lunedì 30 ottobre 2017

Doccia fredda #22 Campagna estiva



- Dio che caldo!
- Fatti una doccia!
- Oggi non c'è acqua!
L'irritazione dell'afa estiva, l'intolleranza a mille, perfino il fatti una doccia aveva amplificato il mio nervosismo.
C'era bisogno di dirmelo? Vive anche lui qui, lo sa che oggi non c'è acqua.
Non c'è acqua da settimane, dilazioniamo quella riempita nei giorni passati. E' tutto un caos di catini sparsi ovunque e il water è sempre sporco perchè lui non ci pensa a passarci lo spazzolone.
- Non c'è acqua – risponde quando glielo faccio notare – è normale avere il water sporco.
Ma tanto è inutile affrontare ancora l'argomento, mi risponderà come sempre che sono nervosa e di interrogarmi sul perchè, che non ha detto niente di strano, che vedo sottofondi inesistenti ovunque. Sottofondi inesistenti!
Ho taciuto volgendo lo sguardo altrove, verso i cani.
- Avrebbero bisogno di essere bagnati un po' – ha detto - è troppo caldo per loro!
Lo fa apposta, sta tentando di esasperarmi. E' così cristallino il suo comportamento che ci vedo perfino quel sottofondo inesistente!
- Mettiti sotto un albero, lì passa un po' d'aria.
- Non c'è vento.
- Pazienta.
- Ho solo detto Dio che caldo, non mi pare di essermi lamentata oltre.
- Pazienta.
- Ma mi ascolti?
- Se pazienti un attimo che io finisca di legare queste piante, ti ascolto.
- Due cose insieme no, eh!
- Sei lagnosa.
- Ho solo detto Dio che caldo!
- E' una lagna.
- E' una constatazione.
- E' una constatazione lagnosa.
Sono andata a farmi un giro per il bosco mentre lui continuava a legare piante, a sudare, a fare finta che questo caldo opprimente non ci fosse. Eroico, lui! Lo fa solo per dimostrarmi che sono sfinente, che se tollera lui posso tollerare anche io, che se mi si appiccicano le ascelle di sudore non è un dramma, che se i miei piedi sono neri per la polvere che c'è di fuori si può attendere che torni l'acqua, tanto qui non viene nessuno che possa notare che sono sporchi.
Sì, non viene nessuno, è vero.
Ha fatto in modo che potessimo stare soli per sempre. Non c'è nulla qui che possa essere invitante per altri. Ci sono solo alberi secchi, terra arsa, foglie in ogni angolo come fosse autunno. Non c'è neppure una strada che si dica tale per poter arrivare qui. Uscire poi è una tragedia immane, si rischia la vita in ogni istante, si rischia che la macchina si cappotti.
Ma lui non fa che ripetermi quanto sono impedita, quanto sono incapace di guidare, quanto sono solo pronta a lamentarmi di tutto.
Ho provato ad uscire a piedi ma a cento metri ci sono dei cani feroci a guardia di un gregge di pecore. Uno mi ha morso la caviglia ieri l'altro.
- Ti sta bene – mi ha detto – e ora provvedi da sola che qui il medico non arriva e io ho da fare.
Sono mesi che il telefono fisso gracchia, che non riesco ad avere una conversazione decente con un altro essere umano. Sono mesi che il cellulare mi invia messaggi che mi sono stati trasmessi settimane prima perchè qui non c'è campo e devo girovagare per trovare una tacca.
Sono mesi che gli chiedo di uscire un po' e di guidare lui fino al paese.
- Non sai stare sola.
- Usciamo, incontriamo gente, scambiamo qualche parola con altre persone.
- Se mi amassi, capiresti quanto può essere offensivo questo tuo mostrare fastidio al nostro stare insieme da soli. Ci ho provato a dirtelo che sei troppo socievole, troppo aperta, troppo comunicativa. Non c'è verso di farti capire che stare qui è l'unica possibilità che hai di essere una donna diversa.
Cammino nel bosco con i tafani che mi aggrediscono, che si legano al mio sudore, che tentano di bere il mio sangue che ribolle. Mi sembra di sentire lamenti di animali ovunque e immagino che da un momento all'altro il puzzo del mio sudore li attragga verso di me e mi prendano a morsi, dilaniandomi, placando la loro sete con il mio sangue caldo.
Sono esausta, ora torno di sopra e gli dico che è finita, che voglio andare via, che deve lasciarmi libera.
Salgo la scala nel bosco trafelata, perdo una scarpa tanto corro, ma non m'importa. Continuo a salire trafelata.
Non vedo altro che il momento in cui interromperò tutto questo assurdo silenzio e urlerò la mia rabbia, l'insofferenza per questo posto fuori dal mondo. Zittirò con le mie urla il cinguettio di questi uccelletti che cacano ovunque, spaventerò le lucertole che oziano su ogni zanzariera come fossero calamite dei ricordi di viaggi attaccate a un frigorifero. Urlerò talmente tanto che il mio fiato farà muovere le foglie sugli alberi, cascheranno tutte aumentando lo scrocchiare che sento sotto le scarpe a ogni passo, qul monotono scroc scroc quotidiano.
E' mentre salgo la scala che vedo l'accetta col manico rosso messa lì fra robaccia stipata che mi dice non sa dove mettere, l'accumulo di ferraglia, le bottiglie vuote piene solo di insetti sul fondo che stanno crepando e marcendo senza riuscire a risalire, le cassette di plastica deformatesi al sole, i due pneumatici sgonfi e i rumasugli di spazzatura che, a sentire lui, fanno concime. E invece puzzano, puzzano di un odore indefinibile, piene di api che cercano chissà cosa, ronzii di ogni minuscola specie alata.
E' ancora lì che lega lentamente quelle piante, con quella pacatezza che riesce solo ad aumentare la mia rabbia, che mi prende allo stomaco fino a farmi sentire la sensazione del vomito.
Ce l'ho fra le mani quell'accetta e non vedo altro dinanzi a me che la sua schiena che si sposta lentamente fra un movimento e l'altro. Gli arrivo alle spalle velocemente, come una furia, non ha neppure il tempo di girarsi tanto sono veloce.
Butto fuori un urlo disperato e zac! Gliel'ho piantata secca nella spina dorsale! Un unico colpo, netto, chiaro, vigoroso, con tutta l'energia che m'è rimasta.
Lo vedo piegarsi sulle gambe, senza neppure la forza di voltarsi. Si piega lentamente, cercando nella terra qualcosa a cui aggraparsi. E si accascia. Respira ancora. Gli vado davanti, mi allunga una mano per chiedermi aiuto. Lo guardo. Sputo sulla sua testa. Giro le spalle ed entro in casa.
Apro senza pensare il rubinetto del lavandino in cucina.
L'acqua scroscia a sorpresa.
E' tornata!







venerdì 27 ottobre 2017

Doccia fredda #21 Il sorriso dell'aviatore

Aveva respirato e mangiato polvere tante volte. Per le ristrutturazioni della casa.
Pareti abbattute e riedificate, stanze rivoluzionate, porte spostate.
La cucina, da angolo cottura, era arrivata a essere l'ambiente più spazioso dell'appartamento.
Mangio spesso fuori, diceva, ma quando ho voglia di tana devo avere i miei metri quadri.
Lavori e ancora lavori. Muratori su muratori con piastrellisti, idraulici ed elettricisti che smontarono e rimontarono quella casa come fosse un plastico.
Prima la carta da parati, poi muro, poi maioliche. Quella casa aveva cambiato volto così tante volte da non aver più nulla a che vedere con le carte catastali.
Una cosa, una sola, non era mai cambiata. Lo zio.
Quello zio aviatore che sorrideva nella cornice in una foto bianco e nero.
La calotta, gli occhialoni e una sciarpa sulla bocca. Ma attraverso le lenti si percepiva il sorriso di quel pilota della Regia Aeronautica.
Zio, poggiato con un gomito alla carlinga. Nell'altra mano una sigaretta. Zio, aitante e giovane aviere, che solo con quella sua posa ti raccontava il 15-18.
Le battaglie, le vittorie, la paura e la voglia di tornare a casa. Il suo sorriso a sfidare quella guerra puttana che allagò nel sangue mezzo mondo, infischiandosene se fosse rosso, giallo o nero.
Un bastardino, ai piedi dello zio. Io e "mistero", c'era scritto in calce alla foto. Perché nessuno seppe mai il nome di quel cane salvato dalla fame e dalle schioppettate.
Ma mistero fu anche nella sorte dello zio. Disperso, dissero. Probabilmente intrappolato e dimenticato nella carlinga della Regia Aeronautica.
Ma quella notte il sonno fu traditore. Il riposo a episodi senza dare mai il senso della totale rilassatezza. E poi sete, tanta sete. Quasi l'arsura.
Pochi passi fino a raggiungere la cucina, la grande cucina-tana con tanti metri quadri.
Vuota. La cornice era vuota. Un rettangolo di legno marrone e una lastra bianca.
Un rombo lontano tagliò la notte. Spalancò la finestra giusto in tempo per vedere lassù un biplano della Regia Aeronautica.

martedì 24 ottobre 2017

Doccia fredda #20 Lo strano caso della fioraia di West Norwood

Lo strano caso della fioraia di West Norwood
La bettola preferita di Arthur Dempsey sorgeva alle spalle della sede di Scotland Yard. E non era un caso, visti i contatti che foraggiava tra gli agenti della polizia metropolitana di Londra e gli inservienti dell’annesso obitorio diretto da Sir Lisander Orwell. Non si stupì, entrando in quel pomeriggio piovoso, di scorgere la nota sagoma di Oliver. Arthur scosse contro la coscia il cappello zuppo di pioggia, passò un fazzoletto sul volto e affrontò l’atmosfera fumosa e gravida di effluvi umani della bettola.
“Te lo fai un altro giro?”, chiese sedendo al tavolo occupato da Oliver.
L’uomo, portantino della Morgue e informatore prezioso, non alzò neanche la testa per accettare. Arthur fece cenno all’oste.
“Hai qualcosa per me?”, chiese offrendogli da fumare.
“Solo se hai voglia di ascoltare una storia strana. Tanto strana. Una di quelle che i lettori del tuo giornale non crederanno mai”
La voce era impastata dalle libagioni. Ma Arthur lo conosceva bene. E percepì l’ostacolo tra lingua e palato: paura. Oliver era spaventato a morte.
“Sono le storie migliori. Qualche cadavere si è ribellato al bisturi del dottor Orwell?” scherzò.
La mano massiccia dell’uomo scattò, contraddicendo la fissità mantenuta fino a quel momento, e artigliò il braccio di Dempsey.
“Non prendermi in giro, non stavolta, per Dio!”
Il cronista non si ribellò al contatto. Attese. La presa si sciolse e l’arrivo della birra distese per un attimo l’atmosfera. Intorno a loro il brusio delle voci, qualche rutto, l’esultanza di un tiro fortunato a freccette. Oliver si mosse, infilò una mano all’interno della giubba che puzzava di cane bagnato.
“Venti scellini”, biascicò. “Venti scellini o non se ne fa niente.”
“Lo sai che non compro a scatola chiusa, Oliver. Che nascondi lì dentro?”
Il portantino prese un lungo sorso di birra. Si pulì il labbro superiore sulla manica della giubba, poi pose sul tavolo una busta stropicciata.
Arthur sollevò il lembo ed estrasse una fotografia. Nella luce incerta della bettola fu costretto a piazzare sul naso gli occhiali per capire. Una tomba, una di quelle che venivano ingabbiate con una grata di ferro. Una protezione contro le sempre più frequenti razzie ai danni delle tumulazioni signorili. Questa la motivazione reale. Ma Dempsey sapeva che il popolino amava le storie macabre e che ogni tomba chiusa dalla grata diventava il riposo molto poco eterno di morti con la strana propensione a uscire dal loculo per tormentare i vivi. Vampiri, per lo più. E proprio un’illustrazione da penny dreadful sembrava quella foto. Tra il terreno e la grata c’era una donna. Difficile distinguerne le fattezze in quella foto dalla stampa granulosa. Ma l’espressione di quel volto fatto d’ombre era terrorizzata, le mani artigliavano la grata, come se la volessero scardinare per potersi sollevare e fuggire, la bocca era spalancata, una grande O indistinta, in un urlo muto.
Dempsey tolse gli occhiali e guardò Oliver.
“Che significa?”, chiese senza restituire la foto.
“Venti scellini.”
Il cronista ne mise dieci nel palmo calloso.
“Per il resto vediamo. Allora, che storia è?
Oliver incassò il denaro, prese un altro sorso di birra e confuse un sospiro con un rutto.
“Si chiamava Cheryl e vendeva fiori per sbarcare il lunario. Magari non vendeva solo quelli, ma è certo che le rose che proponeva ai passanti le rubava. Dalle tombe. Anzi, da una tomba. Quella della foto. Una morte recente, di una gran signora. Il guardiano del camposanto era amico di Cheryl e dice che la gabbia serviva a proteggere la salma. Era una donna ricca e l’hanno seppellita con addosso i gioielli. Ma la gente racconta una storia diversa. Dice che la gabbia serve a tenere a bada la malvagità di quella donna che ha spezzato molti cuori. E tutti giorni, sulla tomba, arrivavano rose bianche e rosse. Sembravano schizzate di sangue. Cheryl lo sapeva e le rubava per rivenderle.” Altro sorso di birra. “Ma la donna sepolta non era d’accordo.”
Oliver alzò gli occhi in quelli di Dempsey. “Nessuno sa spiegare come è successo. La gabbia di ferro battuto è saldata e nessun corpo umano può infilarsi lì dentro. Non tutto intero, per Dio. Eppure ieri mattina il guardiano ha trovato Cheryl in quel modo. Dentro quella fottuta gabbia, le mani aggrappate alle sbarre, gli occhi spalancati per il terrore e la bocca aperta. Ma non ha urlato, capisci? Non poteva. Sir Lisander ha detto che è morta soffocata. Qualcuno o qualcosa le ha cacciato in gola rose, tante, col gambo, le spine, le foglie, tutto. Quelle rose. Quelle bianche schizzate di sangue. Le rose che lei rubava alla morta.”
La storia c’era tutta, pensò Arthur mentre il portantino scolava il boccale.
“Voglio vedere la fioraia. Nella foto questa cosa delle rose non si distingue. Devo verificare.”
Oliver si strinse nelle spalle.
“Dammi i dieci scellini che mancano e torna stanotte.”
La solita prassi. Il cronista pagò. Uscì dalla bettola e attese in redazione che il buio finisse di addensarsi su Londra insieme alla nebbia e ai fumi dei comignoli. Oliver, più ubriaco di come lo aveva lasciato, lo aspettava per aprire la porta di servizio dell’obitorio. Un reciproco cenno della testa fu tutto ciò che si concessero, poi l’uomo lo guidò lungo il corridoio fino alla sala dove i corpi di morti ammazzati, suicidi e poveracci caduti sotto i colpi della fame, attendevano di essere ammassati in una sepoltura comune. Arthur mise davanti a bocca e naso un fazzoletto spruzzato di olio essenziale per resistere al fetore mentre sfilavano tra le barelle.
“Eccola”, annunciò Oliver indicando una sagoma sotto un telo. “Era bella, da viva.”

Poi alzò la lampada e la scoprì. Fu il primo a urlare. Dempsey mise più di qualche istante a capire cosa stesse guardando. Rovi, rami, tralci spinosi. Appena la luce della lampada li rese distinguibili, cominciarono a muoversi come serpi, serrando le membra illividite da cui traevano nutrimento. Ciò che restava di Cheryl era ancora visibile nel volto e l’urlo che Arthur aveva trattenuto fiorì come la bocca disarticolata della morta. Una rosa. Una piroette subitanea di petali candidi, vellutati e osceni si schiuse tra quelle labbra cianotiche. E rivelò un vortice scarlatto e palpitante. Vivo. 

lunedì 23 ottobre 2017

Doccia fredda #19 Il buio e il gatto

La luce proviene da una lampadina sul soffitto. E’sufficientemente forte per illuminare la cavità nella quale mi trovo. Sulle pareti le linee rosse tracciate a vari livelli indicano che mi trovo verosimilmente in una cisterna, forse proprio quella che sta sotto il mio palazzo.
   Me ne avevano parlato quando sono venuto ad abitare in questo antico edificio alle spalle di via Foria. Dalle mie finestre si vede il giardino retrostante. Un giorno il proprietario, docente di filosofia, mi invitò a visitarlo. Mi colpì il gran numero di gatti presenti nel giardino. Il professore mi indicò le scale che portano giù alla cisterna e mi raccontò la storia dell’antico convento che aveva avuto sede nel palazzo. Mi parlò delle tragiche vicende amorose di alcune suore e mi fece vedere gli scheletrini dei feti ritrovati nelle mura. Quando me ne andai un gatto mi seguì ed il professore sorridendo mi disse: <<Lo porti con sè. Il gatto è una difesa formidabile contro i fantasmi che si aggirano in questo edificio>>.
   La sera il gatto stava sempre nell’ultima camera, quella che confina con un muro del giardino sottostante. E’ il mio studio dove c’è un comodo divano.
   L’altra sera mi sono addormentato in quella stanza ed ho sentito una voce che mi diceva: <<Domani sono 300 anni che sono stata uccisa nella cisterna dal mio amante. Ti condurrò giù per riportare alla luce il mio corpo>>.
   Ho pensato ad un brutto sogno. Ma ieri sera tornando a casa mi ha colpito la mancanza di luce nelle scale. Sì, adesso mi ricordo. Quando sono entrato le finestre erano spalancate ed in fondo allo studio ho visto la figura di una suora giovane e bella. Mi sono avvicinato e lei si è staccata dal muro, mi ha preso per mano e siamo scesi di corsa lungo le scale fino al  giardino e poi giù nella cisterna. Il buio era fitto. Ho sentito mancarmi l’aria e poi ho perso conoscenza.

    Adesso sento la voce del professore. E’ stato lui ad accendere la lampadina nella cisterna. Mi vede e mi chiede: <<Ma come ha fatto a scendere giù senza alcuna luce?>>. Gli racconto la storia della suora. Il professore mi ascolta per nulla turbato. Mi assicuro di non essere ferito e ritorno a casa. Tutto è in ordine. Il gatto sta bevendo il latte nella ciotola. Dopo poco sento l’arrivo di un’auto della polizia. Il portiere mi riferisce che là dove sono caduto sono emerse le ossa di una mano. Hanno scavato ed è venuto fuori uno scheletro rivestito dai resti di un abito monacale. Stanotte il gatto dorme sul mio letto ronfando tranquillo.

sabato 21 ottobre 2017

Doccia fredda #18 Fuori dal tempo

Autismo. Un concetto complicato, una patologia complicata, che rende la vita quotidiana complicata, ardua da affrontare. Ma gli educatori devono abituarsi a gestire ogni tipologia di bambino, con le proprie peculiarità, comuni o inusuali.
Tutte maestre, qualche maestro, e alcuni genitori in difficoltà. Comunque una sala gremita di persone concentrate sul simposio tenuto dalla dottoressa arrivata da lontano, che sembrava avere una scomoda verità nelle sue tasche.
Giovanna era un po' maestra e un po' mamma, anche se i suoi figli, grazie al cielo, non avevano mai mostrato sintomi preoccupanti, che potessero far sospettare di rientrare nello spettro autistico. Ma proprio perché mamma, nonostante la sua professionalità la spingesse a prestare attenzione ai dati esposti, controllava sempre più spesso l'orologio da polso, programmando mentalmente le attività da svolgere alla fine di quel corso di aggiornamento.
Dunque, vado a prendere Alba al nido e poi passo dai miei a recuperare Ettore, così che... No, meglio andare al supermercato solo con Alba....
Da sola, con due bambini, fare la spesa diventava un inferno.
Scosse il capo costernata, sbattendo le palpebre nell'incredulità: era la terza volta che il quadrante glitterato del suo Swatch le rimandava lo stesso orario, le quattordici e quattordici.
Fissò più attentamente le lancette che, effettivamente, sembravano bloccate: quella più sottile, dei secondi, eseguiva flebili vibrazioni avanti e indietro, come le ali di una mosca agonizzante. Infatti, non ci aveva fatto caso, ma il fastidioso ticchettio aveva cessato di tenerle compagnia già da un po'.
Orologio fermo, che disdetta!
Cercando di mantenere una certa compostezza, Giovanna inclinò il collo prima alla sua destra, poi a sinistra, cercando di sbirciare i polsi delle sue vicine; ma nessuna di loro portava un orologio.
Maledetti cellulari. Inveì in cuor suo. Hanno guastato ogni più semplice convenzione sociale!
Le seccava disturbare qualcuno per chiedere l'ora e alzò il capo nella speranza di scorgere un orologio da parete, nascosto dietro a una delle colonne dell'aula magna in stile Neoclassico.
Facendo vagare lo sguardo avanti a sé, notò che più di qualcuno sembrava spaesato, nel fissare attonito il display dello smartphone, per poi guardarsi attorno alla ricerca di una risposta all'evento bizzarro.
Persino il relatore accanto alla dottoressa appariva in difficoltà, mentre picchiettava convulsamente con l'unghia dell'indice sul quadrante del proprio orologio -almeno qualcuno aveva mantenuto le buone abitudini- e iniziava a sudare freddo.
Nel giro di pochi minuti, scosse di panico iniziarono a serpeggiare per la sala: tutti si stavano rendendo conto che il tempo si era fermato. A dire il vero, si erano fermati gli orologi, compresi quelli digitali più sofisticati; ma l'impressione era quella di trovarsi fuori dal tempo, imprigionati in un minuto eterno, il quindicesimo dopo le quattordici.
L'unico tranquillo nell'aula era un bambino, seduto pacifico all'estremità della prima fila, a giocare con il suo Gameboy. Un vero Gameboy, non un moderno DS, 3 DS o quelli lì, il classico, enorme, Gameboy anni '90.
A quel punto, nella platea le voci iniziarono a confondersi in un unico assordante brusio e la relatrice si vide costretta a interrompere il discorso, disturbata dalla commozione dell'uditorio.
La donna sembrò confusa, sul punto di chiedere il motivo di quel trambusto; poi controllò l'orario sull'orologio del leggio e sorrise, assumendo un'espressione imbarazzata.
L'ambiente era tornato silenzioso perché le reazioni della dottoressa avevano catalizzato l'attenzione generale, ancor più che durante le spiegazioni precedenti.
Giovanna la osservò mentre si schiariva la voce, prima di irrigidire la schiena e riprendere a parlare, con voce più dolce, rispetto alla monotona esposizione.
«Giorgio, ti dispiace?» richiamò il bambino.
Il piccolo sollevò il capo, come svegliandosi da un momento di trance e annuì compito.
In quel momento, la magia che aveva legato i presenti svanì, e gli orologi ripresero a funzionare.
«Mi dispiace» riprese la relatrice, senza abbandonare l'imbarazzo. «Non ci sono prove che questo... ehm... disturbo... sia legato alla patologia; almeno non tutti i bambini autistici ne sono capaci. Ma a mio figlio succede, quando è particolarmente concentrato. Blocca il tempo.»
Era un'affermazione pazzesca, fuori da ogni logica. Anacronistica.
Ma la dottoressa, che sembrava aver assunto un'aura di particolare autorevolezza nella sua postura, concluse l'esposizione con un'ultima battuta a effetto.
«Signori, anche questo è autismo!»
Lo scroscio di applausi fu assordante, tanto da destabilizzare un po' tutti e permettere all'eminente dottoressa di scomparire assieme al figlio.
Nessuno avrebbe parlato di quell'esperienza surreale, insicuri sull'effettiva manifestazione del fenomeno. Ma per un minuto erano stati accomunati da un destino comune, che aveva permesso a tutti di toccare con mano come potesse sentirsi un individuo che vive costantemente fuori dal tempo e dallo spazio.

Erano ben lontani dal comprendere fino in fondo l'Universo Autismo, ma in quel minuto ci erano andati vicini, e all'uscita, tutti avevano il cuore più sollevato, guardando al dopo con più ottimismo.

giovedì 19 ottobre 2017

Doccia fredda #17 Mai nelle processioni

Lo vedevi tutti gli anni addossato a un muro, mentre osservava attentamente la processione della Madonna, il 14 di agosto. Spesso fumava, che pareva anche un tantino irrispettoso. Era un bel ragazzo e sembrava non invecchiare mai, "Come suo padre e suo nonno, del resto", aggiungevano i vecchi del paese. Nessuno sapeva di preciso che mestiere facesse, sicuramente lavorava a Roma.
Nel paese non c'era niente di bello se non la tabella degli orari dei pullman per andare da qualche altra parte, che comunque passavano di rado durante la giornata. Era così piccolo che quando tutta la processione si dipanava giù dalle scale della chiesa per la strada principale era già finito, e toccava tornare indietro. I grandi stendardi venivano capovolti, i confratelli con le mantelline scolorite si dividevano in due file e tornavano indietro ai lati di chi continuava ad avanzare. Per fermare tutti il sagrestano gridava "Ave Maria!" con un tono brusco che non lasciava dubbi che si trattasse di un ordine e non di una preghiera.
Il giovane aveva sempre un sorriso per i bambini piccoli, quelli che a giudicare dall'aspetto vedevano la festa per la prima volta, spesso infiocchettati all'inverosimile e con braccialini d'oro ai polsi cicciosi. Ma a volte su quella bella faccia che girava tra la folla cadeva una specie di ombra nera. Se seguivi il suo sguardo vedevi spesso un vecchio, ma non sempre. Annuiva e diceva qualcosa tra sé.
Donato, invece, era lo scemo del paese. Un bravo ragazzo, solo nato diverso dagli altri. I genitori non avevano mai chiesto l'invalidità perché avevano vergogna, e così Donato non aveva mai avuto assistenza a scuola, e ora non lavorava né aveva una pensione. Girava molto e osservava. Quel tipo lì lo teneva sottocchio da anni. Alla fine aveva imparato a leggere sulle labbra quello che diceva quando osservava la gente durante la processione.
Faceva molto caldo quell'anno e già gli giravano le scatole, così lo affrontò una volta per tutte.
«Ciao»
«Ciao, Donato. Come stai?»
Donato non era disponibile alle chiacchiere.
«Bene. Perché quando passa la processione guardi la gente e dici "Tu sì" e "Tu no"?»
Il giovane fece un vago sorriso. «Ma cosa dici? Ti sbagli»
«Ti ho visto, lo fai tutti gli anni. Quando passa la processione. L'altr'anno hai detto "Tu no" a zio Agapito e poi è morto»
«Te l'ha detto lui?»
«Che era morto? No, l'ho letto sul manifesto. Non era zio mio, però era uguale. Mi voleva bene»
«Mi dispiace, ma io che c'entro?»
Donato strinse le labbra, deciso ad andare fino in fondo.
«Tu sei tipo l'angelo della morte. Conti tutta la gente che c'è alla processione della Madonna e decidi chi resta vivo fino alla prossima e chi non la vedrà mai più. Ci deve essere uno come te in tutti i paesi, anche a Tivoli e a Palestrina. Magari a Roma ce ne sono tanti, perché è grande».
Il giovane rise e la sua risata sembrava una cascatella d'acqua fredda. Era bella ma faceva un po' paura.
«Dai, ti prego! Chi ti ha messo in testa questa cosa? L'angelo della morte! La gente muore in continuazione, è il destino, la vita, come diavolo vuoi chiamarla. Vedi troppa televisione, Donato». Poi la sua espressione cambiò leggermente: si vedeva come il duro delle ossa sotto il suo sorriso. «Lasciami guardare la processione, dai. Mi stai distraendo»
«Perché devi fare il tuo sporco lavoro?» Donato si stava caricando di rabbia.
Il giovane sbuffò fumo e impazienza dalla sua bella bocca.
«Perché la festa c'è una sola volta all'anno, e dura poco. Quante processioni della Madonna vedrai, in tutta la tua vita? Prova a contarle, Donato».
Il sole era già tramontato, ma il caldo non accennava a scemare. Si sudava, in quella strada stretta che era l'unica del paese: per creare l'unica piazza c'era voluta una bombola del gas che era esplosa negli anni '50 e che aveva abbattuto una casa. Qualcuno nella folla si stava accorgendo dell'alterco tra i due e cercava di zittirli.
«Stiamo buoni, li senti?», disse il giovane piano. «Stiamo disturbando la festa».
Donato era pallido dalla rabbia: quel tipo negava l'evidenza, o forse non c'entrava davvero nulla con la morte. Era un peccato, perché sarebbe stato troppo bello potergli parlare e convincerlo a lasciar stare la gente che gli voleva bene. Sarebbe rimasto solo, lo sapeva. Non era così scemo. Mamma e papà erano vecchi, papà stava pure male con la pressione. I suoi fratelli vivevano in città e avevano una famiglia di cui occuparsi, dei figli. La morte era una cosa orribile.
«Donato, la morte è necessaria», disse il giovane con tono dolce, come rispondendo ai suoi pensieri. «Ogni vita si consuma, e dà spazio ad altre vite. I bambini che vedi oggi, tutti felici perché c'è tanta gente e la banda e le luci accese, non potrebbero nascere se altri non si facessero da parte. Lo vedi quant'è stretta questa strada? Il mondo è come questo paese: quando finisce, finisce. Nemmeno la processione lo può rendere più grande di quello che è».
Donato guardò bene il viso del giovane. Era più bello che mai e sembrava quasi splendere nella sera. Allora prese dalla tasca il pugnale che aveva intinto di nascosto nell'acquasantiera, durante la messa, e lo colpì al petto, di taglio, per infilarsi tra una costola all'altra e arrivare al cuore. Sempre che quella creatura ne avesse uno. Lo colpì più volte e spillò il suo sangue da cento ferite. Il giovane si accasciò a terra senza un gemito, mentre la Madonna passava e la banda suonava. Donato lo vide parlare a fior di labbra e si avvicinò per ascoltare, nel terrore che stesse dicendo "Tu no" e lo condannasse a morte. Invece delirava nell'agonia.
«Mi ricordo di Maria... aveva un carattere! Li faceva rigare dritti tutti... e quando l'andai a prendere mi si spezzò il cuore... perché io...» Poi chiuse gli occhi per sempre.


Donato fu riconosciuto incapace di intendere e di volere. Fu affidato a un istituto: gli dispiacque molto lasciare il paese, ma i genitori prendevano la corriera quasi tutti i giorni per andare a trovarlo, e così non si sentì troppo solo. Continuarono per anni, e Donato fu l'unico ad accorgersi che non invecchiavano più, e non morivano. 

martedì 17 ottobre 2017

Doccia fredda #16 Bloody Mary

Finita la sequenza degli esordienti, torniamo a coloro che, nel tempo, hanno calcato le scene editoriali. Quindi potete smettere di essere gentili (ma evitate di essere cafoni)

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Nel paese incantato dei sogni le creature delle favole scivolano via dalle pagine patinate per raggiungere la reggia di King Cole. Nella sala dei banchetti il pifferaio magico, i tre porcellini, Little boy blue, Cappuccetto Rosso, la Regina di Cuori, Hunpyy Dumpty e tutti gli altri fanno a gara per esibirsi sul palcoscenico prima che scocchi la mezzanotte. All'ultimo tocco dell'orologio, quando tutti i protagonisti sono già a letto, chi conosce la voce del silenzio riesce a sentire lo scricchiolio dei passi per strada mentre il vento urla: « Play me my song, Bloody Mary ».
Da qualche parte una bambina sta piangendo. Da qualche parte un bambino ha perso la testa.
L'urlo del vento si fa voce per raccontare una storia:
Cynthia Jane De Blaise-William entrò al Musical Box per il solito cocktail. Quattro grosse prese di sale sul fondo dello shaker, due di pepe nero, due di pepe di Caienna, uno strato di salsa Worcestershi-re, una spruzzata di succo di limone, ghiaccio tritato, due once di vodka e due di spesso succo di pomodoro. Henry Hamilton-Smythe dietro al bancone agitò lo shaker, filtrò e versò la bevanda insanguinata nel highball, vi infilò una stecca di sedano, lo porse all'amica, e guardandola disse : « Ciao cara, è un po' di tempo che non vedo la tua faccia. Hai finito di stare in galera per causa mia? Sei ancora la bambina viziata? Ciao, ho detto ciao, perché non mi rispondi? Questo è l'unico posto dove puoi incontrarmi. Sono l'unico uomo che hai mai avuto. No, mi correggo, meglio dire che avresti potuto avere se fossi sopravvissuto ai tuoi colpi di testa. Siamo una bella coppia tu ed io, su quest'isola nel mare dell'oltre. Ti voglio amare per sempre, non ti lascerò mai. Apri il tuo cuore e lascia scorrere i sentimenti. Non sei stata sfortunata a incontrare un ragazzo come me. Ho sbagliato il primo passo e tu mi hai subito rubato la scena scaraventandomi dietro le quinte o meglio ancora, nella botola del suggeritore ».
Il mondo attraverso il bicchiere diventò un campo di croquet che si perdeva a forma di triangolo isoscele in lontananza nell'orizzonte. L'erba del prato era rasata a fasce longitudinali, bicolori per l'alternanza del senso del taglio.
Nella battaglia tattica si gioca con quattro palle, Blu e Nero contro Rosso e Giallo; lo scopo del gioco è quello di segnare punti facendo passare con un colpo di mazza una palla sotto gli archetti disposti a formare il percorso, al termine del quale si deve colpire un picchetto al centro del campo.
Ma non sempre si gioca in questo modo.
Oltre il vetro del cocktail rosso le palle del gioco erano sostitui-te dalle teste di tanti piccoli Henry.
Cynthia quando aveva nove anni giocava con Henry. L'abilissimo, dispettoso e antipatico coetaneo ogni volta che segnava un punto la sfotteva e le tirava i capelli; una volta le mise le mani addosso e le strappò la catenella d'oro che portava al collo. Da quel giorno crebbe nella ragazzina la sensazione che il suo compagno la guardasse in modo strano, come un arciere pronto a colpirla con la sua freccia. Quando lo sentì dire : « Il mio uccello vola in alto, scivola tra le mie mani, prendilo, toccalo » alterata più del solito brandì con gran forza la mazza di legno e con un colpo spettacolare staccò la testa dal collo del ragazzo facendola ruzzolare nella porta arcuata. A chi la interrogava sul misfatto, la piccola con estremo candore rispondeva: « Lui continuava a dire che con la sua testa poteva centrare ogni bersaglio; penetrare in ogni fessura. Non ho fatto altro che assecondare il suo desiderio ».
Due settimane dopo la tragedia, la bambina, ribattezzata Bloody Mary dalle male lingue, rovistando tra i giocattoli nella cameretta di Henry alla ricerca della propria preziosa catenella scoprì il carillon. La memoria registrata sul cilindro metallico mettendo in vibrazione le lamelle riproduceva una vecchia filastrocca:
Old King Cole era una vecchia anima allegra, voleva la sua pipa, voleva il suo arco e voleva i suoi tre violinisti”.
Dalla scatola musicale decorata uscì una piccola figura di spirito: Henry era tornato. Roteando a tempo di musica, il suo corpo iniziò rapidamente ad invecchiare. Il piccolo protagonista tornato dall'aldilà sotto forma di un vecchio lascivo cercava invano di soddisfare sulla ex-compagna di giochi le pulsioni carnali represse da una vita interrotta.
Cynthia sorseggiò la sua bibita, masticò il sedano, caricò la molla del carillon: un solo giro perché la vita di Henry durava tutto il tempo della filastrocca. « Il mio uccello vola ancora in alto. Hai creduto che volessi farti del male e invece volevo solo insegnarti ad amare, legarti a me come la catena che brillava sul tuo piccolo seno e che ora tieni nascosta sotto il cuscino. Ora sei una donna, hai il tempo dalla tua parte. Fatti vedere in viso, tira indietro i capelli, lascia che conosca il tuo corpo. Sto aspettando qui ogni volta. E tutto il tempo che è passato sembra quasi non avere importanza ora, se te ne stai lì con il tuo sguardo fisso dubitando di tutto ciò che ti dico. Perché non mi tocchi. Toccami.Toccami. Ti voglio ora ».
Il bicchiere era vuoto, il carillon stava terminando la sua corsa.
Cynthia sussurrò: « Il vento riporterà i nomi che ha soffiato nel passato?. No, questa è l'ultima volta ». Afferrò il bicchiere e lo scagliò contro il vetro della finestra. La musica era finita e il vento non soffiava più. Henry non sarebbe più tornato.
Ma tu che leggi se vuoi sentire la canzone di Old King Cole, devi fare girare sul piatto il disco dei Genesis: la voce di Peter Gabriel ti trasporterà sul campo di croquet nel bucolico paesaggio al tramonto dipinto da Paul Whitehead e poi...puoi sempre scegliere di naufragare nel mare insanguinato di un Bloody Mary.

domenica 15 ottobre 2017

Doccia fredda #15 Elena (esordiente)

Nello studio notarile del dottor Carmine Epifani, avvocato trasferitosi dalla natia Palermo nel profondo nord, si stanno svolgendo i soliti rituali dell'ultimo giorno di lavoro prima del Natale. Panettone, pandoro, spumantino di seconda categoria, abbracci e baci finti ché tutti i colleghi si detestano cordialmente.
Sono accaldati, un po' per i ripetuti brindisi, un po’ perché il dottor Epifani non si è mai abituato al clima rigido degli inverni bellunesi e tiene il riscaldamento al massimo.
Elena conta i minuti che la separano dalla fine di quella giornata. Non ne può più.
È la praticante, l'ultima arrivata, nessuno la degna della minima considerazione.
E poi deve ancora fare il giro dei mercatini per comprare gli ultimi regali.
È sera quando l'allegra brigata si scioglie tra saluti e auguri. Elena esce dall'ufficio tutta imbacuccata, ché lo sbalzo di temperatura dall'interno all'esterno è notevole. Come al solito piove. Si avvia a piedi verso il centro.  A piazza dei Martiri, davanti e sotto i portici, ci sono tante bancarelle. Lei cerca un regalo speciale per una persona speciale. Il suo Ugo. Domani sera verrà a conoscere i suoi. Certo, proprio la vigilia di Natale, ma le è sembrata un'idea così romantica che ha convinto la madre a preparare una delle sue fantastiche cenette.
Ugo... solo a pensarci sente un brivido che le corre lungo la schiena.
“Eh no, questo è un brivido vero.
 Una goccia d'acqua gelata che scivola giù dalla tenda della bancarella, le  finisce sul collo e scorre fino alla vita. Si copre ancora di più, tira sulla testa il cappuccio del giaccone e seguita a cercare.
Finalmente trova la cosa adatta. Ugo ama il vintage e ama scrivere. Su una bancarella è esposta una REMINGTON bellissima e funzionante. La prende, è un po’ pesante, ma vale la pena fare un piccolo sforzo per il suo amore. Ha lauto parcheggiata nei pressi della stazione dei pulmann, un po’ lontano dalla piazza. Con il peso della macchina da scrivere deve fare un bel pezzo di strada a piedi. In genere non c'è molto traffico, Belluno non è una metropoli, ma è l'antivigilia di Natale, piove e tutti hanno preso l'auto per spostarsi comodamente.
Elena cammina veloce sul marciapiede, all'improvviso una macchina le passa accanto prendendo in pieno una pozzanghera. Uno spruzzo d'acqua sporca e gelata l'investe facendola rabbrividire. “Oggi non è proprio giornata!Il freddo e l'umidità si stanno impossessando del suo corpo.
Con il fiato grosso arriva alla sua auto. Sale e cerca di mettere in moto.... nulla di fatto.
Ha lasciato le luci accese e la batteria si è scaricata. Ora comincia davvero a stancarsi. Con la Remington sotto il braccio si avvia verso la fermata del pulmann che da Belluno la porterà a Longarone, dove vive, a una ventina di chilometri di distanza. Naturalmente il pulmann è già partito ci vorrà una buona mezz'ora per il prossimo. La stazione dei pulmann non ha una sala d'aspetto. Dovrà aspettare all'aperto e intanto si sta facendo notte, la temperatura è calata ancora, ormai sarà sotto zero. Elena si copre come può, ma il freddo le sta entrando nelle ossa. Sono le 19,30, sono più di due ore che sta per la strada. Il pulmann apre le porte. Finalmente un pò di caldo... macché, il riscaldamento è fuori uso. Si  stringe il giaccone addosso, siede al suo posto e aspetta che il pulmann parta. Sta sognando  calore, calore, calore, neanche il pensiero di stare stretta tra le braccia di Ugo riesce a riscaldarla.
Eccola arrivata a Longarone. Dovrà fare ancora un pò di strada a piedi per essere a casa, ma la consola il fatto che tra pochi minuti  potrà fare una bella, lunga, rilassante doccia calda. Sotto casa trova delle transenne intorno a una buca.  
Accidenti, neanche la vigilia di Natale si può stare in pace con questi lavori.
Entra velocemente in casa e va direttamente in bagno, senza salutare.
"Elena, tesoro, hai visto lo scavo davanti al portone?"
Scroscio d'acqua......

“Hanno tolto il gas".

giovedì 12 ottobre 2017

Doccia fredda #14 Giovedì (esordiente)

GIOVEDI’

“Scende l’acqua, fredda, calda, fredda, calda…. GIUSTA”. Le parole di questa vecchia canzone di Giorgio Gaber gli frullavano in testa, mentre era il fila, l’ennesima, al semaforo. Il tragitto casa-lavoro era ogni giorno più pesante, soprattutto ora, in questa città riarsa da un caldo asfissiante. 
L’esercito degli sconfitti, come lo chiamava lui, si schierava ogni mattina ed ogni sera, pronto a combattersi per un parcheggio, una precedenza o una doppia fila. Il tutto per raggiungere o battere in ritirata da un Posto Di Lavoro. 
Una volta scesi dai policromi carri aero-condizionati, i bravi soldatini penetravano efficienti nei Palazzi Del Lavoro. E qui si combattevano ben altre battaglie: quella per un cappuccino, un cornetto precotto, un caffè bollente. O, peggio ancora, per una mansione senza senso. Se un alieno fosse sceso sulla terra ed avesse assistito a questo triste teatrino, sarebbe emerso che l’uomo, per stupidità sociale, è secondo solo al SALMONE.
Già. Al semaforo, quando sei  in macchina da solo, hai tempo per tante, troppe riflessioni . E l’unico desiderio diventa quello di una doccia e mezz’ora di divano in ciabatte. Passaggio necessario per vanificare i lavacri e sudarsi altre due magliette.
Il sole continuava a picchiare sulle file di macchine e, al quarto verde e alla sesta sigaretta, riuscì a superare la fila e ad addentrarsi nell’inutile periferia dove abitava. Ancora poco e avrebbe potuto sentire il ticchettio della caldaia che gli avrebbe permesso quel quarto d’ora di meritato relax.
Appena entrato, fu accolto dai miagolii delle due gatte, Sissi e Sofia, che, come sempre, stavano ad aspettarlo dietro la porta, spinte più dal desiderio di coccole che da quello di cibo. Nonostante il caldo asfissiante che prorompeva dalla casa, era contento del contatto del loro pelo e di doverselo togliere di dosso, per quello che poteva. Sissi e Sofia lo accompagnarono in camera da letto, continuando a strusciarsi, in una mescolanza di odori felini e umani. Riempì loro una ciotola con sfilaccetti di nota marca e versò acqua fresca nell’altra.
In mutande si avviò verso il bagno, dopo aver combattuto per liberarsi dei vestiti, che il sudore aveva reso solidali con il corpo. Aprì l’acqua. “Fredda, calda, fredda, calda… GIUSTA”. Il soffione lanciava getti potenti dai 5 o 6 buchi non otturati dal calcare (“Ne devo comprare uno nuovo”). Chiuse la tenda e gli occhi e si pose sotto i laser tiepidi. Un paio di minuti per abituarsi a quella temperatura e poi avrebbe aumentato il calore, come faceva sempre, anche d’estate, anche con quel clima ormai maledettamente desertico.
Dopo un po’, però, capì che qualcosa non andava. Aveva un leggero giramento di testa e la temperatura esterna era in netta discesa. Aveva FREDDO!
“Sarà un calo di pressione”. Stando con gli occhi chiusi, non si accorse, però, che il suo fiato si faceva fumo e che dalla doccia, nonostante l’acqua “GIUSTA”, si alzava vapore. Quando se ne rese conto, un brivido sconfisse definitivamente il caldo esterno. Il bagno stava gelando. 
Aprì la tenda e lo vide lì, in piedi accanto al mobiletto degli asciugamani. Il guerriero che aveva davanti era alto, magro, con la pelle vagamente olivastra, comunque di un colore esotico. Il viso magro e gli occhi saettanti di saggezza, il mento vagamente appuntito e adornato di una sottile barba brizzolata. 
Per vincere la sua paura, l’uomo sorrise in modo inaspettatamente convincente e cordiale. Gli appoggiò il braccio sulle spalle. 
“Lascia che l’esercito degli sconfitti continui a combattere la sua guerra inutile” – gli disse – “Tu hai il sogno, vieni con me”.
Mentre il suo corpo si addormentava nel freddo, indossò l’armatura, prese lo scudo e la spada e si arruolò tra i combattenti del sogno. Sissi e Sofia gli trotterellavano accanto con le code alzate, in segno di sentito gradimento.





martedì 10 ottobre 2017

Doccia fredda #13 Luce (esordiente)

All’improvviso una gran luce.
Cominciava sempre così e si ritrovava a correre nel parco; una corsa lenta, appena accennata, per godersi il paesaggio.
La ghiaia crepitava a ogni passo e i primi colori di marzo si mettevano in mostra, fieri di aver vinto la lotta contro la terra scura dell’inverno: le primule riempivano i prati sotto l’ombra degli alberi che, guardandola inteneriti, la coprivano per darle sollievo. 
Anna amava il parco perché era sempre pieno di gente; bambini che giocavano, vecchietti che leggevano il giornale sulle panchine o che andavano al bar della bocciofila. Era pieno di amici, di amanti. Pieno di mamme con il passeggino e di papà con il cane al guinzaglio. Pieno di biciclette e di palloni. Sempre pieno di voci, di risate e di tante parole sussurrate. Che spettacolo!
Ma ciò che preferiva era la casetta in fondo al viale, tutta circondata da rose porpora che profumavano l’aria. Ancora pochi metri e sarebbe arrivata.
Quanta pace le dava inspirare profondamente la quiete di quel posto.
A quell’ora, una vecchietta, al di là della finestra, era sempre intenta a sferruzzare; lunghe ore di lavoro per perdersi nei ricordi, dimenticare i problemi e sorridere ancora. Proprio come la sua corsa.
Quel giorno, però non era la sola a osservare la nonnina; un ragazzo si era fermato davanti lo steccato a godersi il roseto.
Anna gli si avvicinò piano.
«Piace anche a te?»
Immerso nei pensieri, Stefano ebbe un sussulto; non l’aveva sentita arrivare.
«Sì, molto.» le rispose sorridendo.
Poche parole. Ma, come spesso capita, le parole perdono valore se gli sguardi hanno già scritto la storia.
Amore.

Di nuovo luce. Stavolta in uno scoppio e un altro ancora.
Tanta gente intorno. Sentiva i gridolini eccitati dei bambini – Mamma, guarda! Guarda che bello! – e gli applausi al meraviglioso gioco dei fuochi nel cielo.
Al suo fianco Stefano sembrava inquieto, per tutta la sera aveva dato l’impressione di dover dire qualcosa… ed era così.
Forse, proprio grazie al rumore che nascondeva il suo imbarazzo, trovò il coraggio, in un unico soffio «Anna, vuoi sposarmi?»
Lei sentì il cuore esplodere più forte di qualsiasi petardo «Sì, certo che sì!»  lo abbracciò come mai prima coprendo di baci ogni centimetro di pelle del suo viso. Poi, con le braccia al collo, lo guardò fisso stringendo le labbra «Anzi, mi chiedevo quanto mi avresti fatto aspettare ancora. Siamo insieme da quattro anni, stavo perdendo la pazienza, sai!» disse fingendosi arrabbiata.
Stefano la strinse di più e le sussurrò all’orecchio «Forse ho qualcosa per farmi perdonare. Un regalo.»  e sfilò una busta dalla tasca interna della giacca «Guarda.»
«Cos’è?»
«Un contratto.»
«Un contratto?» lo guardò incuriosita.
«È la nostra nuova casa. La casa delle rose.»
«Non ci posso credere… » l’emozione appannò così tanto i sensi di Anna che anche i fuochi d’artificio si ammutolirono. Non trovò le parole per spiegare quella felicità così perfettamente tonda, forse perché non esistevano.
Chiuse gli occhi ridendo e, prendendo un lungo respiro, si sciolse in un bacio umido di lacrime di gioia.

Ancora luce. Un sole caldo attraversava la finestra della stanza di Anna. Quanta confusione quel giorno, quante persone che la baciavano, accarezzavano, stringevano. Quanta ansia, quanta eccitazione vibrare sotto pelle e quel sorriso stampato sul viso da quando si era svegliata. Non riusciva a smettere, temeva che sarebbe rimasto lì per sempre.
Era tutto pronto tranne lei, ancora in vestaglia.
«Dai, su, è il momento.» disse sua madre con dieci anni di meno nel tailleur di seta rosa «Facciamo presto, prima che arrivi il fotografo. Non vorrai farti trovare così!»
«Perché no! Un book sexy per Stefano.»
«Non fare la stupida.» rispose la madre tra l’imbarazzo e il divertimento.
«Va bene.» Anna, ridacchiando, aprì la custodia del vestito, il più bello che avrebbe mai indossato. Si commosse.
«Chiama Daniela, è troppo complicato da mettere ed è così delicato.» disse sfiorandolo con le dita «Mi porti anche qualcosa per il mal di testa?»
«Certo, tesoro, ma cerca di stare tranquilla e vedrai che passerà.»

All’ultima luce era un angelo, un angelo bianco avvolto nel velo. I faretti dilatavano il candore dei suoi contorni e solo quell’unica rosa rossa tra i capelli la rendeva reale.
Anna cercava di capire se era tutto a posto, se mancava qualcosa ma con quel dolore alla testa non riusciva a concentrarsi e… non sorrideva più.
Era come un martello, un pistone che premeva forte, in un solo punto, sempre quello, sempre più forte e ancora di più.
Cosa le stava succedendo? Cos’era? Cosa….
Buio.

Un buio così fondo non si era mai visto, forse solo nello spazio siderale. Cosa ci faceva lì? Non ricordava, non aveva memoria del passato e in un battito di ciglia anche l’ultima immagine era scomparsa.
Anna galleggiava in un Nulla senza suoni, senza odori, senza tempo e dimenticò se stessa.

Stefano entrò nella grande sala.
Dopo tutti quei mesi si era abituato all’innaturale biancore delle luci artificiali. Entrò lentamente; sapeva che non aveva senso passare da lì tutti i giorni, alla stessa ora, parlare con i medici e sentirsi dire sempre le stesse cose, ma non riusciva a rinunciarci.
Si avvicinò al letto. Era così pallida e magra, sembrava una bambina, tranquilla in quel sonno infinito. Come sempre si chinò su di lei, le strinse la mano e sussurrò «Amore».


Anna, persa nel profondo Nulla, all’improvviso vide una gran luce e si ritrovò a correre nel parco.