveva declamato lei e a lui era sfuggito un sincero: speriamo bene.
Erano stati attenti, una volta rientrati a casa, ma l’atteggiamento di quella notte in discoteca li aveva traditi, tempo qualche settimana qualcuno aveva parlato, così l’ira funesta del preside si era abbattuta, affilata, su di lui. Era forse impazzito? Quello era un liceo rispettabile, i genitori gli affidavano i figli per istruirli, non per sedurli. Era una studentessa e lui un professore. Lo avrebbe volentieri denunciato, ma Irene aveva compiuto diciotto anni da tre mesi e quindi era salvo. Dalla legge, non dal ludibrio e dall’ostracismo.
Aveva provato a difendersi. Non era una sua studentessa e lui non era il suo professore, li separavano solo sette anni, se si fossero incontrati altrove nessuno ci avrebbe visto niente di male. Non l’aveva sedotta, si erano innamorati.
Non c’era stato nulla da fare. Irene non era più tornata a scuola, il padre, un noto avvocato, lo aveva formalmente diffidato dal cercarla e l’aveva spedita all’estero per l’estate. Lui, in qualche modo, aveva concluso l’anno scolastico, aveva perso Giulia, aveva perso Irene e aveva perso il lavoro. Il preside gliel’aveva promesso e in effetti non erano spuntate altre supplenze decenti per l’anno successivo.
L’avevano salvato le sue amate lettere antiche.
Alla Loescher
non interessava un piccolo scandalo cittadino e, grazie alla segnalazione del suo professore dell’università, gli aveva commissionato l’edizione critica del De rerum naturae di Lucrezio.

Quattro anni dopo aveva una cattedra – a contratto - di letteratura latina alla
University of Kent di Canterbury, aveva rimesso in piedi la sua vita e si apprestava al tour de force della sessione estiva.
«Prego si accomodi» stava finendo di compilare il registro, non aveva alzato lo sguardo sullo studente davanti a lui e in automatico aveva detto:
«quarta egloga, sesto verso, inizi a tradurre da lì»
«Cantami o Diva …» Che diamine stava dicendo, ‘sta qua?
«Ho detto quarta egloga, sesto verso. Bucoliche, Virgilio» aveva ripetuto leggermente alterato e aveva sollevato lo sguardo dal registro.
Irene.
«Buongiorno prof» e lui aveva fatto fatica a deglutire.
«Traduca quello che le ho chiesto» aveva ribattuto cercando di mantenere la voce ferma e poi sottovoce, in italiano: cosa diavolo ci fai qui? 
«Ho seguito il consiglio di mio padre, termino gli studi in Inghilterra» gli aveva risposto seria, mentre iniziava a tradurre. L’aveva interrogata per una ventina di minuti e il voto non gliel’aveva certo regalato.
«Ti aspetto al pub qua fuori» gli aveva detto prendendo il libretto dalle sue mani.
«Ne avrò per un po’»
Aveva scosso le spalle e gli aveva sorriso: «Lo so, ho tempo»