giovedì 28 marzo 2013

Pesi e misure...

Le vite umane dovrebbero avere tutte lo stesso valore. Quelle salve e quelle ormai perdute. Ma constatiamo giorno per giorno che il valore di una vita umana non è assoluto. È soggetto a variabili. Abbiamo seguito, pur da posizioni differenti, l'ormai annosa vicenda dei due marò italiani, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. In due parole, i nostri soldati hanno sparato e hanno ucciso, per errore, due pescatori indiani. Due vite sono andate perdute e gli errori si pagano. Si chiamavano Ajesh Pinky e Selestian Valentine. Incertezza sull'esatta grafia dei nomi e sulle effettive età, ma poco cambia. Un ragazzo Ajesh e un uomo Selestian. Avevano famiglie, figli. E sono morti per niente, per un errore di Massimiliano e Salvatore. È morto per un errore, per lo stesso tipo di errore, un altro giovanissimo pescatore indiano Thiru A.Sekhar. Anche lui si trovava a bordo di un peschereccio, in acque internazionali e qualcuno, senza volto e senza nome, gli ha sparato dalla nave da guerra americana Rappahannock. Incidenti uguali, ma la vita di Thiru valeva 9000 dollari, contro i 145mila euro ciascuno versati dall'Italia alle famiglie di Ajesh e Selestian. Valeva una telefonata di condoglianze tra ministri degli esteri, contro una gogna mediatica senza precedenti. Valeva un "son cose che succedono" contro la velata minaccia di un possibile ricorso alla pena di morte per i nostri marò. Differenze. Le abbiamo potute vedere anche su orizzonti più ristretti. I nostri. Era il 2007, a Roma. Un banale diverbio. Un ombrello impugnato. La romena Doina Matei aveva 21 anni, la romana Vanessa Russo ne aveva 23. Morì per la lesione riportata dal puntale dell'ombrello nell'orbita oculare. Sognava di fare l'infermiera mentre Doina, già madre di due figli lasciati in patria, si prostituiva qui da noi per mantenerli. Una vita perduta, Vanessa, una vita rovinata, Doina. Una sentenza della Cassazione le ha confermato i sedici anni di carcere che sta scontando già da sei. Gli errori si pagano. Le vite valgono. Ma non tutte allo stesso modo. Perché Doina non voleva colpire in quel modo, esattamente come Alessio. Era il 2010, a Roma. Un banale diverbio. Un pugno dato per reazione. Ma il romano Alessio Burtone è un ragazzo di 20 anni, forte e palestrato mentre la romena Maricica Hahaianu ne ha 32, è mamma di un bimbo di tre anni, di mestiere fa l'infermiera e quel pugno lo prende in piena faccia. Cade, batte la testa. Muore sei giorni dopo, senza mai essere uscita dal coma. Alessio, proprio come Doina tre anni prima, si allontana dalla propria vittima, fugge. Ma le telecamere di sorveglianza lo inchiodano, proprio come inchiodarono Doina. E gli errori si pagano. Perché le vite valgono. Solo che, a conti fatti, la vita della romana Veronica vale il doppio di quella della romena Maricica. Perché Alessio è stato condannato a nove anni, pena ridotta in appello a otto e con la concessione, il mese scorso, degli arresti domiciliari. Il marito di Maricica non ha avuto la forza di protestare. Lui lo sa come vanno le cose. E adesso lo sappiamo anche noi. 

Laura Costantini

martedì 26 marzo 2013

NESSUNA PIU'

Volevo ricordarvi che domani esce "NESSUNA PIù".

Un progetto che Marilù Oliva ha curato per Elliot Edizioni, coinvolgendo 40 autori contro il femminicidio.
(E che autori: Vittoria A., Alessandro Berselli, Francesca Bertuzzi, Sara Bilotti, Mariangela Camocardi, Stefano Caso, Gaja Cenciarelli, Milvia Comastri, Laura Costantini, Andrea Cotti, Maurizio de Giovanni, Romano De Marco, Loredana Falcone, Caterina Falconi, Ida Ferrari, Alessia Gazzola, Francesca Genti, Lorenza Ghinelli, Laura Liberale, Elisabetta Liguori, Fabrizio Lorusso, Loriano Macchiavelli, Lara Manni, Marco Marsullo, Marina Marazza, Massimo Maugeri, Raul Montanari, Gianluca Morozzi, Andrea Novelli, Marilù Oliva, Cristina Orlandi, Flavia Piccinni, Marco Proietti Mancini, Piergiorgio Pulixi, Paola Rambaldi, Susanna Raule, Matteo Strukul, Marco Vichi, Cristina Zagaria, Giampaolo Zarini.)

Compratelo il libro.
Primo perché scuote e brucia.
Secondo perché i proventi andranno a Telefono Rosa, che da 25 anni fa del bene per le donne.
Terzo perché certe cose vanno ricordate.




lunedì 25 marzo 2013

Un tranquillissimo weekend da paura

Finalmente l'abbiamo fatto. Le tre sorelle Falcone ( che qualcuno ha definito le sorelle cacacazzi) si sono concesse un... tranquillo week end di paura. L'incubo è cominciato da subito. Il GRA intasato dal traffico di un venerdì  di sciopero dei mezzi pubblici. La tranquilla "oretta" di viaggio è diventata una specie di Odissea alla ricerca dell'uscita 7 che, nonostante gli spergiuri di mia sorella Tiziana, non è mai esistita. Dopo essere uscite e rientrate attraversando i due flussi di traffico ci immettiamo sulla Cassia (dico io), sulla Ternana (dice Tiziana). Quello che ha detto il tom tom di Michaela non siamo riuscite a capirlo perchè doveva trattarsi di una rumena etilista. Direzione: Torrita Tiberina, nella ridente valle del Tevere.... già! Sorvolando sui  10 metri di autostrada  costati quasi due bleuri,  voglio indulgere sul fatto che le vie di comunicazione con la Sabina sono ancora quelle tracciate dagli antichi romani all'epoca del il famoso "ratto". Carrareccie e telefonate del  consorte (che ci dava arrivate da ore) a parte, siamo giunte nella piazza del paese. Due bar, il classico munumento ai caduti, un ufficio turistico pieno di cacche di mosche e ragnatele, un alimentari , una fermata del cotral e un panorama mozzafiato. Lo dico a ragion veduta perchè, grazie alle indicazioni del barista, per raggiungere l'agriturismo abbiamo fatto il giro almeno quattro volte disturbando il sonno eterno degli ospiti di un altro agriturismo, il più affollato della zona in verità, il cimitero. E' stato costeggiandolo che siamo arrivate a destinazione. La scena è più o meno questa: scendiamo, ci riempiamo i polmoni di aria pulita e, non abbiamo ancora espirato che rischiamo di "spirare" trovandoci attorniate da una muta di cani. Barboncini? No. Pastori maremmani grossi come bisonti. Michaela cerca di darsi un tono: “Tranquille, vogliono solo annusarci", dice facendo la vaga. Ma io non sono tranquilla per niente e quando mi giro per dire a Tiziana di stare attenta, scopro con terrore che è sparita dalla mia vista.  Non posso credere che quei simpatici bestioni ne abbiano fatto un sol boccone e infatti la vedo che mi fa cenni dal sedile posteriore dove si è rifugiata prima ancora di sentire il nostro "Attenta ai cani!". Neanche a dirlo, intorno a noi non c'è anima viva. Mentre me ne resto immobile in mezzo ai cani, temendo che mia sorella (che ha letto Cujo e ancora lo sogna la notte) scavalchi il sedile e ci lasci in quella situazione di merda, cacchio cacchio, tomo tomo, arriva il gestore dell'agriturismo a richiamarli. Il tempo di lasciare i bagagli in casa e usciamo alla ricerca di un posto per cenare, ognuna di noi rimuginando sul fatto che, al rientro, avremmo ritrovato i cani a rinnovarci il benvenuto. E' sera, e il paese è praticamente deserto. Seguiamo l'insegna di un ristorante solo per scoprire che è ancora chiuso. "Avete prenotato?", chiede una voce alle nostre spalle facendoci sussultare. Ci voltiamo in faccia a una signora in tuta da ginnastica che si offre di accompagnarci all'entrata secondaria. Un portone di legno massiccio che comincia a colpire con le nocche per poi lamentarsi del dolore. Indecise tra lo stupore e l'ilarità, ci allontaniamo seguendo il suo consiglio di ripresentarci alle otto. Temendo di restare senza cena entriamo nell'alimentari in fase di chiusura per acquistare viveri di conforto e per subire l'ironico commento del negoziante che, saputo dove alloggiavamo, se ne esce con un "un posto tranquillo..." alludendo alla vicinanza col cimitero. Intanto le luci del ristorante ci sono accese  e ci precipitiamo, non sia mai con tutti quegli avventori, restassimo senza tavolo! Il sorriso del proprietario quando ci fa accomodare ci fa dimenticare il salto che abbiamo fatto quando la porta si è richiusa dietro di noi con uno stridio da film horror. La cena è un simposio tra amici, ci siamo solo noi tre, e Marco ci manca poco che prenda una sedia e si sieda al nostro tavolo. Non è del posto e ancora si sta chiedendo come cazzo gli sia venuto in mente di aprire un'attività in un paese in cui i pochi giovani o stanno in piazza o se ne vanno nella capitale. Il cibo è accettabile e il prezzo pure. Lo salutiamo con la mendace promessa di tornare il sabato a pranzo e ci prepariamo a riaffrontare i cani. Ripassiamo dal cimitero, riprendiamo il sentiero romanticamente illuminato dalle luci perpetue e ci fermiamo nel parcheggio. Scendiamo circospette e, come da copione, si materializzano i tre bestioni. Michaela ci risparmia il suo "Tranquille", ed è meglio per lei. Ci muoviamo al rallenty con i cani attaccati alle terga sperando di seminarli prima del cancello della nostra casetta. Ma non abbiamo fatto i conti con la preparazione atletica dei quadrupedi che, neanche fossimo da Moira Orfei, si esibiscono i un triplo carpiato, saltano il cancello e ci precedono alla porta. La nostra fortuna è che dopo il carpiato i maremmani si lanciano in un match di wrestling canino su prato del quale approfittiamo per barricarci in casa. E addio viveri di conforto chiusi nel portabagagli, ché nessuna delle tre è disposta a sfidare di nuovo la sorte per un dolce dopocena. Ci penserà il camino a riconciliarci con la serata e a farci passare, momentanamente, la paura per i cani perchè la legna da ardere è fradicia, il camino tira poco e in cinque minuti la stanza si riempie di fumo costringendoci a trovare scampo all'aperto. Addio calore e atmosfera. Meglio fare una doccia (per toglierci di dosso l'afrore da spazzacamini) e una corroborante dormita. Peccato che l'acqua calda non sia ancora stata scoperta da queste parti e i piumoni neanche. Ci rifugiamo sotto una tonnellata di coperte che soltanto le nostre pazze risate riescono a smuovere e pazienza se domani ci toccherà comprare un vagone di Fastum gel per lenire l'indolenzimento da sollevamento coltri!

venerdì 22 marzo 2013

Hanno tentato di farci lo scalpo...

Il perfido Iannozzi ci ha intervistate sul nostro romanzo western. Ha scientificamente tentato di portare a casa i nostri scalpi, anche perché lui è piuttosto glabro, ma a voi decidere se ci sia riuscito.
Questo è un piccolo stralcio, il resto dell'intervista sul suo blog (link qui sopra)



Iannozzi: E’ fuor di dubbio, almeno per me, che “Il destino attende a Canyon Apache” è soprattutto un romanzo d’avventura, alla vecchia maniera: temi salgariani, ma anche un esasperato romanticismo à la Michael Blake (autore di Balla coi lupi), con in più giusto un pizzico della meticolosità descrittiva di Leonard Elmore. Le descrizioni degli ambienti sono piuttosto meticolose, ma il romanzo trova il suo punto di forza nei dialoghi, talvolta serrati. Si ha quasi l’impressione che il selvaggio West sia più che altro cornice per dar vita a una storia d’amore. Ma, in primo piano, c’è anche il coraggio di due donne, quello della giovane Kerry e della mezzosangue (o “due pelli”) Shenandoah, che, loro malgrado, in un mondo di duri, dovranno riuscire a piegare ai loro piedi il maschilismo dilagante.

Lauraetlory: Impressione sbagliatissima, quella della cornice per la storia d’amore. Sbagliata e figlia di un pregiudizio, diremmo. Perché se ci chiamassimo Fabio e Giuseppe invece di Laura e Lory, questa osservazione non sarebbe neanche affiorata. Ma è il destino della scrittura delle donne. Omero mise una storia di amore fatale alla base dell’Iliade, ma nessuno si sognerebbe di pensare che la guerra più famosa del mondo sia solo una cornice per la passione di Paride ed Elena. Così come nessuno mai si sognerebbe di dire che Canale Mussolini è una bella cornice storica per le reiterate scopate dei maschioni della famiglia Pennacchi. Il nostro è un romanzo storico che coglie lo spunto avventuroso e, anche, romantico per raccontare uno scontro tra civiltà inconciliabili.

martedì 19 marzo 2013

Laura, Pietro e Francesco

I giornalisti dovrebbero essere cinici e disinticantati. E i lettori dei giornali, categoria poco rappresentata in Italia, sono persone che esercitano senso critico e una prudente diffidenza nei confronti di quanto vedono accadere e raccontare. Eppure, ammettiamolo, eccoci qui. Con un sorriso ebete sulla faccia e la sensazione che, come scandiva il Frankenstein di Mel Brooks, si possa fare. Si possa coltivare un tenero germoglio di fiducia. La settimana scorsa è stata, a suo modo, epocale. Si è cominciato con l'evidente sbigottimento della piazza più bella del mondo quando all'habemus Papam è seguito quel nome: Jorge Mario Bergoglio. Per i fedeli Francesco. È parso di sentire un pensiero levarsi dal colonnato del Bernini: Bergoglio chi?
Poi papa Francesco è apparso al balcone, ha detto buonasera ed è scoccato un colpo di fulmine che non sembra destinato a esaurirsi. La croce di ferro invece che d'oro, il rifiuto dell'ermellino, le passeggiate tra i fedeli, l'incontro informale con la famiglia di Emanuela Orlandi fuori da Santa Marta domenica scorsa. E non importa che sia un gesuita, il braccio "armato" della Chiesa. E non importano le ombre sul suo rapporto con la dittatura argentina e la deportazione di due suoi confratelli. Parla di povertà, parla di una Chiesa umile che si rivolge agli umili. Dice le cose che la gente vuole sentire. Neanche tre giorni dopo, sabato scorso, nuovo miracolo. Una donna sullo scranno di Montecitorio. Non è la prima, Laura Boldrini. Ci sono già state la grande Nilde Iotti e la controversa e giovanissima Irene Pivetti. Laura ha 52 anni, è una madre che ha visto la figlia andarsene dall'Italia per cercare una prospettiva migliore. È una donna che ha cercato di combattere le brutture del mondo occupandosi di rifugiati per le Nazioni Unite. Ha parlato dei diritti dei migranti, dei diritti dei giovani, dei diritti delle donne. Ha parlato di un impegno verso coloro che sono in difficoltà. Non diversamente da papa Francesco ha parlato di ultimi. Gli applausi sono stati scroscianti, il plauso pressoché unanime. Ma non era finita. Quasi questo disastrato paese si meritasse un triplo regalo per i suoi 152 anni di esistenza, nel pomeriggio di sabato è salito a presiedere il Senato l'ex procuratore antimafia Pietro Grasso.
Un miracolo. Considerato che la sua elezione è stata resa possibile dalla ribellione di alcuni senatori del M5S al diktat della scheda bianca. Perché Grasso non è Schifani e il buon senso ha prevalso sulle logiche di partito. E anche lui, insediandosi, ha parlato di giustizia, di lotta alla corruzione, di portare luce là dove le mafie, di qualsiasi genere siano, vogliono il buio. Laura, Pietro e Francesco. Tre persone con lo sguardo rivolto a chi ha perso la fiducia nelle istituzioni, laiche e religiose. Uno sceneggiatore non avrebbe saputo fare di meglio per ribaltare il copione di questo paese. Domani, forse, torneremo a diffidare e a distinguere. Ma oggi no. Oggi si sorride.
Laura Costantini

martedì 12 marzo 2013

Ma il femminismo si porta ancora?

L'otto marzo è trascorso. Con tutto il corollario di banalità e opposte tifoserie: mimose sì, mimose no, spogliarello maschile sì, spogliarello maschile assolutamente no, festeggiare, rimpiangere, lottare, desistere. È trascorso mentre si filosofeggia se sia giusto parlare di femminicidio ed esistono voci per le quali alle donne delegare il potere all'uomo fa comodo. È trascorso e nessuno, in Italia, è insorto contro la convinzione che definirsi femministe sia oggi velleitario, fuori moda, anche ridicolo. Eppure. Ieri la regina Elisabetta II d'Inghilterra ha firmato un documento che abolisce la discriminazione di genere in tutti i paesi del Commonwealth. Un atto importante, affidato a un'ultraottantenne che, da cinquant'anni, dimostra al mondo che donna di potere si può. Regina per mancanza di eredi maschi Elisabetta, decisa a non lasciare lo scettro in mano a un primogenito inadeguato e a spianare la strada alla successione automatica per una primogenita, pur circondata da fratelli. E la notizia è che si debba, ancora, firmare una carta di parità e una legge per sancire che sul trono può salirci una femmina. Ma dirci femministe è fuori moda, sia chiaro. Perché le donne hanno conquistato tanto. Ci viene ricordato ogni santo giorno che possiamo, ormai, essere medici, soldati, manager. Lo recepiscono anche gli sceneggiatori. E allora capita di vedere un film come "New in town". Renee Zellwegger è una manager elegante, single, ambiziosa (e non è un complimento) e aggressiva (idem). Le affidano uno stabilimento in perdita nel Minnesota e lei inanella una sequela di figuracce e gaffes che, comunque, le garantiscono l'attenzione di Ted. Sindacalista, pompiere, volontario, figaccione. Renee risolleva le sorti dello stabilimento, si innamora del figaccione, le viene proposta la poltrona di vicepresidente della società e, indovinate? rinuncia per vivere, due cuori e un pick-up in quel del Minnesota. Non è evidente che dirci femministe è obsoleto? Eppure. Mai sentito parlare di Sheryl Sandberg? Ha 44 anni, è bella, è ai vertici di Facebook dopo una carriera da spaventare tra laurea prestigiosa e collaborazioni con la Casa bianca ai tempi di Clinton, ha due figli piccoli. Ed è proprio lei, con un reddito da venti milioni di dollari l'anno, a rilanciare il femminismo come necessario. Promotrice del movimento internazionale Lean In (facciamoci avanti), ha raccontato, in occasione della presentazione del suo saggio sulla condizione femminile nel mondo, un aneddoto illuminante. Sua figlia è alle elementari e si è "fidanzata" con un coetaneo. Tutti e due da grandi vogliono fare gli astronauti. Ma la bimba ha confidato a Sheryl che vorrebbero anche dei bambini e se uno dei due deve restare a casa a badarci, quella per forza di cose è lei. E piangeva dicendolo. Questo ha raccontato Sheryl Sandberg. Perfino la figlia di una delle manager più importanti del mondo, perfino così piccola, ha già metabolizzato che nascere femmina è un handicap e che, a parità di aspirazioni e di capacità, costringe a fare un passo indietro. Per questo Sheryl ha deciso che il femminismo non è passato di moda. Anzi. Laura Costantini

venerdì 8 marzo 2013

Non fiori, ma fatti

Ci siamo, di nuovo. Oggi è l'Otto marzo e tutti saran lì a caccia di mimose e a raccontarsi, ancora, delle operaie morte nell'incendio della fabbrica e a stigmatizzare le donne che stasera usciranno in comitiva per illudersi di essere libere e a prendere per il culo quelle che per sentirsi libere andranno a vedere uno spogliarello di maschi viscidi di unto e gonfi di anabolizzanti. Ci siamo. Di nuovo. Eppure io vorrei che qualcosa di nuovo ci fosse veramente. Non oggi, ma oggi, domani, tra un mese e negli anni a venire. Sì, come ogni femminuccia che si rispetti vorrei dei regali. E li vorrei dagli uomini che son tutti già lì pronti a sogghignare e a commentare: tiè, eccotela la parità, poi quando si arriva ai fatti se non ti presenti con i fiori, col gioiello, col pensierino sei un bastardo che non le capisce. No, non negate, vi sento dirlo tutti i giorni. Sento queste parole (o parole peggiori di queste) in bocca a tanti di voi. Non ho detto tutti. Ho detto tanti. Ho detto ancora troppi. ma si parlava di regali e io adesso voglio fare un elenco di quelli che mi piacerebbe ricevere e veder ricevere da tutte le donne.
- Vorrei vedervi e sentirvi indignati, ogni volta che una donna viene picchiata, stuprata, uccisa, vorrei sentire la forza della vostra voce superare quella delle donne che indignate lo sono da tanto, da troppo.
- Vorrei vedere uno sguardo di compatimento e nessun sorriso sulle vostre labbra ogni volta che un maschio racconta la barzelletta cretina che perpetua l'eterno luogo comune della femmina che lo vuole lungo, lo vuole tanto e lo vuole violento. Perché non è vero e non lo ripeteremo mai abbastanza.
- Vorrei che, se vivete con una donna che lavora, proprio come voi, non deste mai per scontato che sia più brava di voi a cucinare, a mettere la lavatrice, a mettere in ordine, a stendere i panni. Perché non è vero e a voi fa solo comodo pensarlo.
- Vorrei che ci guardaste, sì, ci guardaste. Non come prede, non come sante, non come puttane, non come avversarie, non come nemiche. Vorrei che ci guardaste come persone, belle o brutte, buone o cattive, e che concedeste a noi lo stesso rispetto che concedete a voi stessi.
- Vorrei che la consapevolezza di essere fisicamente più forti facesse il paio con la consapevolezza che la forza fisica non è un valore che vi rende migliori o peggiori, solo diversi.
- Vorrei non sentire mai più queste parole: "fossi nato femmina, sarei una grandissima mignotta". Perché sono la prova matematica che voi non avete la più pallida idea di cosa significhi, nel bene e nel male, essere donna.

E' tanto, lo so. Forse è chiedere più di quanto siate disposti (o capaci?) di dare. Ma io questi regali ve li chiedo lo stesso. Li chiedo a tutti coloro che sono disposti ad ascoltare e a riflettere. E non li chiedo per me, perché un Uomo così io ce l'ho accanto, li chiedo per tutte noi. Perché di solito le cose ce le mettiamo a posto da sole, e voi lo sapete bene. Ma l'unico luogo dove non potremo mai arrivare a mettere ordine è dentro di voi. E' lì dove hanno attecchito millenni di cultura maschilista, millenni di convinzioni propalate anche dalle madri, dalle nonne e da tutte coloro che hanno cresciuto un figlio maschio nella certezza di essere superiore per il semplice fatto di avere un corpo diverso.

Grazie.

giovedì 7 marzo 2013

Lincoln e il prezzo della politica

La politica è sempre stata cosa complessa e poco lineare. È questo l'insegnamento che si ricava dalla visione di un grande film, non abbastanza premiato dall'accademia degli Oscar. Il "Lincoln" di Steven Spielberg, con la maestosa interpretazione di Daniel Day Lewis, è una lezione di storia, di gestione politica, di attualità. Com'è noto, il presidente Abraham Lincoln si trovò a gestire uno dei momenti più difficili nella storia dell'allora giovanissima democrazia statunitense. Una guerra fratricida, protratta per quattro anni. Le scene di battaglia, poche, sono estremamente efficaci nel rendere l'orrore e l'inutilità di una strage tutta giocata su opposte esigenze economiche. Al centro l'istituzione della schiavitù che, su basi ideologiche e religiose irrazionali e pretestuose, difendeva la possibilità, per il sud degli Stati Uniti, di avere infinita manodopera a costo zero per la produzione di cotone. Perdere gli schiavi avrebbe significato, e significò, la fine di un intero sistema economico basato sullo sfruttamento, sulla miseria di tanti per la ricchezza di pochi. Per questo si combatté. E a questa logica non si piegò il presidente Lincoln, a costo di venire a patti con se stesso, di scendere a compromessi pesanti, di ricorrere alla corruzione. Sì, la stessa che oggi, e da troppo tempo, noi tocchiamo con mano assistendo impotenti a confessioni e volta faccia che altrove avrebbero determinato l'immediata scomparsa degli attori dalla scena politica. Come sappiamo, Lincoln vinse la sua battaglia. La pagò con la vita, ma all'esordio del suo secondo mandato riuscì a far approvare dalla recalcitrante Camera dei rappresentati il tredicesimo emendamento alla Costituzione. Quello che metteva fuori legge la schiavitù, liberando quattro milioni di individui, fino a quel momento trattati come bestie. Ciò che il film di Spielberg spiega è come, partendo da una risicatissima maggioranza repubblicana, Lincoln riuscì a procacciarsi il margine di voti favorevoli che gli serviva. Voti di scambio, promesse di uffici pubblici e una battuta, affidata a Tommy Lee Jones nei panni di un deputato repubblicano convinto abolizionista, che riassume il ruolo storico coscientemente svolto dal presidente Lincoln. A poche ore dall'approvazione del tredicesimo emendamento, passato con una manciata di voti e di astensioni strategiche da parte dei democratici venduti alla causa repubblicana, il vecchio deputato torna a casa, dalla donna che ama. Una donna nera che, ufficialmente, è solo la sua governante. E nell'intimità domestica le porge il documento ufficiale della votazione e le confessa che quell'enorme e storica vittoria, è frutto "della corruzione e della volontà del più puro degli uomini". Non fu un santo, Lincoln. La ricostruzione storica rende chiaro che accettò che la strage fratricida si protraesse per altri tre mesi pur di rendere possibile la votazione del tredicesimo emendamento. La messa al bando della schiavitù gronda sangue e infedeltà politica. Eppure lo scopo era tale e tanto da rendere accettabile il metodo. I corruttori e corrotti di oggi non potrebbero mai dire altrettanto.

 Laura Costantini

lunedì 4 marzo 2013

Erase e rewind

Cancella e riavvolgi. E' anche il titolo di una bella canzone, ma in questo caso è una sorta di viatico che intendo dare a me stessa e a questo spazio. Ho il brutto difetto di crederci, nelle cose e nelle persone. E ogni tanto credo nella cosa o nella persona sbagliata. Così succede che uno pensa di essere a buon punto su una certa strada e invece scopre di essere a un pessimo punto su un sentieruncolo sconnesso. Poco male, se riesci a capirlo e se hai la forza necessaria a cancellare e riavvolgere. Ancora una volta.
In soldoni:

- pensavo che questo blog potesse entrare a far parte di un progetto innovativo, che innovativo non è per niente e ripropone sempre le solite solfe su chi deve decidere cosa, ergo questo blog rimane esattamente quel che è: un luogo dove io (spesso) e Loredana (raramente) mettiamo su carta virtuale stati d'animo, riflessioni e quello che ci passa in quel momento per la mente e sotto gli occhi, libri compresi;

- pensavo di avere un rapporto di fiducia con una persona che credeva nel nostro lavoro, mi sbagliavo e da questo deriveranno dei cambiamenti;

- pensavo che il mio entusiasmo nel dare spazio a tutto ciò che di bello incontro sulla mia strada, anche e soprattutto libri di autori che hanno bisogno di visibilità, dovesse per forza di cose creare una sinergia;

- pensavo che chi diceva di credere nel nostro lavoro, volesse anche impegnarsi per quel lavoro;

- pensavo, e questa è la cosa più grave di tutte, l'errore peggiore, che ci fossero molte più persone come me e non ce ne sono.

Detto questo, e senza annoiarvi ulteriormente, erase e rewind. Al netto delle delusioni restano alcuni punti fermi: Loredana Falcone e il valore della nostra scrittura. Tutto il resto è fuffa.