martedì 22 agosto 2017

Per scrivere un romanzo ci vuole... quanto tempo?

Scrivere un romanzo in... quanto tempo?

Ricapitoliamo. Questo non è un corso di scrittura. Perché per scrivere, oltre a conoscere bene le regole basilari di grammatica italiana, serve avere un talento. E saper scrivere un tema al liceo non equivale ad avere talento. Se il talento c'è, allora va affinato. Come? Leggendo come se non ci fosse un domani. Poi sì, qualche suggerimento può essere utile. E quanto abbiamo fatto fin qui è sostanzialmente dare suggerimenti. Non regole. Insisto su questo punto. Sono arciconvinta che non esista il decalogo per scrivere il bestseller. Non ci sono leggi, non ci sono punti fermi. Le parole sono una materia duttile, si piegano, si adattano, spesso vanno oltre quel che si pensa di voler dire. Le parole sono magia.
Ora mi giunge voce che giri sul web un qualche suggerimento per scrivere un romanzo in dieci giorni e farne un bestseller in un mese. E conosco virtualmente autrici che, usufruendo della grandissima libertà garantita dal self publishing, licenziano un romanzo ogni venti giorni. Il dibattito sul valore di una storia in base ai tempi di gestazione si è immediatamente scatenato con le consuete partigianerie. Io posso, se vi va, portare la mia esperienza personale. Insieme alla mia socia Loredana Falcone abbiamo scritto romanzi per anni, per decenni anche, senza neanche mai pensare alla pubblicazione. Quando qualcuno vi dice di scrivere per sé, per favore, evitate il sopracciglio alzato e il sorriso sardonico. Noi lo abbiamo fatto. Limando, creando, riscrivendo, limando di nuovo senza mai far leggere le nostre cose a nessuno. Abbiamo tentato quando abbiamo capito che la nostra scrittura era matura e poteva affrontare i lettori. E non vi sto invitando ad anni di scrittura matta e disperatissima senza il benché minimo riscontro. Vi sto dicendo che, abituate a gestire con tranquillità i nostri tempi di scrittura, siamo saltate sulla sedia quando ci hanno chiesto di scrivere un romanzo in venti giorni. Non era un concorso. Era una seria proposta editoriale. E il tema era difficile. Il conflitto tra israeliani e palestinesi ai tempi dell'assedio di Ramallah. Anche solo per documentarsi ci sarebbero voluti mesi. E invece... "La guerra dei sordi" ha visto la luce e se vi cogliesse vaghezza di leggerlo lo trovate nel catalogo della Biblioteca Nazionale di Roma. Siamo soddisfatte? Sì, ma quel romanzo è breve, sulle150 pagine, e si sviluppa in un arco di tempo di una settimana. Facciamo invece un altro esempio tra le nostre produzioni. "Il puzzle di Dio" nasce da un'idea del 1985. Abbandonata e ripresa, con ben altra preparazione, nel 2002. Ci abbiamo lavorato quattro anni. Chi l'ha letto sa che è un romanzo corposo con molte tematiche di grande attualità, dal terrorismo ai foreign fighters, dall'omosessualità alla tutela dell'ambiente, dall'intolleranza religiosa all'apertura mentale nei confronti del potere del nostro cervello e del nostro corpo. Quattro anni, poi una lunga revisione, poi una serie di pareri negativi tra beta reader e agenti letterari. Poi, finalmente, la pubblicazione. Otto anni dopo averlo terminato. Ed è il nostro romanzo di maggior successo anche se nel catalogo della Biblioteca Nazionale di Roma non c'è ancora arrivato. Quale vale di più? Noi li amiamo entrambi ma, da lettrici, ci piacciono le storie di ampio respiro, con cura dei particolari, con personaggi che si facciano conoscere e apprezzare pagina dopo pagina, con trame originali in grado di sorprendere e sovvertire il pensiero comune.
Parliamoci chiaro, per favore. L'ho già detto e lo ripeto. Se i libri si dividono tra belli e brutti, gli autori si dividono tra chi scrive per reale, interna necessità e chi rincorre il mercato, il fanclub, il plot o il genere che assicura le vendite. Non sto facendo classifiche e, insisto, in entrambi i casi la letteratura non c'entra. Si parla di narrativa. Di più, di narrativa d'intrattenimento. Da ombrellone d'estate e da poltrona con tisana calda d'inverno. Può lasciare un segno, un ricordo, un input di riflessione oppure no. Non è questo il punto, o magari sì. Ma nella lettura subentra il gusto e la libertà del lettore. Proprio in questi giorni si è accesa un'altra polemica in rete. Uno scrittore, se ne desume, ha l'obbligo di aver letto alcuni caposaldi della letteratura mondiale. Se non li ha letti, e lo ammette senza eccessivi patemi d'animo, viene additato al pubblico ludibrio. Perché arrogante, perché ignorante, perché privo degli strumenti stessi per poter posare le dita su una tastiera. Ma, per assurdo, tra gli scrittori che sono vissuti prima di Proust - e che quindi non hanno letto "La recherce" - ce ne sarà qualcuno valido o no? Nessuno al mondo potrà mai aver letto tutti tutti tutti i classici che meritano di essere letti. E se appartenete a coloro che preferirebbero noi amanti delle parole e delle storie impegnati a riempire le inevitabili lacune piuttosto che a scrivere, allora cosa ci fate qui?
Un lettore è libero di seguire i propri gusti e dedicarsi all'opera omnia di Nicholas Sparks, per dirne uno che non amo. Un lettore è libero di consumare, perché di questo si tratta, romanzi brevi scritti in dieci giorni e diventati bestseller in un mese. E uno scrittore è, prima di qualsiasi altra cosa, un lettore, ricordate? Però poi subentra l'amore. E per indicizzare al meglio questa riflessione, la butto sul sessuale. Alla sveltina scritta in dieci giorni e letta in venti minuti di autobus affollato, io preferisco un amplesso con tutti i crismi. Voglio godermela. E godermela a lungo. Voglio studiare, scovare suggestioni. Voglio documentarmi. Voglio cambiare idea e delineare nuove svolte e nuovi personaggi. Voglio che il lettore venga portato piano piano al giusto grado di eccitazione. Voglio che viaggi con me e con i miei personaggi e si dimentichi del mondo, della cena, della lavatrice da stendere, delle cose urgenti e quotidiane. Voglio che rallenti quando si rende conto di esserci quasi. E voglio che si tenga stretto al cuore il volume o l'e-reader una volta finito. Ripensando, rivivendo, riflettendo. Voglio che goda come ho fatto io durante la scrittura. Ecco, sapete la differenza tra il romanzo scritto in venti giorni e quello scritto in quattro anni? L'intensità del rapporto. La stessa differenza tra una botta e via e una relazione magari complessa e dolorosa, ma lunga e vissuta fino in fondo.
Nessuno vi può dire quanto sia giusto metterci a scrivere un romanzo. Siete voi a deciderlo. Ma se amate quello che state facendo, se non state rincorrendo il fenomeno editoriale del momento, se non temete che i fan vi dimentichino non vedendo nuove uscite da una settimana all'altra, allora prendetevi il vostro tempo come un amante premuroso e mai sazio. Il lettore se ne accorgerà

venerdì 4 agosto 2017

Di stima, di vendite, di narrativa e di ombrelloni


Giorni fa ho scritto uno status su facebook denunciando la delusione ricavata dalla lettura del racconto di un autore molto considerato il cui uso della consecutio lasciava parecchio a desiderare. Nello status avevo usato il termine stimato e qualche commentatore è venuto a chiedere: "stimato da chi?" Già, chi decide se un autore è degno di stima? Ho risposto che la persona in questione gode della considerazione dei lettori, vende moltissimo, e di conseguenza viene portata in palmo di mano dagli editori. La risposta non è piaciuta e, forse, non piace neanche a me. Ma è la verità. Un mio amico scrittore, ormai frequentatore abituale delle classifiche (quelle vere, non quelle settoriali di Amazon), ama dire che uno scrittore scrive per creare un dialogo. E solo i pazzi amano dialogare da soli. Se lo scrittore non arriva al lettore, anzi ai lettori, possibilmente molti lettori, ha fallito la propria missione. In parole più semplici (e di scrittura semplice parleremo) lo scrittore, per essere tale, deve vendere. Quindi è una questione di mercato? Ebbene sì. Anche chi confonde il congiuntivo con il condizionale nel raccontare le proprie storie, se vende, ha il diritto di considerarsi scrittore e pure stimato. Con buona pace dei miei sarcastici commentatori.
Un giorno, durante un evento voluto da un editore di valore come Francesco Giubilei, ebbi l'ardire di affermare, davanti a una platea di giovani amanti dei libri e di intellettuali, che liquidare con un'alzata di sopracciglio fenomeni editoriali da milioni di copie (Fabio Volo, Federico Moccia all'epoca, J.R. Rowling, Dan Brown, E.L. James, Stephanie Meyer) significa dare dei coglioni - scusate il francesismo - a milioni di persone che si sono prese la briga di comprare un oggetto-libro, o un e-book, e di leggerlo. E che sarebbe molto più intelligente fare uno sforzo di comprensione e chiedersi perché. Ottenni un educato, ma efficace, coro di buuuuuu e mi guadagnai fama di scribacchina alla rincorsa delle classifiche. Non è così, se vi interessa saperlo. Badate, io non sto parlando di valore del testo, del messaggio, dello stile. Se queste cose valessero Luigi Romolo Carrino - tanto per fare nome e cognome - venderebbe come un assassino e avrebbe vinto tutti i premi possibili. Al lettore si arriva anche apostrofando qual è. E creando frasi dove il massimo della complessità sia anteporre il complemento oggetto al verbo e al soggetto: "un vestito bellissimo ho comprato". Che pare uno scimmiottamento dell'intercalare di Montalbano, ma non lo è. E comunque a chi legge non importa. Sì, vi sento. Tutti lì ad alzare la mano per dire "a me sì". Certo. A voi sì. A noi sì. Ma a parecchi altri no, neanche di striscio. Vogliono leggere una storia semplice, rassicurante, di facile comprensione, che non richieda alcuno sforzo e alcuna conoscenza. Altrimenti certi romanzi "storici" con degli anacronismi da rizzare i capelli non avrebbero alcuna chance. E invece...
Ricapitoliamo? I lettori italiani sono pochi. Di questi pochi solo una minima parte pretende una certa qualità, tutti gli altri non ci fanno caso a queste impuntature da intellettuali. Storia interessante? Bene. Scritta coi piedi? E che sarà mai per gente che, spesso, ha difficoltà a decidere dove mettere l'acca nel verbo avere?
E passiamo alle vendite. La narrativa italiana, oggi, viaggia per compartimenti stagni. Le case editrici snobbano e ignorano il fenomeno self - publishing (errore, grosso errore). Le case editrici analogiche (solo cartacei) arricciano l'aristocratico nasino di fronte alle case editrici digitali (solo e-book) e snobbano il print on demand che consente alle digitali di accontentare senza problemi i lettori che amano il cartaceo. Ci sono autori self che vendono migliaia di copie e - udite udite - sono migliaia di copie di e-book, ovvero quelli che a detta di moltissimi addetti ai lavori, non vendono, non decollano, non hanno un futuro. Poi sono le stesse case editrici a spigolare tra quegli autori per trovare il prossimo bestseller andando su un prodotto già testato sui lettori entusiasti. Perché i lettori di e-book esistono e aumentano di giorno in giorno, con buona pace di autori che ritengono di essere di serie A quando il loro testo esce solo in cartaceo. L'idea è che un e-book non si nega a nessuno e che gli editori digitali pubblicano la qualunque, tanto non gli costa niente. Quindi succede che ci siano, di nuovo, sopracciglia alzate quando dici che stai per uscire in e-book. Scatta l'equivalenza e-book = libercolo da ombrellone. E arriviamo all'ultimo punto, ovvero i romanzi e gli scrittori da ombrellone. Se vendi non sei un artista della parola. Se pubblichi in self sei un analfabeta con velleità di scrittura. Se esci in e-book il tuo testo è una cagata. In tutti e tre i casi, sei da ombrellone. Ricordo un editor che, letto un nostro (mio e della socia) testo lo definì "buona narrativa di intrattenimento". E io ne fui felice. Perché, come ha detto Corrado Augias, se Dumas, Hugo e Dickens fossero vivi e attivi oggi sarebbero dei favolosi romanzieri da ombrellone. Loro, Verne, Salgari, tenevano i lettori per le palle e non li mollavano, puntata dopo puntata, colpo di scena dopo colpo di scena. Roba dozzinale? La leggiamo ancora oggi e con supremo godimento.
E se mi dite che i lettori di allora erano di un rango superiore rispetto a quelli di oggi, porto a esempio mia nonna Caterina. Classe 1916, titolo di studio terzo elementare. Adorava leggere e fu sei la prima a mettermi in mano una copia vetusta de "I tre moschettieri" di Dumas, per poi passare a "Il conte di Montecristo". E parlava dei personaggi come fossero cari parenti per i quali palpitare. Ecco. Avercene lettori così.