mercoledì 30 marzo 2011

L'incipit del romanzo storico che stiamo scrivendo

Periodo: 1865
Ambientazione: Secondo impero messicano
Voce narrante: Carolina Crivelli, giovane donna milanese, aspirante giornalista.

Pronti?
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“Il nostro ultimo incontro avvenne sessantadue anni fa. Ma l’annuncio della sua morte mi ha colpita. Nessuno le ha dedicato attenzione: non fa notizia una signora di ottantasette anni che muore in solitudine in uno sperduto castello del Belgio. Eppure la morte di Carlotta di Sassonia Coburgo Gotha, ex-arciduchessa d’Austria, ex-viceregina del Lombardo Veneto, ex-imperatrice del Messico, vedova da sessant’anni del suo amatissimo Max, ha avuto il potere di rompere una diga nel mio vecchio cuore stanco. E di aprire la strada a un fiume di ricordi. Tanto più dolorosi perché dolci, bellissimi, lontani.
Me la sono sentita vicina Carlotta. Aveva soltanto un anno più di me e il dolore per la morte dell’uomo che amava l’aveva resa, dicono, pazza. La immagino nel suo solitario castello di Bouchout, ancora bella nonostante l’età, mentre ascolta ossessivamente dalla tromba di un grammofono La paloma. Una vecchia, struggente canzone per ricordare i momenti felici, la luce folgorante dei cieli del Messico, i profumi, i colori. Carlotta era bella, talmente bella che quando Massimiliano la presentò alla corte di Vienna, ne fecero la miss di palazzo, nonostante Schönbrunn fosse già il regno della splendida Sissi.
Col tempo diedero a Carlotta tutte le colpe. Dissero che era stato per lei che Massimiliano d’Asburgo aveva abbandonato il rifugio sicuro del castello di Miramare, a Trieste. Voleva metterle sui capelli biondi una corona imperiale, perché lei era vanitosa, ambiziosa, mai contenta. Eppure io la ricordo sorridente, felice e bellissima in quella lontana serata a Città del Messico. Al braccio del suo Max, biondo e splendente anche lui, chinava graziosamente la testa salutando tutti noi che affollavamo il salone delle feste del Palacio Nacional.
Sono passati sessantadue anni e io non ho neanche un disco da far girare sul grammofono, perché nessuno pensò mai di incidere A fin de que brille el sol, la canzone del povero Juan. Ma è tutto così nitido.
Sì, me la sento vicina Carlotta. Nella folla di dame e cavalieri che le resero omaggio in quella tiepida sera di aprile, Carolina Crivelli, con un abito di chiffon rosa cenere e l'aria sfrontata, non attrasse la sua attenzione. Eppure tutte e due andavamo incontro sorridendo a un destino che non avremmo mai immaginato. A una vita  ben lontana da quella che avevamo sognato, sperato, voluto.
Oggi, 1927, a più di una vita di distanza da quella sera, in un secolo diverso da quello che ci vide felici, la principessa più bella di Schönbrunn, Carlotta di Sassonia Coburgo Gotha, è morta. E io, Carolina Crivelli, mentre fuori dalla mia finestra scorre il traffico motorizzato del XX secolo, me ne sto seduta davanti a una foto resa nebulosa dal tempo. E voglio raccontarvi una storia…”

martedì 29 marzo 2011

Oggi sulla Sesia: E bravo chi capisce dove finisce lo spettacolo e inizia la realta'

Altro che Grande Fratello. Nell’epoca del reality-show la televisione travalica lo schermo e contamina la vita reale. O forse è la realtà che non è più tale. Mentre i notiziari sono giustamente concentrati sulla situazione in Libia e sulle conseguenze del catastrofico terremoto giapponese, nell’ultima settimana abbiamo assistito a un gioco di scatole cinesi televisive che rischia di confondere non poco i telespettatori. Per chi non lo sapesse è in corso, con alterne vicende di ascolti, l’ottava edizione dell’Isola dei Famosi, il reality show condotto da Simona Ventura. Ora succede che, visto il gradimento in ribasso, la Ventura decide di metterci del suo e, approfittando degli impegni della Nazionale (e quindi della pausa del campionato di calcio), può saltare la messa in onda di “Quelli che il calcio…” per togliersi la soddisfazione di “naufragare” a propria volta in Honduras. D’altronde, e anche questo non siete tenuti a saperlo, Simona non ne ha mai fatto mistero: non dovesse condurla (e non cederebbe la conduzione a niente e nessuno), l’Isola vorrebbe viverla da concorrente. Ovvio che resterà lì il minimo indispensabile per farsi vedere in bikini e dispensare ai concorrenti in crisi (glicemica, più che altro) il suo ormai leggendario e onnicomprensivo consiglio: approfitta della vetrina, che quando ti ricapita più? Vale anche per lei. Mentre scriviamo la Ventura è in viaggio per l’Honduras con la consapevolezza che la fortuna aiuta gli audaci. E la fortuna, nel caso specifico, si chiama Fabrizio Corona. Il controverso personaggio, noto per le vicissitudini legali, gli eccessi e il tiramolla con Belen Rodriguez, lo scorso venerdì 25 marzo è piombato in casa della ex-suocera ed ha prelevato, senza averlo concordato con l’ex-moglie Nina Moric, il proprio figlio Carlos Maria. Caso vuole che Nina Moric non fosse presente perché è una delle concorrenti dell’Isola dei Famosi. A convincerla a lasciare il figlio di otto anni alle cure della nonna un compenso, pare, di 200mila euro e la volontà di tornare sui piccoli schermi dopo un periodo di oscuramento professionale e personale. Considerazioni che, ne siamo certi, passeranno immediatamente in secondo piano quando Simona Ventura in carne e ossa le comunicherà il proditorio evento ai danni di Carlos Maria. Danni per modo di dire perché il settimanale “Oggi” sostiene che Fabrizio Corona avrebbe preso figlio e fidanzata e sarebbe partito alla volta di Eurodisney. Fidanzata? Sì, perché Belen, dopo aver pubblicamente dichiarato che Fabrizio non faceva più parte della sua vita, avrebbe avuto l’ennesimo ritorno di fiamma. Incurante delle conseguenze professionali. Non è un segreto infatti che il suo manager le avesse caldamente consigliato di chiudere con Corona. Riusciamo a immaginare cosa succederà quando Nina Moric verrà messa al corrente di tutto ciò? Noi no, ma la Ventura versione naufraga ce l’ha chiarissimo. E le coincidenze diventano sospette.
Laura Costantini

lunedì 28 marzo 2011

Laura Costantini e Niccolo' Pizzorno per il Giappone: Quelli della scatola


“Redazione Cronache d’Italia. Ha un messaggio da lasciare?”
Mi tocca una volta a settimana il turno al centralino della trasmissione. E se pensate che sia divertente raccogliere le smanie di protagonismo del telespettatore medio, non avete ben presente di cosa siamo capaci noi italici.
“Dovete dirle che io l’ho fatto per amore.”
Appunto.
“Signore, deve darmi il suo nome e dirmi a chi è diretto il messaggio. Non accettiamo comunicazioni anonime, come espressamente specificato da Annamaria.”
Annamaria è la conduttrice di Cronache d’Italia. Ovviamente ha un cognome, ma la gente ama chiamarla così. Come fosse un’amica. Sentissero i commenti che fa sulle loro storie melense.
“Mi chiamo Vincenzo Benassi. Vincenzo Etsuya Benassi.”
E che nome sarebbe Ezuia?
“Il mio messaggio è per Gemmei. Dovete dirle che io l’ho fatto per amore. Solo per amore. Quelli della scatola dicevano che l’amore giustifica tutto...”
(continua a leggere QUI e, soprattutto, contribuisci)

L'illustrazione e' di Niccolo' Pizzorno

domenica 27 marzo 2011

Autori per il Giappone: contribuite anche voi.


Questa è solo una delle splendide illustrazioni che potrete trovare sul sito
insieme a racconti di scrittori famosi, esordienti, blogger e quant'altro (c'è anche il mio). Lo scopo è raccogliere aiuti per il Giappone. Ammirate le splendide illustrazioni, leggete qualche racconto e poi cliccate in basso, sul banner di Save the children e fate una donazione. Basta anche un euro per dare una mano. Tante piccole gocce creeranno un mare di solidarietà.
L'idea l'ha avuta Lara Manni, scrittrice e blogger che molti di voi conosceranno per i suoi splendidi Esbat e Sopdet, due romanzi imperdibili. I contributi, a oggi, sono più di trecento. Una vera biblioteca tutta dedicata al Giappone e al suo popolo in difficoltà.

martedì 22 marzo 2011

Oggi sulla Sesia: Qui si fa l'Italia o si muore



“Qui si fa l’Italia o si muore”. E avesse avuto ragione Garibaldi, saremmo morti da tempo. Perché ci voleva il 17 marzo 2011, centocinquantesimo dell’Unità d’Italia, per scoprire che il migliore dei mondi possibili per tante anime belle tra le Alpi e la Sicilia era quello fotografato dal Congresso di Vienna. Correva l’anno 1815. Napoleone Bonaparte era stato sanguinosamente sconfitto a Waterloo e l’Europa che conta si era riunita nella capitale di Francesco I per decidere come disfare quello che il piccolo imperatore corso aveva fatto. Per l’Italia (che era, e per molti è ancora, solo un’espressione geografica) la divisione si rifece allo status quo ante Napoleone I. Il regno di Sardegna, ovvero la tana del futuro invasore sabaudo, alla guida di Vittorio Emanuele I. Il regno Lombardo Veneto espressamente creato e sottoposto all’Arciduca Ranieri, fratello dell’imperatore Francesco I. I ducati di Parma, Modena, Massa e Lucca. Il granducato di Toscana, in mano a Ferdinando III. Lo stato della Chiesa, retto da papa Pio VII, e dulcis in fundo, il regno delle Due Sicilie sorto dall’unificazione dei regni di Napoli e di Sicilia e affidato al borbonico Ferdinando I. Nove stati distinti e separati. Ognuno con propri leggi, idioma (dialetto sarebbe più appropriato), bandiera, esercito. Nel rigurgito di revisionismo storico che ha circondato la celebrazione del centocinquantesimo dell’Unità, si è scoperto che i Franceschi e i Ferdinandi (all’epoca non si aveva molta fantasia nei nomi) erano fulgidi esempi di sovrani illuminati che, se lasciati in pace da loschi figuri quali Mazzini, Garibaldi e Cavour, mossi da biechi interessi e manovrati da poteri occulti come la massoneria e i capitali dei Rothschild, avrebbero portato i rispettivi regni alla pace, alla prosperità, alla giustizia. Senza la spedizione dei Mille di quel mercenario di Giuseppe Garibaldi, non sarebbe esistiti brigantaggio e mafia. Per non parlare della questione meridionale. Senza quell’intrigante di Giuseppe Mazzini, il Lombardo Veneto oggi sarebbe perfettamente bilingue, pulito e ordinato, con un PIL invidiabile e ben lungi da tangentopoli, calciopoli, affittopoli e Milano da bere assortite. E che dire di Roma. Se i bersaglieri del generale Cadorna fossero rimasti a casa loro, chi mai avrebbe avuto l’ardire di chiamare “ladrona” la capitale di Sua Santità? Si è sentito questo e molto altro in questi giorni di festeggiamenti. Fiacchi, come il vento che non ha saputo dispiegare il tricolore a Roma o le luci che non hanno illuminato la Mole Antonelliana. A dimostrazione che c’è tantissimo ancora da fare. E nell’attesa che un terrone torni a presentare il passaporto ad almeno quattro diverse frontiere prima di arrivare a Milano, negli occhi restano le lacrime del coro dell’Opera di Roma che sente il pubblico cantare “Oh mia patria, sì bella e perduta”. Proprio come ai tempi di quel venduto all’oppressore sabaudo di un Giuseppe Verdi.

Laura Costantini

lunedì 21 marzo 2011

Odissea (ma non quella in Libia)

Correva l'anno 2007 e scrivevo cosi':

Intanto diciamo subito che mi considero una persona fortunata. Sarà che la miseria vera l'ho vista con i miei occhi e quindi... Però voglio fare delle puntualizzazioni necessarie: ho il tesserino da giornalista ma lavoro come precaria con un contratto a termine da programmista-regista, qualifica di totale invenzione Rai. Questo significa che lavoro più o meno, nove mesi all'anno. Nel frattempo vivo, mangio, metto benzina, pago quanto mi necessita. Inoltre ho appena versato 270 euro alla Gestione Separata dell'Inpgi (l'ente di previdenza dei giornalisti) perché la Rai non mi ha assunta da giornalista (anche se il lavoro che svolgo è quello) e quindi i versamenti me li fa all'Enpals (l'ente di previdenza dei lavoratori dello spettacolo). I due tipi di contributi non sono ricongiungibili e quindi non so bene come dovrò regolarmi il giorno in cui andrò in pensione. Tutto questo per darvi un quadro chiaro del mio umore quando, questa mattina, mi sono recata al supermarket per la spesa settimanale, già consapevole dell'odissea che mi aspettava. Parcheggio l'auto nel garage, mi impossesso del carrello (succede anche a voi che le ruote se ne vadano ognuna per proprio conto?) e affronto subito il primo ostacolo: la spilletta contro l'AIDS. Me la mette in mano una ragazza e mi dice che costa 5 euro, ma che l'offerta è libera. Gliela restituisco con cortesia, dicendole che l'ho già acquistata in precedenza (è vero, lo giuro). La tizia mi liquida con un'occhiata piena di disprezzo. Salgo la rampa mobile ed entro dalle porte scorrevoli nel centro commerciale, secondo ostacolo: le bamboline tessute a mano dagli indigeni. Una signora in carne me la schiaffa in mano, costa 10 euro ma l'offerta è libera. Rispondo che ne ho già regalata una a mia nipote (vero anche questo). La signora mi liquida con un "certo, come no!". Procedo rasente alle vetrine, cercando di dribblare ma... terzo ostacolo: la maglietta di Save the Children. Mi viene incontro una ragazza con pettorina ufficiale e cartellina in mano. La maglietta costa 15 euro, ma l'offerta è libera, in nome dei bambini del mondo. Rispondo che sono già la mamma a distanza di una bimba africana. La ragazza mi fissa come fossi uno scarafaggio e volta le spalle disgustata. All'orizzonte c'è la rampa di accesso per il supermarket. Forse ce la faccio ma... no, quarto ostacolo: il sacchetto di mele per l'AISM. Non so quanto costi, al boy-scout cinquantenne in bermuda e fazzoletto al collo rispondo con un secco "No, grazie!". E' per la ricerca, insiste minacciandomi quasi con il sacchetto di mele golden. Lo so, ma io faccio le offerte a Telethon (vero anche questo, tranquilli). Ma questa è un'altra cosa, ribatte imperterrito. Abbasso lo sguardo e procedo, deve scansarsi e, se non fosse un seguace di Baden Powell, probabilmente mi apostroferebbe con un bel "vaffa...". Salgo la rampa per il supermarket. In cima, in agguato, ci sono agguerritissime e pingui signore, ovvero l'ostacolo numero cinque: la raccolta di derrate per i poveri. Non chiedono loro, ti mettono in mano volantino e borsa di plastica con aria minacciosa. Agguanto il tutto e cerco di entrare tra gli scaffali, ma l'ostacolo sei è lì: la campagna per la prevenzione del cancro al seno. Non chiedono soldi, loro, ma vogliono farti prendere un appuntamento per una mammografia. L'ho appena fatta, rispondo (vero, sul serio, devo ancora ritirare il risultato) e la tipa mi guarda compassionevole: faccia come vuole, sbotta, peggio per lei. Mentre medito sull'involontaria (?) maledizione, entro tra gli scaffali quasi certa che l'odissea, per oggi, sia finita. Macché, mi si profila davanti l'ostacolo sette: una donna chiaramente andina che mi invita a comprare degli orribili fuseaux equi e solidali. Non mi lascio convincere, allora mi mette in mano un volantino dove sono indicati tutti i prodotti del Sud America: falsa nutella, riso, caffé, zucchero di canna. Non glielo dico, ma lo zucchero di canna l'ho provato nel thè e me lo ha fatto diventare torbido come un cappuccino andato a male.
Ora vi chiedo: è giusto? E' giusto essere sottoposti a continue pressioni, a continue richieste, a continui, gratuiti giudizi se si risponde di no? Ma io dove dovrei prenderli gli abbondanti 50 euro (tanti ce ne sarebbero voluti) di offerte a cause giuste, per carità, ma sempre più numerose? Non sarebbe più equo e solidale mettere degli stand e lasciare alla coscienza di ciascuno a quale accostarsi, a quale campagna aderire, quanto spendere? Sarò impopolare, lo so, ma io ne ho pieni i carrelli di gente che mi chiede soldi! Anche perché, in tutta onestà, io a chi dovrei a mia volta chiederli?
Laura

lunedì 14 marzo 2011

Il maestro, Margherita e la magia di una lettura difficile


Partiamo dall'inizio. Non ero convinta. Sul romanzo di Bulgakov avevo ricevuto pareri contrastanti: da capolavoro assoluto e una fantozziana cagata pazzesca. Restava il fatto che "Il maestro e Margherita" era ed e' uno di quei libri che "devi" aver letto, non foss'altro per poterne parlare con cognizione di causa (cosa che, per inciso, non e' prassi consolidata tra dotti commentatori in Rete). Cosi', sconfitta in partenza da "Guerra e pace" (che giace sul mio comodino ormai da tempi immemori), ho decido di prendere Woland per le corna e ho dato inizio al cimento. Non e' stata una lettura facile. La mia familiarita' con i chilometrici nomi russi e con la traslitterazione del cirillico si perde nei tempi eroici dell'universita', quando dopo due trenta e lode in storia della Russia e dell'Asia Centrale accarezzai l'idea di studiare il russo. L'idea mi si rivolto' contro come il grosso gatto di Bulgakov accarezzato contropelo e quindi desistetti. Non e' stata una lettura facile. La scrittura di Bulgakov e' densa di non detto, di rimandi storici, di satira contro il regime che lo tenne ai margini negandogli la tessera di scrittore (come se tale qualifica potesse darla un governo, un partito... meditate gente, meditate). Il romanzo va contestualizzato negli anni in cui venne scritto e riscritto e poi lasciato sostanzialmente incompiuto. E' un fuoco pirotecnico, uno spettacolo circense come solo un russo poteva immaginarlo. Ha gli stessi colori intensi della cattedrale di San Basilio, delle icone, dei mosaici. Ha lo splendore delle cupole dorate. C'e' l'anima russa dentro. Bulgakov ci ha lasciato una serie di scatole cinesi, anzi, una matrioska in forma scritta. E non e' un caso se la parte piu' preziosa sia quella custodita piu' a fondo tra le quasi 500 pagine di storie, di intrecci, di magie e di ricoveri in manicomio. Ho adorato il romanzo di Ponzio Pilato e ho condiviso la decisione di Margherita di vendersi l'anima al diavolo pur di salvare quel romanzo che ossessiona il maestro al punto da spingerlo alla pazzia. Il romanzo di Ponzio Pilato e' il nocciolo di questo libro e del messaggio che Bulgakov ci ha lasciato. Il maestro ha scritto la storia dell'uomo piu' frainteso nella storia dell'umanita'. Il vigliacco per eccellenza, colui che non seppe ascoltarsi e preferi' lavarsene le mani piuttosto che prendere la decisione di salvare il Nazareno. Il maestro lo immagina, di piu', lo crea devastato dall'impossibilita' di tornare indietro per salvare quel giovanotto. Ponzio Pilato si addormenta e sogna che il supplizio sul Golgota non sia mai accaduto. Ma la realta' lo riafferra, implacabile e lo destina a un limbo dove il tormento e' senza fine perche' e' rimpianto. Il maestro e' talmente ossessionato dalla storia e dal destino di Ponzio Pilato da decidere di distruggere il manoscritto e di rinchiudersi in manicomio. Ma non serve, perche' il manoscritto ce l'ha tutto scritto nella mente. La vera prigione di Ponzio Pilato, il vero rimpianto sul coraggio perduto (o mai trovato) e' proprio lui, il maestro. Per questo Woland, Azazello, Ippopotamo e Koroviev piombano su Mosca e sconvolgono tutto il mondo stantio dell'intellighenzia creando uno scompiglio, un vortice di distruzione che ha il suo fulcro nella necessita' di liberare il maestro dal manicomio, restituirlo all'amore incondizionato di Margherita. Ucciderlo. Anzi, ucciderli entrambi. Una morte che e' rinascita per i due amanti e liberta' per Ponzio Pilato. Il personaggio, cancellato dalla memoria del suo creatore, e' libero di riprendere la passeggiata col Nazareno su una strada di luna, di riprendere a parlare di umanita' e di filosofia con quel giovane dall'aspetto dimesso e dalla grandissima mente. Margherita e il maestro sono liberi a loro volta di continuare ad amarsi in un livello di esistenza superiore, che nulla ha a che spartire con la nostra idea di inferno. E Woland? La solitudine di Satana alla fine del romanzo e' il momento piu' alto, laddove egli spiega che l'ombra e' parte integrante della luce. Woland e' strumento di Cristo in persona. E' Cristo che lo ha mandato a liberare Ponzio Pilato dalla mente del maestro, a liberare il maestro dalla propria ossessione. Una simbologia che si dispiega e riannoda tutti i fili lasciati in sospeso dandoci la reale misura del potere della scrittura, anzi, della creazione attraverso le parole.

sabato 12 marzo 2011

I miei articoli per "La Sesia": soldi televisivi

La notizia è rimbalzata di pagina in pagina, di sito in sito. Giuliano Ferrara torna in Rai. Da lunedì 14 marzo riproporrà il suo “Qui Radio Londra”, una striscia quotidiana nella stessa collocazione che fu di Enzo Biagi. E già questo la direbbe lunga. Ma non basta. Per quei cinque minuti di messa in onda giornaliera pare che Ferrara incasserà da viale Mazzini tremila euro lordi. Fanno 600 euro al minuto. Fanno 500mila euro l’anno. Fanno un milione e mezzo di euro per un contratto di tre anni (due più uno se tutto va bene). Immediate le polemiche con botta e risposta su forum e pagine face book. Perché 600 euro al minuto per Ferrara sono parecchi di meno dei 4000 e spicci euro al minuto che Roberto Benigni ha totalizzato a Sanremo. Con l’aggravante che Benigni è di sinistra e quindi tenuto a non indossare cachemire, a non andare in vacanza a Saint Moritz, a non avere la barca e, soprattutto, a non guadagnare cifre simili. Poco conta che quel quarto di milione di euro l’abbia dato in beneficenza. La domanda più gettonata dai sostenitori dell’elefantino Ferrara è: chi decide che Benigni se li merita e Giuliano no? Il pubblico sovrano, risponderebbe Simona Ventura che in mezzo a polemiche del genere si è trovata spesso e volentieri. Indimenticabili i 750mila euro incassati dal “naufrago” Albano Carrisi nel 2005. Non portò a termine l’avventura isolana, ma i picchi di audience durante il divorzio da Loredana Lecciso in diretta satellitare sono rimasti nella storia. Come resteranno nella storia gli ascolti di Benigni lo scorso 17 febbraio: sfondata la soglia record del 60% con 18 milioni di telespettatori sintonizzati su Raiuno e sul Festival di Sanremo 2011. Uno share da mondiali di calcio (per non soffermarsi sul valore strettamente culturale) per 250mila euro. La stessa esatta cifra finita nelle tasche di Andy Garcia, approdato all’Ariston per strimpellare “Cuba libre” al pianoforte con ben altri risultati. Certo, tornando a Giuliano Ferrara per il quale la direzione generale Rai si è spesa a tempi di record, ha più senso retribuire la sua cultura e la sua verve partigiana con 3000 euro ogni 5 minuti che non versarne 1500 a puntata a Rasa Kulyte. Chi è Rasa Kulyte? La dea fortuna del Lotto alle Otto, ex miss Lituania, per gli amici (tra cui il premier) Giada. Per lei (ma la notizia è stata smentita) si sarebbe tentato un contratto ad personam cui l’ufficio del personale Rai avrebbe obiettato che non si poteva pagare la Kulyte 1500 euro per starsene ferma e zitta in tutto il suo splendore, quando il conduttore Tiberio Timperi percepisce 400 euro a puntata per seguire le estrazioni del Lotto. Alla fine Giada/Rasa ha dovuto accontentarsi di 300 euro a puntata. Perché alla fine le donne in tv sono le meno esose. Antonella Clerici prese la metà dei soldi di Bonolis per fare un festival con più ascolti. E a fronte delle vallette del passato, le tanto vituperate Belen e Canalis si sono accontentate di 160mila euro a testa.
Laura Costantini

venerdì 11 marzo 2011

Pensare ad altro? No, pensare alto

Ho bisogno di alzare lo sguardo, di partire per altri lidi, di pensare "alto" sorvolando a volo d'uccello la meschinita' cui ci costringono giorno dopo giorno. E cosa puo' portarti oltre la banalita' se non un libro? In attesa di riuscire a portare a termine la lettura (faticosa, ma quanto importante) di "Il maestro e Margherita" di Bulgakov, vi riprongono le mie impressioni su un altro libro difficile ma fondamentale: "Underworld" del genio Don DeLillo.

“Ti sei mai imbattuto nella parola velleità? Possiede una bella eco tomistica. La volontà al suo livello più basso. Una piccola cosa, un desiderio, una tendenza. Se hai una volontà debole, finisci per vivere nelle pieghe più superficiali delle tue preoccupazioni. Stiamo andando a parare da qualche parte?”

“E’ la tua confessione, padre”

Il dialogo è tra Nick Shay (ma il suo vero cognome è Costanza, suo padre è uscito a comprare le sigarette e non è più tornato. Nick è un adolescente arrabbiato, talmente arrabbiato da aver ucciso un uomo senza alcun motivo valido. Finisce in riformatorio, poi in una scuola per ragazzi speciali, gestita dai gesuiti ) e Padre Paulus. Un dialogo surreale, come quasi tutti quelli che Don DeLillo ci propone in questo monumentale romanzo “UNDERWORLD” di 880 pagine (ed. Einaudi).
Nick Shay è solo uno dei protagonisti di queste pagine che, non ve lo nascondo, ho faticato a leggere fino in fondo. Sarà che all’inizio DeLillo dedica 59 pagine alla descrizione, quasi la telecronaca diretta, di una partita di baseball. Si tratta della finale di campionato del 1951 tra i Giants e i Dodgers, tutte e due squadre di New York. I Giants sembrano destinati alla sconfitta, poi alla battuta va Bobby Thompson. Ralph Branca gli lancia la palla, Bobby la colpisce ed entra nella leggenda con un fuoricampo cui assistono Frank Sinatra ed un gruppo di suoi amici, tra cui il direttore dell’F.B.I. Edgar J. Hoover. Una messe di informazioni enorme, ma tutto quello che DeLillo vuole dirci, in realtà, è che la palla del fuoricampo finisce nelle mani di un ragazzino di colore che si è imbucato.
Cosa c’entra Nick Shay? Lo scopriremo molto più avanti, seguendo innanzitutto le sorti di quella storica palla da baseball macchiata di verde dall’impatto con un pilone dello stadio e, attraverso essa, la storia degli Stati Uniti avanti e indietro tra il 1951 (anno della partita, ma anche anno del primo esperimento nucleare dell’Unione Sovietica all’interno dell’atmosfera), il 1962 (la crisi dei Tredici giorni con Cuba e il rischio della Terza Guerra Mondiale), gli anni della contestazione giovanile tra il ’68 e il ’70, le lotte contro la discriminazione razziale, l’elite radical-chic newyorkese e un’artista che dipinge i bombardieri nucleari americani abbandonati nel deserto dell’Arizona, l’affermarsi di una mentalità ecologista e di riciclo e recupero dei materiali di scarto. Nick Shay si occupa di rifiuti, gira l’America alla ricerca dei migliori metodi di riciclo e recupero. Non è un appassionato di baseball, non è appassionato di niente in realtà. Non riesce a superare l’abbandono del padre e si è convinto che sia stato rapito e ucciso, lui piccolo allibratore di Little Italy, dalla mafia italiana. Tra l’altro è bravissimo a imitare la voce roca del classico mammasantissima in puro stile “Padrino”.

John Updike di questo libro ha detto: “DeLillo riesce a leggere le ambiguità sinistre della recente storia americana nella nostra vita di tutti i giorni,soffocata dalla tecnologia.”

Salman Rushdie: “Underworld è uno splendido libro di un maestro americano.”

Non so se hanno ragione. So che leggere questo romanzo-fiume è una full-immersion nel mondo americano, nelle sue contraddizioni, nei suoi difetti, nei passaggi fondamentali della sua storia recente. Lo stile di scrittura è molto particolare e, credo, non passerebbe il vaglio di certi censori in giro sul Web. Soggetti plurali che reggono verbi al singolare, ripetizioni ossessive nei dialoghi, il passaggio senza soluzione di continuità da una situazione ad un’altra. Si parla della madre di Nick Shay, invalida, chiusa in una stanza con un televisore e l’impianto di aria condizionata. Poi, all’improvviso: “Aveva delle impunture rosse…” La mamma di Nick Shay? No, la palla da baseball marca Spalding di cui si era parlato circa quattro pagine prima. Un esercizio di concentrazione senza pari. Ma ci sono delle perle, tante, troppe per citarvele tutte.
Ancora dal dialogo tra Nick Shay e padre Paulus:

“…Credevo di non dover imparare le cose a memoria.”

“Sono le idee, che non devi imparare a memoria. E non prenderci troppo sul serio, quando arricciamo il naso di fronte all’apprendimento a memoria. La ripetizione a memoria aiuta a costruire l’uomo… Le cose di ogni giorno rappresentano la conoscenza più trascurata. Questi nomi (stanno parlando delle parti che compongono una scarpa n.d.r.) sono vitali per il tuo progresso. Cose quotidiane. Se non fossero importanti, non useremmo una parola così splendida di derivazione latina. Ripetila.”

“Quotidiano.”

“Una parola straordinaria che suggerisce la profondità e la portata del luogo comune.”


Se, come me, siete appassionati di storia americana, non potete perderlo.

mercoledì 9 marzo 2011

Resistenza in nome della nostra bandiera


“A tutti gli ignari: se potete parlare male di questa bandiera è perché, prima di voi, qualcuno difendendola ve ne ha dato il diritto”

Vi invito a segnalare e diffondere l'iniziativa di Morgan Palmas
in difesa della nostra bandiera.
Tutti i particolari QUI

lunedì 7 marzo 2011

Un passo avanti

Vogliamo considerarlo cosi', un passo avanti. Dopo lunghe considerazioni e riflessioni, siamo giunte alla conclusione che sarebbe stato inutile tenere in piedi due blog in un periodo in cui il genere web-log e' a rischio estinzione, surclassato da Fbook e Twitter. Quindi, dopo aver congedato quello che amiamo considerare il nostro blog originale, abbiamo chiuso i battenti anche dalle parti di le storie di Lauraetlory
Voi che ci state leggendo vi trovate sull'unica pagina attiva per seguire le avventure di Lauraetlory: due scrittrici in Rete.

Speriamo vorrete continuare a farlo, perche' noi non abbiamo alcuna intenzione di mollarvi.

Laura e Lory

venerdì 4 marzo 2011

ILLOCALINO

... lo dice il nome, è un piccolo ristorante che si affaccia su piazzale Jonio. Pochi tavoli in un'atmosfera intima e piena di calore, il calore che sa infondfergli Giuditta, la direttrice, una donna dal sorriso aperto e cordiale, dai modi gentili e con un gusto molto particolare. Ieri sera, alla faccia della gnagnarella che ci ha tediato tutto il giorno e dell'umidità che si tagliava col coltello, siamo state sue ospiti a cena. Il menù, molto particolare, lo abbiamo scelto, portata per portata, io e Laura e lo chef, Ugo, lo ha realizzato in maniera superba.
Tra un tortino di patate alla napoletana, una lasagna broccoli e salsiccia e un americanissimo cheese cake ( per non parlare delle fettuccine pomodoro, basilico e mozzarelline di bufala, dell'involtino di pollo ripieno di philadelphia e bresaola, dello spezzatino con vellutata di fagioli neri e della torta al cioccolato...) ci siamo intrattenute con gli ospiti del locale chiacchierando amabilmente del nostro "Fiume Pagano" e del recentissimo "New York is a woman" prodotto dalla mia prolifica metà letteraria.
Per il mio carattere piuttosto schivo essere al centro dell'attenzione non è stato, almeno per una volta, affatto imbarazzante. Il merito, va riconosciuto, è tutto di Giuditta che ha saputo trasformare un piccolo evento letterario in una serata di chiacchiere, buon cibo e buon vino tra amici. E di questo le sono molto grata.
E' bello trovare delle persone piene di entusiasmo e ancor più bello è scoprire  in loro la voglia di realizzarsi e di promuovere la realizzazione degli altri. Nello specifico a Illocalino troverete libri a volontà, potrete gustare magnifici piatti mentre ne sfogliate le pagine e se vorrete potrete acquistarli portando a casa un po' del dolce sorriso di Giuditta, un pizzico della sua cordialità e, perchè no, una buona storia.
Lory
ILLOCALINO PIAZZALE JONIO, 36 ROMA

mercoledì 2 marzo 2011

I miei articoli per "La Sesia": Segnali

Poche cose sono mendaci quanto la televisione. Eppure a volerli vedere dei segnali ci sono. Sabato scorso è tornato “Ballando con le stelle”. Settima edizione. Formula di sempre, scenografia di sempre, conduttrice di sempre. Il palinsesto opponeva “La corrida”, show rodatissimo e guidato da un ottimo Flavio Insinna. Ci si aspettava una batosta negli ascolti. E c’è stata. Per i dilettanti allo sbaraglio di Canale5. Dieci punti percentuali di share, che sono tanti. Un caso? Può darsi. Gioca la curiosità del nuovo cast messo insieme dalla Carlucci, gioca il battage pubblicitario e l’annuncio di un inedito Roberto Vecchioni nelle vesti di ballerino per una notte. Ma resta il fatto che “Ballando con le stelle” mette in scena un talent-show dove non si vince niente, non ci si insulta reciprocamente e nessuno viene mandato allo sbaraglio per il gusto di sbeffeggiare e veder scorrere lacrime e sangue. L’unica cosa che scorre è il sudore dei concorrenti che toccano con mano quanto ciò che appare facile e leggiadro in pista, sia frutto di massacranti ore di prove. Qual è il segnale? L’elogio dell’impegno, della professionalità, del sacrificio. E dell’eleganza. Il nome di Barbara Capponi dirà poco alla maggior parte dei lettori. Giornalista economica e conduttrice di alcune edizioni del Tg1, Barbara Capponi oggi è una bella donna di 42 anni. Ma è stata finalista di Miss Italia tanti anni fa e il motivo si percepisce ancora oggi. Snella, in splendida forma, già ben calata nel ruolo di ballerina, potrebbe osare molto di più nel look. Le è stato fatto notare durante la diretta di sabato scorso dalla presidente di giuria che, ben lontana dalla moda scollacciata delle veline, è però abituata a vedere danzatrici professioniste ostentare costumi che esaltino corpi perfetti e movenze sensuali. Ma Barbara Capponi ha fortemente voluto un costume castigato che nulla ha tolto alla sua esibizione. Poca cosa? Può darsi. Ma è un segnale. Come un segnale è stata la vittoria sanremese di un testo come quello di Roberto Vecchioni. Un big della canzone impegnata, un poeta di lungo corso che certo non aveva bisogno di mettersi in gara. Soprattutto alla luce delle ultime edizioni del festival, trionfi incontrastati di amici e amiche di Maria De Filippi. Poteva succedere di nuovo, con Emma Marrone. Giovane, carina, con una gran voce e in abbinamento con il fenomeno musicale dei Modà per una canzone che è la più trasmessa dai network radiofonici. Le vendite la premieranno, poco importa che sia arrivata seconda. Eppure è un segnale. Il segnale che c’è ancora posto per il valore, l’esperienza, la costanza dell’impegno. Se a vincere il Festival di Sanremo è un uomo con tutte le sue rughe e la sua lunga carriera. Se a vincere una sfida televisiva del sabato sera è uno show che mette in scena la cura dei particolari. Se una bella donna rifiuta di mostrare più del necessario. E se tanta gente canta insieme a Vecchioni: questa maledetta notte dovrà pur finire.

Laura Costantini