giovedì 28 settembre 2017

Doccia fredda #8 Il calcio in cielo

Siamo all'ottavo appuntamento.
Una piccola riflessione: io mi sto divertendo e, mi pare di capire, anche voi.
Sarebbe bello se lo spirito, al netto delle discussioni che, a mio parere, sono molto interessanti, restasse quello del gioco dove, per forza di cose, non si vince tutti.
La maggior parte di noi partecipanti (ebbene sì, partecipo anche io, Laura, e potrete vendicarvi se capirete quale sarà il mio racconto) scrive e lo fa professionalmente. Quando arriveranno gli esoridenti verrete avvisati. E se scriviamo e pubblichiamo, dobbiamo accettare il giudizio sovrano dei lettori. Anche se ci distrugge. Ok?

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IL CALCIO IN CIELO

C’era una volta Scizia.
Scizia era bella, così bella che nessuno poteva guardarla senza indossare gli occhiali da soli (nel pianeta Nori i soli erano tre).
La ragazzina era altissima e la sua pelle era in grado di generare anche trenta sfumature di colore contemporaneamente. Le ali la avvolgevano, ma quando l’emozione e la gioia la inondavano le apriva a mostrare le eleganti branchie azzurre.
L’ombra creata dall’apertura alare profumava di ginepro e la brezza fresca faceva cantare molti grilli e tutte le cicale. I raggi dei soli filtravano tra le piume delle ali e tutti i cuccioli del bosco smettevano di piangere.
Quando nuotava nel lago potevi vedere il riflesso della sua luce in cielo e seguirne ogni evoluzione. Era la nuotatrice più brava del villaggio.
Scizia aveva molti amici. Alcuni però non avevano le branchie, così lei passava molti pomeriggi dopo la scuola a riempire di ossigeno vasetti. Con quello stratagemma la domenica potevano giocare tutti insieme sul fondale del lago. La sua mamma aveva cucito per tutti coloro che ne avevano avuto bisogno uno zainetto ultratecnico, studiato sulle misure esatte dei contenitori di ossigeno. Era stato il dono più apprezzato dell’ultimo secolo. Lo si poteva indossare senza sentirlo e il sistema di molle da agganciare alla schiena evitava che rimbalzasse in maniera fastidiosa.
Anche i ragazzini con le branchie, che pure non necessitavano dell’ossigeno, cononoscevano bene il fastidioso ondeggiare delle borse sulla schiena. Troppe volte i portieri avevano preso gol perchè distratti  dagli zaini pieni di cibo che le mamme apprensive avevano loro imposto. I girini giganti dovevano cibarsi spesso, ma si imponeva la necessità di trovare una soluzione.
Con il tempo la madre di Scizia pensò a zainetti molleggiati per tutte le esigenze.
La partite di calcetto sul fondale divennero allora un appuntamento imperdibile e la voce si sparse anche ai villaggi vicini.
I ragazzi non amavano avere visitatori, ma ormai tutti volevano assistere e le genti arrivavano guidate dai riflessi luminosi emessi da Scizia fino al cielo.
“A Lago ci sono dei ragazzini che giocano a calcio sott’acqua”
“Voglio vederli” dicevano gli adulti.
“Voglio giocare anch’io” urlavano i bambini.
Nel giro di poco meno di un secolo – il tempo sul pianeta Nori era davvero molto dilatato – vi fu la necessità di organizzare un torneo, con tanto di squadre, allenatori, impresari e tifoserie.
I ragazzini senza branchie iniziarono ad essere scherniti perchè più lenti e perchè, dovendo succhiare ossigeno dalle cannucce, non potevano esultare con bolle fantasiose come gli altri.
A Scizia venne chiesto di non giocare più. Lo stesso venne imposto alle altre femmine, sebbene scintillassero meno di lei, erano comunque fastidiose per gli occhi.
Lo scintillio era malvisto dagli impresari e dagli sponsor. I giocatori più bravi non potevano venir sempre fotografati con mascherine da soli!
Presto gli adulti superarono in numero i ragazzini. Poi rimasero solo gli adulti.
Scizia e gli altri amavono lo stesso assistere agli incontri e lei continuava a raccogliere ossigeno nei vasetti per i suoi amici. Però non era la stessa cosa e ogni gol, ogni vittoria della squadra del cuore era una gioia, ma anche un triste ricordo dei vecchi tempi.
Una sera Scizia andò dalla sua mamma in lacrime. Ormai la madre di Scizia possedeva una gigantesca fabbrica di zainetti ultratecnici molleggiati. Accolse la figlia nello splendido ufficio ovale, con le pareti gialle e il pavimento soffice.
Si coccolarono molto. Si avvinghiavano e si rotolavano a terra, ondeggiando e a volte spiccando piccoli balzi, per poi ricadere e venire avvolte dal tenero parquet. Scizia si fece sbaciucchiare la pancia e solleticare le piume. Tutte cose che in pubblico le facevano arrossire lo scintillio, ma che in privato la rendevano davvero felice.
Quando le tutte le lacrime di Scizia si furono tramutate in fiori, la madre le piantò nel piccolo orticello privato. Poi le disse di non preoccuparsi, ci avrebbe pensato lei.
Così è nato il celeberrimo calcio in cielo.
La donna con i proventi degli zainetti ultraleggeri molleggiati fece costruire il primo campetto volante dove allora, come oggi, è proibito l’accesso agli adulti e dove possono giocare tutti i ragazzini, quelli con le branchie, quelli senza, quelli coi polmoni, quelli senza – con un vasetto di acqua nello zaino - quelli con le zampe, quelli che necessitano delle ruotine, quelli bravi e quelli un po’ imbranati.
L’importante è divertirsi e mi raccomando indossare gli occhiali da soli perchè le femmine sono davvero tante!

mercoledì 27 settembre 2017

Doccia fredda #7 L'orfano

Ricordo, come sempre, che i racconti vengono postati senza alcun intervento di correzione.
Grazie per la partecipazione, vivace ma sempre corretta.
Continuate a leggere, condividere e commentare sulla nostra pagina.
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L’ORFANO

“Santocielo! Ma che stai facendo!! La voce quasi buca  le pareti, rimbalza lungo la rampa della scala ripida.
Lei è sotto che sbraita.Le calze a mezza gamba, i capelli arruffati, il seno che deborda dalla scollatura della vestaglia semiaperta, le mani sui fianchi.
Il bambino sta cavalcioni sul corrimano, bloccato a metà scala. Si regge con tutte le sue forze per non cadere, ma non ce la fa, scivola implacabilmente verso il basso.
Arriva giù di botto, lei nemmeno si sposta mentre il piccolo precipita ai suoi piedi.
“Ma quante volte te lo devo dire che è pericoloso questo gioco? Eh? Quante volte?”
Il piccolo la guarda con occhi colmi di lacrime, sa bene che lei lo picchierà e poi lo rinchiuderà nello stanzino buio.
Il tremito gli ha afferrato le gambe, non riesce a muoverle.
La vecchia lo afferra per le braccia e gli molla un ceffone da smontare la testa.
Il piccolo avverte una fitta al cuore. Implora disperato: mamma, vieni a prendermi, vieni che ho tanta paura!...

La virago lo trascina fino alla porta dello sgabuzzino, sta per rinchiuderlo, quando una forza sovrumana la afferra per le braccia in una morsa artigliante e dolorosa, fino a che lei non lascia la presa sul bambino. Viene scaraventa contro la parete del sottoscala.
Accasciata sul pavimento si strofina le braccia, sbigottita. Guarda il bambino, cerca di rialzarsi, ma una mano possente la trattiene sul pavimento. In effetti è solo quella del bambino, ma pesa più di un maglio.
Il bimbo osserva incredulo le sue manine che afferrano  la megera e la scaraventano nello sgabuzzino sprangandone la porta.

La vecchia dà spallate, sbraita, minaccia che quando uscirà lo farà a pezzi…

“Non uscirà, piccolo mio” la voce di sua madre lo rincuora.
Ora sei qui con me.


lunedì 25 settembre 2017

Doccia fredda #6 Meglio di chiunque altro

Ecco la sesta doccia fredda, rigorosamente anonima.
Leggete qui,

commentate sulla pagina FB di Laura Costantini e Loredana Falcone,

CONDIVIDETE!

Il gioco è bello se il giro di letture si allarga. Daje co 'sto ditino!
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Meglio di chiunque altro           

A te è sempre piaciuto uscire con la pioggia. A te piaceva soprattutto sapere che si bagnassero i capelli, quei tuoi capelli lunghi, scompigliati da scrittore, da artista maledetto. E ci tenevi ai tuoi capelli e ci tenevi che sembrassero proprio quelli da artista maledetto, da poeta senza limiti né regole. Non ho mai capito questa tua fissa per i capelli. Di sembrare a tutti i costi maledetto. Tu eri quel che eri. Maledetto no di sicuro, anche se te ne atteggiavi. Io ti ho conosciuto, e di te mi rimane ben altro che il ricordo. Io posso dirlo. Io so che eri dolce. In tutto. E se ti dicevo che sbagliavi a voler sembrare un maudit, che lo facevi per difesa, ti arrabbiavi. Mio tenevi il muso. Ed io sapevo come fartelo passare.

A te è sempre piaciuto fare pace. A me no. Soprattutto quando avevo ragione. Godevo nell’infierire. Nel trascinarti con me nel fondo nero delle mie discussioni, quelle in cui aggiungo carne al fuoco, e le cose si aggrovigliano, e non si viene mai a capo. Ho sempre fatto così, ma specialmente con te. Perché, dalla nostra lotta, infine, scaturiva la tua dolcezza, stremato tu cedevi e mi baciavi e facevamo l’amore per ore, e ci scordavamo della rabbia, tu me la cancellavi. Sei sempre stato bravo a fare l’amore. Così magro, emaciato, niente spalle, eppure con quel cazzo enorme, spropositato per il tuo corpo, un cazzo bello, pulito, rosa, chiaro, lungo, le vene pulsanti, il glande libero, da mordere e mordere e succhiare e pretendere che schizzi forte su di me.   

Le tue sborrate su di me mi pare ancora di sentirle.      

Ti sembrerà strano pensare che ho avuto altri uomini appena dopo che tu morissi. Qualche giorno dopo già. Cercavo te, credimi. Cercavo quel tuo modo di essere determinato e pretendere di portarmi oltre a dove io sapevo, credevo, di poter arrivare. Volevo scoprire che non era una tua esclusiva, quella capacità di farmi impazzire, letteralmente, e farmi sentire dentro un vortice mentre godevo, sprofondata in te e nel buio della stanza, nel liquido tra le mie gambe e nel tuo gemere assieme al mio. Volevo sapere, avevo bisogno, che anche altri avessero la stessa capacità. Che si risvegliasse in me il demone della gioia e il compagno di letto non era altro che un pretesto. Scoprire questo avrebbe voluto dire soffrire meno la tua perdita. Mi manchi. Dappertutto e in ogni istante. In tutte le azioni che faccio. Ma soprattutto a letto. Gli altri non hanno ancora imparato la tua capacità di sbizzarrirmi. Gli altri non la sanno. E dire che ne ho sperimentati molti. Da quando sei morto, ogni giorno io ho scopato. Per onorare la tua memoria. Per farti vedere che ci sei riuscito, a trasformarmi in ciò che sono sempre stata. Finalmente. Io so che non sei geloso. Che non ti ferisce. Che gioisci nel sapermi montata da uno o più uomini, leccata da ragazze giovani, come sognavi. Riempita di sperma e saliva. Io so che ti piacerebbe.       

Il tuo cazzo però gli altri non ce l’hanno. Lo posso ben dire io che ti ho conosciuto, che l’ho succhiato in notti fino allo sfinimento, quando mi dicevi basta ma poco convinto, e allora continuavo e ti aspiravo ogni resistenza, e mi inondavi la bocca. Giusto il tempo di una sigaretta e poi ancora, io in ginocchio e tu a dirmi troia mentre mi stringi i capelli. Sei, sette volte a notte.   
Scopo tutti i giorni, ogni notte. Me li vado a cercare in giro. I miei surrogati di te. Ancora ti penso. Sempre ti penso. Tu sei nei volti che cambiano, sei le ragazze lisce e perfette che faccio svenire di baci, sei quei volti diversi tutti uguali, sei le mani che strizzano i miei capezzoli, sei le richieste imperiose, i loro desideri sottili, le umiliazioni che mi cerco come acqua quando ho sete. Più mi sbattono e più io sono tua e tua soltanto.
Lo sai questo.   

Mi ricordo un giorno a Parigi che mi hai legato al letto e mi scopavi ancora asciutta. Ti dicevo ho male, smetti, ma tu sorridevi beffardo e andavi avanti, solo quando dirai ciò che voglio sentirti dire smetto, forse.
Ed io non sapevo che dirti, e gridavo, e tu imperterrito, ti ho odiato, e sono venuta. E ho saputo dirti ciò che volevi. M’è venuto fuori insieme all’orgasmo forzato. Fammelo ancora.     
Tu sei le mie notti. C’è la tua aria nei riti, nei meccanismi sempre gli stessi, nel cazzo che mi allarga il buco, nella mano che mi fruga dentro. Sei perfino le tette gonfie di queste femmine bisessuali, che per sfizio entrano nella mia stanza e ne escono stravolte. Come mi hai insegnato, io faccio.       
Io ti conoscevo meglio di chiunque altro. Sapevo tutto di te. E anche perché l’hai fatto.             
Tu che hai liberato me, hai al tempo stesso legato la tua anima. Oscurata ad un senso di debolezza che avresti dovuto superare. Lasciarlo scivolare via, come un relitto nel mare, di notte, in tempesta.          
Ti tormentavi come un bambino. Già magrissimo, ancora di più dimagrivi. Divorato da dentro da ciò che credevi di avermi fatto. Ho spostato troppo il limite, dicevi, gli ultimi mesi. Ho esagerato con te, baby. E non sentivi che ti dicevo non è mai stato così vicino per me il paradiso, non capivi che ti imploravo di non fermarti, di calare ancora il pugno, di darmi quel morso profondo, di prendermi e prendermi ancora perché eri tu soltanto l’unica persona al mondo che io avevo dentro. Accanto a me, da prima che nascessi. Tu solo contavi e ciò che con te ho fatto. Tutto quello che mi hai insegnato, le cose che mi hai portato a vedere.          

Non mi sento strana quando mangio i miei amanti. Non mi sento male quando applico la tua saggezza di carne. Mi hai reso migliore. Più di quanto sia possibile sperare. Io ti porto con me. C’è ancora il tuo cuore e il tuo cazzo nei miei sogni. Non sei morto nelle sere che guardo dalla finestra e mi sembra di stare aspettando il tuo passo leggero, di nebbia e voglia. Tu che bussi alla porta della mia stanza, e mi dici, ancora, ne vuoi, di me, ne vuoi ancora. Ed io che ti guardo sognante, e annuisco rapita, neanche consideravo che la mamma era nella stanza accanto e poteva sentirci. Alla mamma pure manchi tanto, tantissimo. Lei ha perso suo figlio. Io il mio tutto e mio fratello. 

domenica 24 settembre 2017

Doccia fredda #5 Gaianova

Arriva il quinto appuntamento con le DOCCE FREDDE.
Siamo dalle parti della fantascienza, stavolta.
I commenti vanno sulla pagina facebook.

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GAIANOVA –
Il sistema aveva iniziato le attività di riabilitazione fisica, nelle ultime settimane i periodi di veglia cosciente erano sempre più frequenti e lunghi. Dopo quasi trenta anni Elisa provò l’ebrezza di sgranchirsi in seguito a un buon sonno. Non aveva bisogno di parlare per sapere che Angelo, suo marito, era già in grado di mettersi seduto. Gregorio e Filippo ancora dormivano – freddi - ma rimessi in movimento dal gymsystem. Il lungo viaggio stava finendo e tutto andava bene. Si abbandonò al torpore e agli esercizi passivi sognando casa.
L’hangar era spazioso e ordinato, la navicella si ancorò con un movimento fluido e totalmente automatizzato, loro quattro guardavano – curiosi - fuori dalla vetrata. Ancora pochi minuti e avrebbero messo piede in quella che sarebbe stata casa, a quattro anni luce dalla Terra. Come da programma, qualche settimana prima, erano ritornati nel pieno vigore fisico e avevano ripreso il normale ritmo biologico. Stavano bene, ma non tutto era andato nel verso giusto. Gregorio era cresciuto. Non tanto, non aveva certamente i trentaquattro anni che avrebbe avuto sulla Terra, ma la criogenizzazione non aveva funzionato perfettamente, adesso ne dimostrava circa sei e, da quando si erano risvegliati, si ostinava a parlare. A parlare con la voce, nonostante le due piccole protuberanze dietro le orecchie fossero cresciute anche a lui. Semplicemente si rifiutava di utilizzarle per comunicare mentalmente. Elisa prevedeva tempi difficili. Ne ebbe conferma appena misero piede in quel mondo silenzioso. Il leggero bagaglio aveva già preso la via del mezzo che li attendeva per portarli al centro di smistamento insieme agli altri migranti stellari, arrivati con loro. Erano stati riuniti in una grande stanza, illuminata dalla luce naturale di quel nuovo sole che filtrava dalla cupola trasparente. Facevano parte dell’ultimo viaggio. Quel che restava dei terrestri adesso era tutto qui, su questo pianeta gemello nella galassia di Proxima Centauri. Il sottile fremito dietro il padiglione auricolare la colse ancora di sorpresa, ci avrebbe fatto l’abitudine. Ben arrivati su Gaianova. Verrete scortati al punto di prima accoglienza da dove, terminati i controlli sanitari, sarete accompagnati ai vostri alloggi. Il giovane discendente dei pionieri che cinquecento anni prima erano arrivati a colonizzare la nuova patria stava mentalmente dando loro il benvenuto. La vibrazione era gentile, gli accompagnatori, però, in divisa militare. Le porte sbarrate. Angelo, istintivamente, strinse più forte il piccolo che teneva in braccio e cercò la mano di Elisa. Gregorio non smetteva di chiedere A VOCE alta: ”Dove siamo? Dove stiamo andando? Dove sono i nonni?” Va tutto bene Greg, ma non parlare. GREG non parlare, comunica con me, ma non usare la voce. In tutta risposta il bambino, occhi sgranati, si mise a piangere forte, con singulti tutt’altro che mentali. In quel silenzio rarefatto, interrotto dal lieve fruscio dei macchinari che, soli, producevano suoni, una ridda di mentalizzazioni la invase. Volevano che le percepisse: Selvaggi! Proprio una bella cultura! Bambini che parlano ancora con la voce. E paghiamo pure per le navicelle che li portano qui. Elisa non ebbe altra scelta che accucciarsi e sussurrare al suo bambino, con la voce, l’unico modo che Gregorio sembrava intenzionato ad ascoltare. Gli sguardi di disapprovazione si moltiplicarono, si sentì nuda e sbagliata e per un maledetto momento si vergognò di suo figlio e del posto da cui venivano. Poi furono separati, Angelo con gli uomini, lei e i bambini su un altro mezzo. Passarono cinque giorni prima che potessero riunirsi. Le visite mediche erano andate bene per tutti, ma non per Gregorio. Era cresciuto e non avrebbe dovuto, parlava e non avrebbe dovuto. Non sapeva usare le sue antennine o non voleva farlo. Non era l’unico, capitava, con una ricorrenza statisticamente ininfluente, ma succedeva che la criogenizzazione funzionasse solo in parte. Gregorio non era considerato un caso grave, fu ugualmente inserito in un gruppo di supporto, allontanato da lei e dalla sua famiglia. Loro erano terrestri, arrivavano da un pianeta lontano e arcaico. Erano dei diversi. Gregorio diverso fra i diversi. Lo avrebbero rivisto quando fosse stato educato al nuovo mondo. Non avevano avuto modo di impedirlo. Piangeva e chiamava mamma. Forte. Urlava, il suo bambino, quando lo portarono via. Lei piangeva piano quel giorno e non smise per mesi. Gregorio tornò, parecchio tempo dopo. Non usava più la voce. Loro si erano ambientati, adesso avevano una casa e la coscienza che la storia si ripete, che l’uomo dimentica le lezioni, che a loro era toccato il posto sfigato nella lotteria della vita, erano nati nel luogo e nel momento sbagliato. Avevano messo nel cassetto i sogni, le lauree e l’esperienza e si erano adattati a lavori per terrestri, sperando che Filippo e Gregorio fossero riconosciuti, prima o poi, come gaianovesi. L’unica cosa che volevano ricordassero è che un mondo diverso era possibile e per qualche tempo così era stato, sulla Terra. La loro flotta era stata l’ultima a lasciare un pianeta infuocato per colpa di quel sole che, nella sua anzianità di Nana rossa, l’aveva reso quasi inabitabile. Non era stato un male, dopo tutto, per la prima volta nel mondo le guerre si erano placate, tutti gli sforzi volti verso un unico scopo, trovare il modo di trasferire l’umanità sul pianeta gemello. L’uomo era stato in pace e aveva collaborato per quasi mille anni. Questa storia, a casa loro, si raccontava a voce alta.





venerdì 22 settembre 2017

Doccia fredda #4 Tango sul treno per Venezia

Tango sul treno per Venezia.

        Neanche in viaggio di nozze ci sarei andato, è triste Venezia e puzza di marcio e di sudore.
Chissà perché poi ho pensato a un viaggio di nozze, è subliminale, forse avrei dovuto farlo un viaggio in Italia con Debora, invece no, Dubai, Costa Brava, Mikonos e non conosco Spoleto.
La buona scuola mi ha sbattuto lassù, liceo Guggenheim, ho visto su Google Maps è dieci minuti a piedi dalla stazione Santa Lucia. Le dieci, ho bisogno di un altro caffè.
«Firenze, santa Maria Novella», uffà no, salgono e scendono persone, devo aspettare che riparta, anche no, poi non potrò fumare, accendo adesso, tre botte veloci poi la butto.
Un ragazzino elegante col tablet superinformato e il vestito firmato F.S, mi fa: «Signore, non stia fuori, potremmo ripartire in un attimo»! precisino come un nazista, li hanno formati bene e io a quei tossici rottinculo del liceo artistico di Turtiano non sono riuscito neanche a fargli disegnare il naso di Pippo Franco. L’unico piacere di arrivare quassù al nord: lasciare quei bastardi a temperarsi le staedtler e le palle in classe mentre qualcun altro gli spiega la prospettiva.

        Voleva farci il viaggio di nozze quel mentecatto di Filippo, “vedrai ti porterò a Venezia, ti coprirò di baci e rose rosse”, poi si stufa pure di accompagnarmi in stazione. Quest’altro idiota che fuma davanti agli scalini…carrozza 11, posto 42: è questa!
E il Patrick Dempsey del giorno neanche si sposta: «Senta, se si sposta io salirei sul treno!»
«Un semplice permesso sarebbe stato più efficace di un urlo sgradevole».
«Ha ragione, mi scusi ma non volevo interromperla mentre si drogava».
E vaffanculo, ‘sto scemo, mò s’atteggia pure, intanto per poco non faceva chiudere le porte, ‘sti Frecciarossa del cazzo che sono puntuali a partire solo quando devo prenderli io. Speriamo che il fumatore da banchina non mi capiti vicino, puzza di sigaretta già da mezzo metro di distanza. Il cellulare, Filippo: «Che vuoi?»
«Ehi, stai già mangiando aragoste al vagone ristorante? Hai inghiottito una chela? Volevo sapere se fosse tutto a posto: siete già a Bologna»?
«Senti Filippo puoi andartene affanculo per una decina d’ore? Mi hai lasciata a cento metri dalla stazione per paura che quella troietta della vigilessa ti facesse la multa, però era un quarto d’ora fa, e quanti cazzi di chilometri credi si possano fare con un treno che parte alle dieci e trentadue, visto che sono le 10 e 30 e non è ancora partito… madonna, l’altra valigia è rimasta giù»!
«Ognuno si droga a modo suo, io di sigarette, lei di cellulare, per telefonare stava perdendo la valigia».
Uno a uno. Ora devo anche ringraziarlo questo stronzo, mi ha salvato la valigia e quell’altro bischero del controllore, cazzo c’è una valigia abbandonata e non ti chiedi se è una bomba o è scordata da qualcuno? Il figo baudelairiano mi sta guardando le cosce, speriamo non attacchi con quelle corti svenevoli, perché diavolo ho deciso di partire con la gonna? Continua a guardare giù: ma è un maniaco?
«Guardi che ha perso il biglietto, tenga». Non guardava le cosce, maledizione, neanche questa soddisfazione, comunque non mi piace: puzza di sigarette, anche se ha un buon profumo, vuoi vedere che è il Blu Chanel che ho regalato a quell’idiota di Filippo? Mescolato al tabacco sembra diverso, non è sgradevole. Comunque lui puzza di fumo, però belli quei capelli finto spettinati.
«Si grazie, comunque ce l’avevo salvato sul telefonino».
«Un semplice grazie mai, eh? Vuole che lo rimetta a terra»?

Belle cosce, stronza fino al midollo, ma cosce belle, insomma le ginocchia e le gambe, si sedesse di fronte a me la disegnerei, ma questa è talmente stronza che penserebbe che vorrei scoparmela, e l’ultima cosa a cui penso adesso…e perché no? Si, tipo Ultimo Tango a Parigi, sarebbe divertente, nessuno sa niente dell’altro, solo sesso, bello e rapido. La veste a fiori, fianchi stretti, non è sposata, non ha la vera, ma chi vuoi che la porti oggi, forse convive con quello scemo con cui parlava al telefono. Meglio che mi sieda e la smetta di guardarla, ci mancherebbe che mi prendesse per uno di quei macho scopadori, ché questa è una rompicoglioni e si agita come una tacchina al thanksgiving day e se ne esce con un altro sproloquio. Però, dico io: sei così carina, per forza algida come un garofano bianco? Dev’essere una fondamentalista cattolica, magari è pure vergine: sì a quarant’anni. Meglio non pensare, se ci riesco mi appisolo, tra due ore si arriva, sai che schifo quella camera che ho preso a Mestre? E gli allievi? Saranno il contrario di Turtiano, quelli erano dei banditi e tra di loro c’era pure chi spacciava erba, questi saranno snobbetti con la puzza sotto il naso, allevati a yogurt greco e sottofondo musicale di Albinoni, ma se a quelli ho spezzato le ossa a questi prendo a calci i genitori, il primo che viene a raccontarmi “la complessità artistica delle doti di mio figlio va valutata con rispetto” gli lancio il taglierino per la balsa.
“Cambiare la suoneria al Samsung”, l’ho scritto pure sul post-it, appena squilla si mettono tutti le mani in tasca come Bounty killer alla ricerca della pistola: «Debora, che c’è»?
«Eh buongiorno! E mammamia che modo di rispondere»!
«È che non puoi vedermi ma ballavo il tango con una passeggera! Come vuoi che ti risponda? Sono scoglionato e non mi va di parlare in treno, la gente ascolta».
La mannequin fiorentina mi guarda disgustato, come per dire “ma chi ti ascolta, e poi: ballavo proprio con te”, ma questa mi perseguita?
«Posto 42, lei è seduto al mio posto, oggi è un tormento»!
«Ehi, macché tormento? Questo è il mio posto!»
Mi spiaccica il suo foglietto che avevo raccolto da terra, si è quarantadue, e io che ho? Ah, 44, di fronte, e che sarà mai? Ora mi sposto. ‘Sta scema ha un buon profumo, agre come lei, quella demente di Debora indossa quei profumi dolci e snervanti.

Meglio che stavo zitta, il mio posto è contromano, mi verrà il torcicollo a guardare fuori, adesso dovrò chiedere un favore a questo maniaco. Insomma, proprio maniaco no, se non rispondesse in modo così irritante sarebbe anche un bell’uomo, cioè è un bell’uomo. Naso incantevole, non mi piace la barba incolta, se fosse il mio uomo lo farei radere. Non sembra il tipo da matrimonio, la stupida con cui parlava deve essere una di quelle fidanzate storiche e ammuffite, certe donne hanno un culo ad avere uomini così e non se ne accorgono. Ha carattere ‘sto stronzo.
«Lasci perdere, non si sposti, mi siedo io al suo posto: è uguale».
«Proprio uguale no, pensandoci bene il mio posto è migliore, è nella direzione di corsa…»
«Posso dirle una cosa»?
«Si dica, cosa vuole dirmi»?
«Lei è un po’ stronzo, si sieda dove vuole, mi ha stufato, tanto che saranno mai due ore fino a Venezia, magari lei a Bologna se ne va alla fiera dei polli o della carne in scatola e resto sola».
«Peccato, dovremo sopportarci, anche io vado a Venezia, sono commerciante di bicchieri di vetro rotti, non di galline, però sarebbe uguale, come categoria lei li rappresenta tutte e due».
Me la sono voluta, meglio ponderare prima di rispondere, gli ho dato dello stronzo, ma mi ha chiamata gallina, ora o gli do uno schiaffo… «Senta lei»!
«Tranquilla, si roda il fegato per una decina di minuti da sola, io me ne vado alla carrozza ristorante, ho bisogno di un caffè».
Figlio di puttana, mi ha lasciata con le parole in bocca, dio che rabbia, cazzo quanto mi piace, se solo Filippo avesse metà del carattere di questo bastardo.

Sono stato duro, ma è una rompicazzo, tanto bella e…madre e che cosce che ha, quando si è seduta ho visto, sembravano di cuoio lucido. Che schifo di caffè, vabbè mi dà sapore alla bocca, ora vado in bagno e do due botte alla ciga elettronica, non credo che il vapore faccia scattare l’allarme fumo, un po’ di nicotina mi farà calmare, per fortuna ci sono pochissimi viaggiatori, i bagni sono quasi tutti liberi. Ecco, luce verde: entro.
«Ehi, chiuda! Ancora lei? Allora sei un maniaco»?
Lei? Seduta con le cosce nude, la gonna arrotolata sul pube, una specie di miracolo della natura.
«Colpa sua, fuori risulta libero! E poi questo è un bagno per uomini»!
Assurdo, restiamo così, lei nuda sul water e io con le pulsazioni di un caterpillar: non ricordavo cosce più belle. Poi mi afferra un braccio e mi tira dentro.
«Hai detto che è un bagno da uomini? E allora fai l’uomo»!
I corpi si fondono in una follia da mezzo metro su un Frecciarossa, le braccia annodate come il gomitolo con cui ha giocato un gatto, la sua bocca ha il sapore di una torta alle mandorle, quella cosa dura stretta sul mio petto non è un bottone ma un capezzolo di titanio puro. Incastrati carne nella carne, fusi in un’esplosione di fisici nei fiori d’oro di Klimt, seta e avorio: lei contro il mio corpo maschio di cotone ruvido.
Sussurro: «Ho troppi peli?»
«Come carta vetrata. Spingi, stronzo, spingi. Ah, Filippo, uno stronzo così neanche te lo immagini»!
Un Dio ruffiano lascia libero il corridoio, un controllore lontano si volta chiedendosi da dove siamo apparsi, torna indietro e si fa mostrare i biglietti, poi sorride compiaciuto, mentre lei già ritorna al viso di prima: «Giovanotto, non sorrida, vada, continui a controllare»!
Il ragazzo è intimidito e non ha la forza di mandarla affanculo.
Il viaggio continua, finalmente silenzioso, in una pace soddisfatta, un armistizio di sensi, lei legge una rivista francese, io faccio l’unica cosa che so fare bene – due, dopo i suoi complimenti di ardore nel cesso – la disegno sul mio blocco di carta Fabriano senza far vedere. Ogni tanto mi lancia sguardi obliqui e sazi, come un gatto dopo una scorpacciata di lische.
«Signori, entriamo nella stazione di Venezia Santa Lucia, Trenitalia vi ringrazia per averci scelti».
Fuori il caldo e la puzza di Venezia a settembre non mi infastidiscono, il telefono squilla Debora, lo lascio morire d’inedia, un tassista indolente mi invita a salire: «Ehi, aspetti: facciamo la stessa strada»? Lei. Ero scappato senza il dolore del saluto, e lei è qui.
«Non lo so, come faccio a saperlo? Io devo andare al liceo Guggenheim».
«Tu guarda, cosa fa il bidello»?
«No, cara stronzetta, sono il nuovo docente di decorazione».
«Allora vada, va bene anche per me, tu portami rispetto, stronzo, sono la nuova dirigente scolastica, o preside, caro il mio buzzurro».
Poi mi bacia.


mercoledì 20 settembre 2017

Doccia fredda #3 Grazie dell'amicizia

Terzo appuntamento con le DOCCE FREDDE in formato anonimo.
Si legge qui.
Si commenta sulla nostra pagina Facebook.
Nessuno degli autori ha ricevuto un editing e/o correzione bozze da Loredana.
Io, Laura, ignoro chi siano gli autori dei racconti che man mano vado a postare. Ergo, commento.
Tutto chiaro?
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GRAZIE DELL’AMICIZIA

Le giornate avevano preso ad accorciarsi, ma l’afa era ancora insopportabile. L’estate più calda degli ultimi anni. Questo Silvana si diceva voltata verso la finestra della stanza d’albergo. Il sole morente insanguinava di luce rossastra le lamelle delle veneziane socchiuse. Immaginò la nana gialla sprofondare nel Tirreno incendiandone per qualche minuto la groppa cianotica. Sentiva l’uomo rivestirsi dietro di lei. Il fruscio dei calzoni infilati in fretta. L’imprecazione soffocata per aver mancato una scarpa con il piede.
“Maiale! Come gli altri! Tutta questa fretta per rientrare in una cucina che puzza di soffritto e affrontare il grugno contadino della moglie” pensò. Ne aveva avuti, di amanti sposati, in quegli anni di assalto al primariato! Di sposati e di smidollati appesi. Per non parlare degli intellettuali e della loro spocchia, quei pezzenti! Le donne in carriera hanno poco tempo da dedicare all’educazione sentimentale e tirano su con poca accortezza i primi che capitano, sperando siano quelli buoni. A lei erano capitati sempre gli avariati. Poco male, era ricca e poteva permettersi delle consolazioni. Viaggi, beauty farm, shopping in centro. Certo, un po’ le dispiaceva, quando s’accorgeva che nonostante il fisico palestrato, la lingerie raffinata e la conversazione forbita continuava a essere quella da vedere di nascosto o una faraona da spennare. Sospirò. S’era incattivita, dopo tanto squallore. Lo capiva, anche se non era un’introspettiva. Lo sguardo del bambino nella hall ancora bucava i suoi pensieri, per come aveva trafitto la sua attenzione, sere prima in Transilvania. Un piccolo zingaro, nei suoi cenci pittorici. Sorrise. Proprio un personaggio di El Greco le era parso, nei calzoncini senza orlo, con quella casacca beige e la mano tesa!
«Quando andrai alla reception, non fingerti meravigliato che è già tutto pagato» abbaiò all’amante, riaffiorando nel presente e in un altro albergo.
Un silenzio offeso le segnalò che il maschio aveva sentito.
«Ma non dormivi, scusa?» ritorse lui, senza tornare indietro a salutarla.
«E già che ci sei, ti pregherei di ascoltare senza scalpitare. Avrai tutta la vita per ritornare dalla ciabattona bucolica. Questa è l’ultima volta tra noi. Non sei un granché a letto e puzzi di soffritto.»
Seguirono altro silenzio e il tonfo della porta sbattuta. Perfetto, il non sei granché a letto sortiva sempre rapide uscite di scena.
Sistemò meglio il cuscino sotto la guancia e seguitò a pensare al bambino incontrato in un hotel di Bucarest. Non riusciva a scacciare dalla testa l’impressione che le aveva fatto quel filo di occhi gialli, quando s’erano sollevati su di lei. Ma che ci faceva un piccolo mendicante nella hall di un albergo di lusso? Come aveva fatto a entrare?
Bella razza, la romena, ammise, peccato che in Italia arrivassero i peggiori! Quando era stata a Bucarest, al convegno di ematologia, aveva scoperto una città sontuosa. Niente a che fare con la Transilvania dei vampiri descritta nei romanzi horror.
Una penombra deprimente s’era espansa nella stanza. Era ora di alzarsi e rivestirsi. Ma prima… afferrò, con un gesto indolente, l’iPhone dal comodino e diede una scorsa a Facebook. Tra le richieste di amicizia brillava un nome straniero. Adrian Papahagi.
“Rumeni come se piovesse!” pensò, ma cliccò su conferma. La foto del profilo non era solo quella di un uomo attraente, ma del più virile in cui le fosse capitato di imbattersi da quando era ragazza.
Fu un istante. Come uno scroscio di vertigini. Come se la camera si capovolgesse in uno specchio.
“Sto sognando…” pensò. Ma era un pensiero debole.
«Grazie dell’amicizia. T’ho ritrovata, finalmente!» disse una voce maschile dall’accento straniero.
Lei si girò verso l’angolo della stanza ribaltata da cui proveniva. Il nuovo amico di Facebook era là, vestito di beige. Un filo d’ammiccanti occhi gialli, magnetici. Bello come un lupo.
«Invitami!» le ordinò.
Silvana intravide l’erezione sotto gli strani pantaloni, implacabile ed enorme.
«Vieni!» pregò.

E fu dietro di lei. In un abbraccio gelido che le strinava la pelle. Si voltò allora per cercare la sua bocca, ma furono le zanne in un volto aperto in due come una melagrana che vide. L’orrore la stordì, e fu un bene, perché il morso che le squarciò la gola non la uccise subito.

domenica 17 settembre 2017

Doccia fredda #2 Lei giocava a poker

Siamo alla seconda doccia fredda. Racconto anonimo, come da regolamento.
I commenti, per favore, sulla nostra pagina Facebook nella quale possiamo taggare tutti gli autori che hanno partecipato al gioco solo se i suddetti hanno messo un mi piace.
Vi si chiede di condividere i racconti, tutti. E di commentare i racconti, tutti.
Ovviamente i commenti sono aperti a chiunque abbia voglia di leggere.
Tutto chiaro?

P.s. Su nessuno dei racconti è stato fatto un lavoro di editing o di correzione refusi
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E' finito il funerale Roberto, come aveva chiesto, è stato cremato, dopo un paio di giorni si dovrà passare a ritirare l'urna con le ceneri. Non si è ancora deciso cosa farne: depositare l'urna nel loculo di famiglia o disperderle come aveva chiesto Roberto.
La moglie vuol portarsi l'urna a casa, non ha mica accettato, malgrado tutto che Roberto l'abbia  lasciata. I figli trovano la cosa troppo macabra e in quei giorni che mancano al ritiro dell'urna vogliono provare a convincerla ad una scelta più razionale.
La  figlia più giovane Claudia, per eliminare dallo sguardo ossessivo della madre,  i vari ricordi del padre, apre un  profondo baule dove sono conservate le carte e le memorie di  33  anni di lavoro Dal fondo del baule  tira fuori un pacco di agende di pelle con il logo INPS impresso sulla copertina  e l'anno. Cazzo le ha conservate tutte,  una per ogni 33 anni di lavoro. Di certo sono intili appunti di lavoro e quindi da buttare via. Non le apre e fa per  gettarle  nel bustone nero per la spazzatura. Poi gli viene la curiosità di leggere quella del 1983, il suo anno di nascita. Vuol conoscere dopo tanti anni quali fossero i pensieri del padre, prima che lei nascesse.
Tutto il mese di gennaio è vuoto, la prima annnotazione è del 16 gennaio,  con la tonda grafia del padre , inchiostro nero, penna Pilot.
16 gennaio   Domenica ore 22  La solita sfiga mi hanno affibbiato il corso del Piemonte, quello che inizia prima e per giunta mi tocca di partire di domenica pomeriggio da Napoli. Arrivo a Torino in serata, freddo cane, meno male che l'albergo Roma è vicinissimo alla stazione di Porta Nuova. E' un tre stelle, ma sono molto stentate, la camera è un cubicolo stretto e lungo, la finestra affaccia nel cavedio,  il letto in un angolo, un armadio tarlato, il bagno è una specie di armadio a muro con la doccia fissata al soffitto, niente televisione. Bella sistemazione.
17 gennaio Lunedì ore 7.30 La colazione inclusa sono un bricco di latte tiepido, uno di caffè forse orzo, un buondì Motta, un pacchetto di fette biscottate, una porzione di marmellata albicocche, una di burro. La sala colazione è affollata di ballerine e ballerini bulgari, che divorano il tutto. Sono li a spese del Comune per scambi culturali. Cinque minuti a piedi e sono a Piazza CLN, l'aula del corso è al terzo piano di fronte ai locali dei Cral. Sono le otto e non c'è nessuno, l'aula è vuota. Di bene in meglio. Passa una buona mezz'ora e si presentano in tre. Non sono i corsisti, ma il capo dell'ufficio e i due tutor. I corsisti arriveranno dopo, sono andati a timbrare il cartellino a via Sacchi dove c'è l'ufficio, la solita cazzata burocratica. Mi incazzo: “da domani firmeranno il foglio di presenza qui, frequentano il corso, firmano in aula.!” Il capo, G. M.  strabico all'occhio destra, bleso, cerca di ribattere qualcosa. Non gli rispondo.  Il primo tutor. S.B. ,  sulla cinquantina, la faccia tonda, i capelli ricci color melanzana, chiaramente mal tinti, strabico a sinistra, che bella accoppiata prova a dare ragione ad entrambi. Intanto la tutor numero due, C.D., sulla trentina, tutta in tiro in un elegante completo marrone di taglio maschile, camicia di seta azzurra, calze in tinta, mocassini Tods, se la ride in silenzio e mi guarda intensamente negli occhi, mi approva, forse. Somiglia a Fanny Ardant. Arrivano i ragazzi, in tutto quindici, tre ragazzi e dodici ragazze.  Tutti molto giovani, tutti molto interessati. Ed inizio la lezione. Ed iniziano intensi scambi di sguardi con C.  Si va avanti fino alle 17, con un breve intervallo per il pranzo. Alla fine tutti scappano via, C. si trattiene sul ballatoio, davanti alla porta aperta del Circolo Dopolavoro. Mi chiede: “Giochi a poker? Alla fine del lavoro facciamo spesso  un oretta di poker,” Le sorrido, non ho mai giocato a poker contro una donna: “Volentieri, anche subito!” Entriamo nella saletta del circolo, ad un tavolino rotondo, ricoperto da un tappeto verde, tutto bruciacchiato, in attesa lo strabico S. B.  e due raggrinziti pensionati . L'ora passa in fretta, C. ha un gioco aggressivo, cerco di tenerle testa, ma le carte le girano in maniera pazzesca. E me le suona, in compenso mi rifaccio con lo strabico,bluffa di continuo, ma quando lo fa l'occhio strabico si raddrizza. Insomma vinco anche io, ma poco e mai contro C.  che mi mette sotto. E' una strana sensazione .
I giorni successivi : solo Corso Torino
29 genaio 1983 Venerdì Sono passate  due settimane, anche in fretta. Due settimane a cercarsi continuamente con  lo sguardo sempre più intenso,  la mattina durante le  lezioni e nelle  pomeridiane partite a poker.  E'  terminata la  prima tranche del corso in aula, torno a casa. Dovrò ritornare dopo tre settimane e conto i giorni.
Quegli maledetti occhi scuri, curiosi e ridenti mi hanno colpito.
Claudia si ferma, non vuole leggere oltre, meglio non sapere. Un pensiero le  attraversa la mente: il suo nome ha la stessa iniziale di quegli occhi neri e ridenti e si chiede: forse? Lei  sarebbe nata a maggio di quell'anno ed il suo nome lo scelse il padre al di fuori delle  tradizioni familiari, si sarebbe dovuta chiamare Felicia come la nonna materna, ma il padre si impose per Claudia.

Chiude in fretta quell'agenda e la butta nel bustone nero. Meglio che la madre non legga quei frammenti di diario, potrebbe buttare via le ceneri nella tazza del cesso e tirare lo sciacquone

mercoledì 13 settembre 2017

Doccia fredda #1 L'ultima notte

Ci siamo.
Si va a cominciare.
I racconti vengono pubblicati in forma anonima, per far sì che i commenti siano scevri da ogni possibile condizionamento amicale.
Io stessa - Laura - non li ho letti prima e NON so chi li abbia scritti.
Quindi potrò commentare.
I commenti, visto che di solito è complesso e scomodo commentare sul blog, li posterete sulla nostra pagina FB dove sarà apposto il link al racconto.
Tutto chiaro?
Ah, l'autore o l'autrice che sarà considerato la miglior doccia fredda a insindacabile giudizio di Loredana "so cavoli vostri" Falcone riceverà in dono una copia del nostro "Le colpe dei padri". Se lo avesse già, avrà un altro dei nostri romanzi, di quelli disponibili.

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L’ultima notte


Ti sto aspettando. Ti aspetto da un po’, e quel po’ sono diventati giorni, e poi ore, e poi minuti…
Ti sto aspettando. E fremo, come un’adolescente in tempesta, come una gatta in calore. Come una donna che ha perso la testa. O forse il cuore, chissà.
Non capisco. Davvero, non capisco. 
Eppure avevo giurato a me stessa che non sarebbe mai più accaduto. 

Mi ero impegnata a costruire quello che negli anni è diventato un solido steccato; ho conficcato con minuziosa precisione grossi paletti tutt’intorno al mio cuore perché mai, mi ero detta, mai più avrei permesso a chicchessia di entrarci. Il corpo no. Quello m’importava poco perché il sesso si fa, l’innamoramento si vive. Scoparsi qualcuno è facile, se sei nella giornata giusta ti viene pure bene. Ti spogli e ti rivesti tra un intervallo di niente. Te ne vai soddisfatta e chi s’è visto s’è visto, ci si ritrova al prossimo prurito, forse. Il sesso è come la fame, la sete… un bisogno come un altro da soddisfare. E al ristorante ci si può andare in due, in tre, in gruppo, o anche da soli. 
Mi ero impegnata a costruire quello che credevo fosse un solido steccato.
Ma quando i ricordi diventano molesti, quando si ancorano con le unghie alla tua carne e ci si annidano… quando cerchi il suo odore tra le lenzuola, quando abbastanza non è mai, quando il resto degli uomini perde colore e consistenza, quando il cervello scava di continuo tra quelle pagliuzze per trovare un angolino dove ritrovarlo, allora sei fottuta.
E a me sta pure bene essere fottuta ma il cuore no, quello deve restarne fuori. Niente più impronte che ti schiacciano e ti scavano dentro, che poi diventano piaghe e sanguinano e fanno un male cane; niente più speranze disattese e amori traditi. Mai più. Mi ero imposta di non sperare. La speranza porta aspettative, le aspettative i sogni, i sogni i risvegli. E la luce del risveglio non è mai uguale a quella del sogno.
Perciò basta. Tu più di tutti non puoi essere, perciò basta. Tu, l’unico che desidero non deve essere, perciò basta.
Ti sto aspettando. E stavolta sarà l’ultima. Sarà l’addio.

Profumi esotici di ambra e sandalo, e calde luci di candele. Quelle fiammelle tremolanti sono come me ora, che vibro a ogni tuo tocco. Le tue mani, le tue splendide mani, sembrano conoscere ogni centimetro del mio corpo, sanno accarezzarmi la pelle così come la mia pelle vuole. Lentamente, senza fretta. Senza tempo. Maledette quelle tue bellissime mani.
Ti slaccio un bottone alla volta anche se vorrei strappartela via, la camicia. Mi tormento assaporandoti con calma. Se potessi fermarlo, il nostro tempo, lo farei. Senza fretta, perché non voglio che tu vada via. Non stanotte. Vorrei che restassi perché non avremo un domani e allora riempimi ogni istante fino alla nuova alba. Ma so che non lo farai. E allora mi dispero aggrappandomi a te in ogni abbraccio che mi concedi, ti stringo nell’illusione di poterti fondere con me. Il sudore ci rende sfuggenti e ne approfitto per farmi serpente. Ti circondo, ti avvolgo tra le mie spire, ti tolgo il respiro baciandoti ancora e ancora…
Bacio il tuo corpo ma in realtà è l’anima che desidero; provo a memorizzare ogni emozione, tua e mia, perché le tue sono anche le mie, sempre. 
Amo quando gemi sotto le mie carezze; il mio ventre sussulta ogni volta che sento la tua voce. Dimmi quello che vuoi, non c’è nulla che non vorrei ascoltare, non c’è nulla che non ti darei. Dimmi che ti faccio morire, o che potresti impazzire… Parla del tuo piacere ma non di me, non stasera, perché stasera sarà l’ultima. Non dirmi cosa sono perché mi si spaccherebbe il cuore. 
Tanto so che non lo farai. Perché la nostra storia nasce e muore in questo letto. Sono le regole.

Io non volevo infrangerle, le tue regole, ma come faccio a spiegarti che sei il terremoto che mi ha squassato la vita, l’inondazione che segue un diluvio. Non eri previsto. Non era previsto niente di ciò che oggi è. Hai spazzato via tutto il resto. Non ci sei che tu, ora, e sei tutto ciò che voglio. Fino a domani. Perché domani non ti vorrò più. Non vorrò volerti, per non farmi altro male. Perché so che stanotte non resterai.

Ti accolgo con devozione. Sembri creato su misura per me, sei anatomicamente perfetto. Ti sento come nessun altro prima; ogni cellula risponde a te, sei la mia guida, il mio condottiero, il mio re. 
Ti salgo sopra, voglio guardarti mentre mi porti con te. Voglio che mi guardi mentre vengo con te. L’orgasmo mi travolge come un’ondata feroce; il primo è sempre così imponente, così disperato. È il primo ma non sarà l’unico. Lo so, non lo è mai. Sei generoso, mi concedi quello che voglio per quanto tempo voglio, nel tempo di una notte. Mi sollevo dal tuo ventre e rotolo sotto di te. Ogni tua spinta è una ferita che vomita stelle. Non fermarti, arrivami al cuore e pugnalami perché tanto lo farai comunque uscendo da quella porta, come fai sempre. Usa quelle tue maledette, bellissime mani e strappamelo, se tu non lo vuoi non saprei che farmene. Fammi morire godendo, ché crepare affogando nel desiderio di un incerto domani è mille volte peggio.

Ti ho servito. Ti ho coperto di carezze e baci. Ti ho leccato e assaporato, ho serrato le tue carni, le ho graffiate, marchiate, adorate. Ti ho guardato negli occhi e ti ho detto tutto quello che a voce non vorresti sentire. Ti ho bevuto mentre toccavi il paradiso e ancora, mentre riscendevi su questo letto, delicato come una piuma. Ti ho dato me stessa. Del mio patetico steccato non è rimasto che un solo paletto, conficcato dritto nel cuore: io vampiro, tu spietato cacciatore. Tu, che puoi avere tutte le donne che desideri, io che desidero solo te. Una bilancia sbilanciata, la nostra. Non può essere. Non deve.
Ti osservo mentre ti rivesti e non ti accorgi che sto morendo. Imprimo a fuoco l’immagine di te che vai via perché con quella sarà più facile sopravvivere.
Mi accompagni? Ti accompagno, certo. Ti apro la porta, ti guardo per l’ultima volta e sento montare la disperazione. Odio gli addii. Li odio, li odio, li odio…
Mi scosti i capelli dal viso e lasci che ti rubi un’ultima carezza. Mio dio, le tue mani… Mi sorridi. Mi baci. Meraviglia…
«Alla prossima. Ci sentiamo in questi giorni.»
Ok. Alla prossima.