domenica 27 febbraio 2011

Figli della Bibbia o figli di Omero?

Una riflessione questa che mi sembrava meritevole di essere riproposta:

Niente paura, stavolta non si parla di religione, ma di influenze artistico-letterarie. Ho ritrovato un saggio che avevo letto quando mi dilettavo di Storia delle Religioni. Il saggio è di Fortunato Pasqualino, i riferimenti sono a Mimesis di Erich Auerbach, ma il succo del discorso è: perché la letteratura nord europea (e americana a seguire) ha dato il meglio di se stessa nello scavo psicologico del personaggio (horror, thriller, gialli) mentre quella italiana (parliamo di classici) sembra totalmente priva di mistero?
Le colpe vanno equamente ripartite tra Omero, la Controriforma, la mentalità epicurea del Rinascimento e una certa incuria, tutta italiana, per le cose divine. Sarà per questo che tra alcuni di noi e papa Joseph Ratzinger non corre buon sangue? Bah. Ma andiamo per ordine.
Cito Eugenio Scalfari di qualche settimana fa: I poemi omerici rappresentano il punto di partenza della letteratura occidentale…Gli eroi dell’età del Bronzo raffigurati nell’Iliade, e gli dei che ne guidano le azioni, materializzano almeno quattro diversi destini: Achille, la bellezza della forza e della guerra; Ettore, la difesa della città e la ‘pietas’ che sarà poi ripresa da Virgilio e fatta rivivere nel personaggio di Enea; Agamennone, il potere tronfio e capriccioso; Odisseo, la superiorità dell’intelligenza.
Ritroviamo in questi quattro personaggi i clichè di tutta la letteratura a venire. Questo è vero. Però c’è un bivio netto e preciso tra il modo di scrivere, e di trattare i personaggi, degli autori nord-europei e quello degli autori italiani. E la biforcazione, secondo Pasqualino, si sarebbe creata al momento della Controriforma. Dopo il colpo quasi mortale ricevuto dalla Riforma di Martin Lutero, la Chiesa di Roma decise di mettere al bando la lettura della Bibbia (asso nella manica del Protestantesimo), soprattutto per evitare che la frequentazione di quelle pagine generasse nel fedele la tentazione di un’interpretazione libera e, quindi, eretica. Una decisione che si innestò agevolmente sulla tendenza tutta rinascimentale (e italiana in particolar modo) di poco curarsi delle cose divine a favore di quelle terrene. Più vicine, utili e, perché no, anche più divertenti. A rigor di termini l’ultimo biblico italiano fu il castigatore Savonarola e, in qualche modo, il suo rogo segnò la fine di ogni senso del mistero nello stile letterario italiano. Privarci della frequentazione della Bibbia significò tagliare via la concezione dell’uomo come essere inquieto e drammatico, combattuto, a tutto favore dei rapporti sereni, ottimistici e semplici che erano propri dello stile omerico. E’ quanto afferma Auerbach nella sua Mimemis: lo stile omerico non vuole trattenere il fiato, non ama la tensione, la sorpresa. Omero ci presenta le cose per come sono, finite ed esatte. Niente viene lasciato senza spiegazione. Tutto deve essere chiaro e distinto, posto in primissimo piano, senza alcuna attenzione per lo sfondo e per la prospettiva umana.
Cito dalla Bibbia:
Dopo questi fatti Dio tentò Abramo, e gli disse: Abramo! Ed egli rispose: Sono qui!

Qui dove? Nulla è spiegato. Dove si svolge il colloquio, da dove arriva Dio, perché decide di tentare Abramo. Cosa che invece uno Zeus omerico avrebbe spiegato, parlandone amabilmente con Era o con Apollo o con la sua prediletta Atena. Secondo Auerbach gli scrittori della Bibbia hanno precorso addirittura Einstein nei concetti di spazio e di tempo mentre Omero rimane ancorato alle poche dimensioni della geometria euclidea. I suoi personaggi sono standardizzati, rimangono uguali a se stessi anche a distanza di decenni, come succede a Ulisse e alla sua sposa Penelope. I personaggi biblici, invece, non sono descritti, ma per questo sono più concreti, perché hanno infinite sfaccettature implicite.
Un’altra differenziazione viene effettuata sulla base del censo. Gli scrittori pagani (da cui deriviamo le influenze più dirette) operavano una discriminazione sulla base dell’importanza sociale del personaggio. Il loro realismo nel narrare solo di quelli che contano è condizionato dalla concezione della società. La Bibbia, invece, dà spazio ai re così come ai servi e di ognuno rivela eroismi e ignominie, esponendo il conflitto spirituale che è proprio di ogni essere umano.
Gli scrittori pagani (parliamo soprattutto di quelli latini) da Petronio in poi aggiungono al loro realismo una forma di distacco dalle cose narrate che si esplica nell’ironia. Ironia che poi non è che un modo di giudicare e di essere moralisti. Una polemica mascherata da olimpico distacco.
Gli scrittori biblici, invece, sono scrittori della realtà e della verità (naturalmente le loro realtà e verità, non parliamo di concetti assoluti), quindi non pongono schermi tra sé e la materia di cui scrivono. Accolgono con rispetto anche la parte più abbietta degli esseri umani. Non condannano, lasciano al limite che sia il lettore a farlo. Mentre gli scrittori omerici (tra cui i latini) condannano nel momento stesso in cui scrivono, quindi deformano e squalificano. Non portano una testimonianza, portano un’opinione.
Ecco quindi il bivio tra letteratura italiana e letteratura nord-europea. Lo stile più propriamente biblico comporta la scoperta dell’intimità spirituale, della centralità dell’uomo, comporta anche l’avvento della prima persona singolare nella letteratura europea. Quella che nel cinema si chiama soggettiva.
Gli eroi omerici, invece, non godono del dono dell’intimità. Sono osservati, non osservatori.
Secondo il saggio di Pasqualino, la stessa psicanalisi trova una base nella Bibbia, come dimostrano gli episodi dell’interpretazione dei sogni del faraone (le sette vacche magre e quelle grasse) e di Nabucodonosor (il sogno della statua enorme dai piedi di argilla). L’atteggiamento biblico penetra il senso della realtà e dell’esperienza umana.
L’atteggiamento omerico descrive ciò che vede, senza reale partecipazione.
Da tutto questo si ricava che dobbiamo i capolavori dell’introspezione, siano essi letterari o cinematografici (vedi Ingmar Bergman) alla libertà di leggere, frequentare e interpretare la Bibbia garantita dalla Riforma protestante. Oggi, è notizia di pochi giorni fa, anche la Chiesa di Roma è giunta alla conclusione che si deve incentivare lo studio della Bibbia da parte dei giovani. Uno studio che deve prescindere dal contesto religioso. Il libro per eccellenza dovrebbe essere sottoposto all’attenzione degli studenti non in quanto fondamento del Credo cristiano (ed ebraico) ma in quanto testimonianza letteraria di altissimo valore.
Iniziativa lodevole, ma non ho molte speranze. Da quanto mi risulta nelle scuole italiane è già tanto se agli studenti viene concesso di sapere che un tizio cieco di nome Omero ha scritto due cosucce intitolate Iliade e Odissea.

giovedì 24 febbraio 2011

I miei articoli per "La Sesia": Non donne, ma donne di.

Intervistate su un milione di donne in piazza hanno dichiarato: di non aver letto nulla in proposito, una, e di non essere d’accordo con la manifestazione, l’altra. Stiamo parlando, ovviamente, di Belen Rodriguez ed Elisabella Canalis, gli “ultracorpi” del 61° festival di Sanremo. Gianni Morandi ha ricordato, con evidente orgoglio, che dal giorno in cui si seppe che le due avrebbero calcato il palco dell’Ariston, le copertine loro dedicate sono state più di 1200 in sei mesi. Una media di duecento al mese, con tirature da capogiro soprattutto quando il quesito angoscioso era: verranno insieme ai fidanzati? Per quei pochi che non lo sapessero, i fidanzati delle nostre sono, ciascuno a suo modo, pezzi da novanta. Belen si è lasciata affascinare da Fabrizio Corona, il paparazzo che mai ha scattato una foto ma ne ha vendute di compromettenti un po’ a tutti. Il bello e maledetto che riesce a spremer quattrini da qualsiasi situazione, compresa la propria permanenza nelle patrie galere. Il “non gradito” del festival che ha continuato a minacciare di presentarsi a sorpresa in prima fila. Elisabetta ha conquistato George Clooney, lo scapolo d’oro di Hollywood. Bello, intelligente, maturo, spiritoso, impegnato nel sociale e pure bravo sullo schermo. Il “più che gradito” del festival che ha continuato a dichiarare che non si sarebbe presentato in Riviera. Notato? Siamo a metà dell’articolo e sostanzialmente dobbiamo ancora dire una parola su Elisabetta e Belen, sulle loro capacità, sulla loro presenza scenica. Gli organizzatori del festival non hanno fatto nulla di diverso dai loro predecessori in 61 anni di storia sanremese. Si sono guardati in giro, hanno sfogliato i rotocalchi e si sono considerati campioni di originalità per aver mandato in archivio il modulo baudiano delle vallette bionda/mora. Vuoi mettere il colpo d’occhio di due castane necessariamente rivali, non foss’altro perché si somigliano e devono lottare per un posto nell’immaginario erotico del telespettatore medio? Dicono che l’idea del bacio rappacificatore di Elisabetta sulla guancia di Belen sia idea di quel romanticone di Federico Moccia, punta di diamante del team autorale. Dicono che, comunque, le due non si amino e scalpitino per surclassarsi. Difficile che accada. La loro prova non è stata diversa da quella delle molte che le hanno precedute. Impacci, papere, esibizioni in playback, interviste che farebbero meglio a lasciare ai professionisti. Però. Però Belen si è mostrata capace di reggere il palcoscenico, di ballare e cantare, di trasmettere una dolcezza sensuale che è la sua dote più evidente, a dispetto di un lato B leggendario. Però Elisabetta, inibita dall’emozione, dall’importanza dell’evento e da un Morandi che l’ha intralciata non poco, sogna una carriera da conduttrice e ci ha provato a mostrarsi preparata, intervistando in inglese Eliza Doolittle, De Niro, i Take that. I commenti? Bella forza, è fidanzata con Clooney. Eli e Belen. Non donne. Ma donne di.

Laura Costantini

venerdì 18 febbraio 2011

New York is a woman (but she's never alone): il parere di Gaja Cenciarelli

È stata una serata stimolante e piena di sorrisi quella di ieri sera alla Libreria Flexi. 
Un'atmosfera amichevole, rilassata, ma non per questo priva di spunti di riflessione. Cinema, musica, architettura, letteratura: si è parlato di tutto, si è partecipato con passione e interesse.
Francesco Giubilei e Laura Costantini presentavano «Villefranche sur mer», l'incanto di Francesca Mazzucato davanti al paradiso di questo piccolo paese, e «New York Is A Woman», della collana «Petit cahier di viaggio» delle Edizioni Historica.
Ieri sera, come promesso, ho letto il diario di Laura. Che sulla quarta di copertina sostiene, e a ragione: «Una sfida difficile perché su New York è stato scritto tutto e il contrario di tutto».
È vero. Non si legge questo cahier per scoprire "cose nuove" su New York, ma per immergersi nello sguardo di Laura e vedere New York con i suoi occhi.
Una delle domande che avrei voluto fare a Laura, ieri sera, durante la presentazione [ma, come dicono i perfidalbionici «I thought better» ;)] era: «Come ti sei sentita a scrivere da sola, senza Loredana?». Ho fatto bene a non chiederglielo perché, leggendo, ho scoperto che c'è un intero capitolo dedicato alla sua compagna di penna [definizione riduttiva - chi le conosce, sa cos'è Loredana per Laura e viceversa] e al loro primo romanzo: «New York 1920 - il primo attentato a Wall Street».
E allora ho capito.
È vero: «New York Is A Woman»: è Laura, che ce la consegna attraverso il suo sguardo. But she's never alone, aggiungo io. Non è mai sola.
E questo cahier di viaggio, dunque, si legge per l'amore che Laura ha messo nelle sue parole. L'amore nei confronti della donna-New York e l'amore nei confronti dell'amica-sorella Loredana.
Gaja Cenciarelli

giovedì 17 febbraio 2011

Sara' che noi siamo di un altro lontanissimo pianeta

La riflessione nasceva da un commento lasciato da Morgan Palmas sul blog di Remo Bassini nel maggio del 2007, ma resta validissima a mio parere. Quindi...

"Gli Italiani leggono sempre meno perché siamo un po’ tutti “napoletani” (lo scrivo con nessun intento offensivo, anzi, grande ammirazione per la città di Napoli), ma è risaputo che lì in particolare ci si arrangia giorno per giorno alla meglio come in nessun altro luogo di Italia, là ho visto le cose più incredibili nella vendita. E leggere è difficile, richiede tempo, concentrazione, calma… nessuna scorciatoia, prendere in mano le perle della letteratura classica non è facile se si vuole andare in profondità.
E leggere non ti fa diventare ricco economicamente , obiettivo principale di tanti giovani."
Una riflessione amara, quella di Morgan. Che spiega anche il titolo che ho voluto dare a questo post. Noi, inteso nel senso di noi che amiamo leggere, parlare, comunicare, scrivere, anche incazzarci, comunque condividere, apparteniamo sul serio a un altro lontanissimo pianeta? Alle volte mi viene da pensarlo perché non riesco a capire. Non penso di essere tanto vecchia da aver posto una distanza abissale tra me e le cosiddette nuove generazioni. Storco il naso davanti a fenomeni come Il Grande Fratello, ovvero la patria stessa del "provarci tanto per provarci, allo scopo di esserci, diventare famosi, arricchirsi". Poi mi è capitato di conoscere alcuni dei concorrenti, alcuni dei vincitori. E ho scoperto delle persone che studiano (non solo recitazione), che hanno una laurea, che pensano con la propria testa, che sanno esprimere un'opinione di senso compiuto, che hanno una profondità d'animo. Allora capisco che, anche se non sono la maggioranza, ci sono persone che scelgono di usare i mezzi che questa società mette a loro disposizione, per emergere. E non al solo scopo di arricchirsi (scopo che comunque non fa schifo a nessuno, siamo onesti), ma per farsi conoscere, per avere voce in capitolo o semplicemente per fare quello che era il loro sogno fin da bambini. Recitare in un film, condurre una trasmissione, entrare in un giornale, pubblicare un libro. Tutte cose che hanno strettamente a che fare con l'apparire e che, proprio per questo, vengono guardate con sospetto più o meno da tutti. Noi compresi. Noi che ci consideriamo degli alieni in una società che ha abdicato alla profondità in favore della velocità. Una società che consuma immagini, volti, parole, anche libri. Una volta un volume pubblicato guadagnava una sorta di esistenza che niente aveva da invidiare a quella di un essere umano. Passavano gli anni e comunque il volume esisteva, c'era, si poteva acquistare. Oggi, dopo pochi mesi, un libro è morto, fuori produzione, andato. Proprio come certi personaggi della tv. E non è detto che questa selezione feroce come e più di quella darwiniana, lasci in superficie il valore. Ci sono libri bellissimi ormai introvabili. E c'è una società, quella italiana, che legge troppo poco perché non ha tempo, perché ha altri hobby, perché quello che c'era da sapere lo sa di suo (sto citando frasi riportate nei commenti del post di Remo). Eppure quando un libro merita, quando viene messo nelle mani di un non lettore e consigliato caldamente, quando si riesce a superare la diffidenza... A TUTTI PIACE LEGGERE. L'abbiamo sperimentato anche con i nostri romanzi. Ci sono stati parenti miei e di Loredana che non avrebbero letto neanche un libretto d'istruzioni e invece si sono appassionati e hanno continuato a leggerci man mano che pubblicavamo. C'è stata un'amica che ha perso il sonno, nonostante il lavoro e una bambina piccola, per arrivare alla parola fine di un nostro romanzo. Allora capisco che non è vero che apparteniamo a un altro lontanissimo pianeta. E' che ci siamo lasciati togliere il gusto del nostro tempo, dei nostri sogni, della nostra fantasia. Per questo non sono d'accordo nelle condanne più o meno unanimi nei confronti di Moccia, di Harry Potter o comunque di quei libri che sono diventati fenomeni di costume, indipendentemente dal valore letterario. Perché un libro che piace, che costringe milioni di adolescenti a leggere è, l'ho detto fino alla nausea e continuerò a ripeterlo, una porta aperta attraverso la quale altri libri, altre idee, altri sogni troveranno posto nelle menti di giovani e meno giovani.
A mio parere bisogna lavorare per questo.

lunedì 14 febbraio 2011

L'ho fatto apposta, lo confesso


Non sono diventata megalomane. Ho messo la foto cosi' grande affinche' si legga cosa c'e' scritto sull'adesivo: Non piu' disposte a farci consumare. Una dichiarazione condivisa da decine di migliaia di persone nella piazza del Popolo del 13 febbraio 2011. Ma e' facile trovarsi e ritrovarsi, conoscersi e riconoscersi tra gente che in una domenica pomeriggio ha mollato divano e televisore ed e' scesa in piazza affrontando traffico, mezzi pubblici, parcheggi. Io volevo mettere alla prova quelli che della piazza non facevano parte. Per questo quando ho lasciato la manifestazione, ho tenuto quell'adesivo sul petto, sfidando gli sguardi. Sapevo che qualcosa sarebbe successo. Infatti dopo lo sguardo indignato di una attempata signora in visone e buste da shopping griffate, dopo l'occhiata sarcastica di un maschio in divisa da controllore della metro, e' arrivata la conferma che cercavo. Un ragazzotto, minorenne, brufoloso, rasato, giubbotto rosso bomber, un bel po' di amici e una fidanzatina appesa al braccio. Ci incrociamo. Ci guardiamo. Legge quanto scritto sull'adesivo. Arriccia il labbro in un sorriso ma aspetta di avermi sorpassato per dire ad alta voce: ma chi te se consuma piu' a te? Sapete chi ha riso di piu'? La ragazzetta. A dimostrazione che la strada e' ancora lunga. Lunghissima.

venerdì 11 febbraio 2011

I cinque libri fondamentali di LORY

Quelli che sto per citare non sono i miei cinque libri preferiti. Piuttosto sono quei libri che, in un modo o nell'altro, hanno lasciato una traccia nella mia vita. Probabilmente ne ho dimenticato più di qualcuno, ma le pagine lette sono tante e la memoria ogni tanto si prende il lusso di una piccola vacanza. 

Ho cominciato presto a leggere e, una volta esaurite tutte le fiabe, ho avuto in dono il mio primo vero libro: “CUORE” di Edmondo De Amicis. E’ stato un testo fondamentale nel passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza e credo che meriti il primo posto nella mia lista oltre al posto d’onore nella mia libreria.


Il primo giorno di scuola

Oggi primo giorno di scuola. Passarono come un sogno quei tre mesi di vacanza in campagna! Mia madre mi condusse questa mattina alla sezione Baretti a farmi iscrivere per la terza elementare: io pensavo alla campagna, e andavo di mala voglia. Tutte le strade brulicavano di ragazzi; le due botteghe di libraio erano affollate di padri e di madri che compravano zaini, cartelle e quaderni, e davanti alla scuola s’accalcava tanta gente, che il bidello e la guardia civica duravan a fatica a tenere sgombra la porta.


Dopo “Cuore” cominciai a divorare tutta la letteratura per ragazzi che mi capitò a tiro, ad eccezione della saga di Louisa May Alcott alla quale preferii le appassionanti storie di Giulio Verne (la Alcott però doveva essere nel mio destino perché molti anni più tardi quando qualcuno mi regalò “Un lungo fatale inseguimento d’amore”, che non mi sento di consigliare) e del suo fantomatico capitano Nemo.

Gli anni del liceo furono stimolanti sotto questo punto di vista, ricordo una serie infinita di titoli e generi diversi, dalla letteratura italiana classica che rientrava nel programma di studio, a titoli di autori contemporanei italiani e stranieri. Ma il libro che influenzò la parte più nascosta di me, quella che faceva (e fa tuttora capo) alla mio bisogno di scrivere fu senza dubbio “L’AZTECO” di Gary Jennings, una sapiente mescolanza di storia e fantasia sciorinata in oltre mille pagine di piacevolissima lettura.


(il brano che segue non è l’incipit ma una parte del Dixit )


Mio signore,

Perdonami, mio signore, se non conosco i titoli ufficiali e onorifici che ti spettano, ma confido di non correre il rischio che tu, mio signore, ti ritenga offeso. Sei un uomo, e non un solo un uomo tra tutti gli uomini ch’io ho conosciuto nel corso della mia vita si è mai risentito sentendosi dare del signore. Dunque, mio signore…

O forse Eccellenza?

Ayyo, è un titolo nobiliare anche più illustre… quello che noi di queste terre chiameremo un ahuaquàhuitl, un albero dalla grande ombra. Eccellenza ti chiamerò, pertanto. Tanto più mi colpisce il fatto che un personaggio di così eminente eccellenza abbia voluto convocare uno come me per dire parole alla presenza di Tua eccellenza…
Ma Tua Eccellenza desidera ascoltare che cosa io ero. Anche questo mi è stato spiegato. Tua Eccellenza desidera sapere che cosa il mio popolo, questa terra, le nostre esistenze erano negli anni trascorsi, nei covoni degli anni prima che piacesse al re di Tua Eccellenza e ai suoi portatori di croce e portatori di balestre, di liberarci dalla schiavitù della barbarie.

E’ esatto questo? Allora Tua Eccellenza non mi chiede una facile cosa. Come posso, in questa piccola stanza, con il mio piccolo intelletto, con il poco tempo che gli dei, che il Signore Iddio può avermi assegnato per giungere al termine del mio cammino e dei miei giorni, come posso evocare la vastità di quello che era il nostro mondo, la varietà delle sue genti, gli eventi dei covoni su covoni di anni?

Pensati, immaginati, raffigurati Eccellenza, come quell’albero dalla grande ombra. Vedine mentalmente l’immensità, i rami possenti e gli uccelli tra essi, il fogliame lussureggiante, la luce del sole sulle foglie, la freschezza che l’albero getta su una casa, una famiglia, la ragazza e il ragazzo che erano mia sorella e me stesso. Potrebbe, Tua Eccellenza, comprimere quell’albero dalla grande ombra nella ghianda minuscola che il padre di Tua Eccellenza ficcò un tempo tra le gambe di tua madre?

Yya ayya, ti sono dispiaciuto e ho sgomentato gli scrivani. Perdonami, Eccellenza. Avrei dovuto supporre che le copule in privato degli uomini bianchi con le loro donne bianche devono essere diverse – svolgersi con maggiore delicatezza – di quelle che li ho veduti imporre alle nostre donne in pubblico, con la forza. E, senza dubbio, la copula cristiana che generò tua Eccellenza, dovette esserlo ancora di più.


Tra gli anni del liceo e quelli immediatamente successivi avevo cominciato a fare conoscenza con colui che, più o meno inconsapevolmente, era destinato a giustificare il suo successo editoriale con i cosiddetti mostri sacri della letteratura internazionale: Stephen King. In una torrida estate degli anni ottanta, trascinata mio malgrado in una villa nascosta tra gli ulivi in quel di Barletta (era l’epoca in cui i figli andavano in vacanza con i genitori), pensai di esorcizzare il mio personalissimo getsemani chiudendomi nel sottoscala (unico posto dove era possibile godere un po’ di fresco) con ben tre dei romanzi di King in mio possesso. Fu così che mi imbattei in quello che considero il capolavoro di S. King: “IT”. I suoi romanzi successivi mi entusiasmarono meno fino ad arrivare alle letture, incompiute, di “Buick 8” e “L’acchiappasogni”. Ma si sa, il genio non sempre è inesauribile.


Il terrore che sarebbe durato per ventotto anni, ma forse di più, ebbe inizio, per quel che mi è dato di sapere e narrare, con una barchetta di carta di giornale che scendeva lungo un marciapiede in un rivolo gonfio di pioggia.

La barchetta beccheggiò, s’inclinò, si raddrizzò, affrontò con coraggio i gorghi infidi e proseguì per la sua rotta giù per Witcham Street, verso il semaforo che segnava l’incrocio con la Jackson. Le tre lampade disposte in verticale su tutti i lati del semaforo erano spente, in quel pomeriggio d’autunno del 1957, e spente erano anche le finestre di tutte le case. Pioveva ininterrottamente ormai da una settimana e da due giorni si erano alzati i venti. Allora quasi tutti i quartieri di Derry erano rimasti senza corrente e l’erogazione non era stata ancora ripristinata.

Un bambino in impermeabile giallo e stivaletti rossi correva allegramente dietro alla barchetta di carta. La pioggia era tutt’altro che cessata, ma la sua violenza si andava finalmente allentando. Tamburellava sul cappuccio giallo del bimbo e suonava alle sue orecchie come pioggia su una tettoia: un rumore amico, quasi intimo. Il bambino con l’impermeabile giallo era Gorge Denbrought. Aveva sei anni. Suo fratello William, conosciuti fra i ragazzini della scuola elementare di Derry ( e anche fra gli insegnanti, che mai avrebbero usato quel soprannome in sua presenza) come Bill Tartaglia, era a casa a smaltire i postumi di una brutta influenza. Nell’autunno del 1957, otto mesi prima che l’orrore si manifestasse definitivamente e ventotto anni prima dello scontro finale, Bill Tartaglia aveva dieci anni.


Le mie letture sono state sempre piuttosto variegate, come i mie coni gelato (Laura tuttora rabbrividisce quando mi vede mischiare fragola e cioccolato). Spesso sono state frutto di suggerimento, spesso sono sbocciate insieme alla mia voglia di assaggiare un po’ di tutto, senza privarmi di nulla, Topolino resta il mio fumetto preferito. Alcune volte è stato il caso a scegliere per me. In una delle mie rare visite a casa dei suoceri, mi imbattei in “UN UOMO”, di Oriana Fallaci. Ne sfogliai poche pagine, forse per darmi un tono, una nuance intellettuale e non riuscii a smettere. La storia d’amore della Fallaci con Alekos Panagulis mi conquistò così come la cronaca degli eventi della resistenza greca. E' un fatto che il famoso motto: “gli alberi muoiono in piedi” è uno dei miei preferiti e che quel libro non l’ho più restituito.


Un ruggito di dolore e di rabbia si alzava sulla città, e rintronava incessante, ossessivo, spazzando qualsiasi altro suono, scandendo la grande menzogna. Zi,zi,zi! Vive, vive, vive! Un ruggito che non aveva nulla di umano. Infatti non si alzava da esseri umani, creature con due braccia e due gambe e un pensiero proprio, si alzava da una bestia mostruosa e senza pensiero, la folla, la piovra che a mezzogiorno, incrostata di pugni chiusi, di volti distorti, di bocche contratte, aveva invaso la piazza della cattedrale ortodossa poi allungato i tentacoli nelle strade adiacenti intasandole, sommergendole con l’implacabilità della lava che nel suo straripare divora ogni ostacolo, assordandole con il suo zi, zi, zi. Sottrarsene era illusione. Alcuni tentavano, e si chiudevano nella case, nei negozi, negli uffici, ovunque sembrasse di trovare un riparo, non udire almeno il ruggito, ma filtrando attraverso le porte, le finestre, i muri, esso gli giungeva ugualmente agli orecchi sicché dopo un poco finivano con l’arrendersi al suo sortilegio. Col pretesto di guardare uscivano, andavano incontro a un tentacolo e ci cadevano dentro, diventavano anche loro un pugno chiuso, un volto distorto, una bocca contratta. Zi, si,zi! E la piovra cresceva, si spandeva in sussulti, a ciascun  sussulto altri mille, altri diecimila, altri centomila. Alle due del pomeriggio erano cinquecentomila, alle tre un milione, alle quattro un milione e mezzo, alle cinque non si contavano più.


E per finire, per non dimenticare, mi piace pensare che uno dei libri che ha formato la mia coscienza civile e morale è “SE QUESTO E’ UN UOMO”, di Primo Levi, del quale, piuttosto che l’incipit, preferisco citare l’omonima poesia. E non credo di dover aggiungere altro.


Se questo è un uomo

Voi che vivete sicuri

Nelle vostre tiepide case,

Voi che trovate tornando a sera

Il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo è un uomo

Che lavora nel fango

Che non conosce pace

Che lotta per mezzo pane

Che muore per un si e per un no.

Considerate se questa è una donna,

senza capelli e senza nome

Senza più forza di ricordare

Vuoti gli occhi e freddo il grambo

Come una rana d’inverno.

Meditate che questo è stato:

Vi comando queste parole.

Scolpitele nel vostro cuore

Stando in casa andando per via,

Coricandovi, alzandovi;

Ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,

La malattia vi impedisca,
 
I vostri nati torcano il viso da voi.

Sicuramente nella mia vita incontrerò altri libri degni di essere menzionati, mi piace pensare che uno di questi sia il vostro... datevi da fare.
Lory

QUI il post originale

mercoledì 9 febbraio 2011

I miei articoli per "La Sesia": Roba da donne

Sono passati vent’anni da quando la scena finale di “Thelma e Louise” ci lasciò col fiato sospeso e gli occhi lucidi. Rattristate e insieme felici per una sceneggiatura che, per la prima volta, permetteva a due donne di compiere l’atto più stupido e insieme il più eroico: rinunciare alla propria vita per una questione di principio. Due donne lasciavano degli uomini a chiedersi dove avessero sbagliato. Gli uomini a piangere, le donne a morire, ma col sorriso della vittoria sulle labbra. Era il 1991 e potevamo permetterci di pensare che ormai la strada fosse in discesa. Ci sbagliavamo. Difficile capire da quale punto sia partita l’involuzione del ruolo sociale delle donne, ma oggi ci troviamo a fare i conti con un attacco a dir poco virulento. Basta fare un giro nei social network, meglio ancora nelle piazze, nei bar, nei centri commerciali e ascoltare le parole della gente. La dignità dell’essere donna è messa a durissima prova e la colpa, ancora una volta, viene imputata alle stesse donne. Perché sono Ruby, Nadia, Nicole a vendersi. E cosa dovrebbe fare chi invece ha “solo” i soldi per comprare? Come biasimarlo? Così mentre politica e mass media si scontrano sul confine tra vita privata e pubblica vergogna, l’opinione pubblica reale, quella che si informa con quel che passa la tv, punta il dito contro le donne. Ancora una volta portatrici del peccato originale di essere giovani e desiderabili, e quindi in vendita, oppure vecchie e brutte, e quindi ipocrite e partigiane. Mai persone. Eppure oggi vogliamo parlarvi di tre persone: Sara, Anna Maria e Lucia. Sara Martera, giovane e bella, ha sfidato un rotocalco a raccontare la storia di una che avrebbe pure voluto far la Velina ma poi ha dato retta alla Littizzetto e ha capito che “le tette non ingombrano” a fare un qualsiasi altro lavoro. Vanity Fair le ha dedicato due paginette, mentre sono molte di più quelle dedicate ad Anna Maria Greco, la collega del Giornale perquisita dopo un articolo di attacco a Ilda Boccassini. “Le forze dell'ordine avevano avuto mandato di compiere anche perquisizioni corporali. Hanno rovistato nella mia biancheria intima”, ha denunciato senza che questo scatenasse la difesa d’ufficio della libertà di stampa. Anna Maria ha equiparato il bacio che Ilda, nel 1983, diede a un giornalista di sinistra alle attuali vicende di Arcore. Ilda si difese, allora, invocando la privacy e la tesi del Giornale stiracchia il concetto su due pesi e due misure. Non condividiamo quanto Anna Maria mutua da atti di 30 anni fa. Ma merita la solidarietà della categoria che non sarebbe mancata a un uomo. Resta Lucia Annunziata che domenica scorsa non è andata in onda con la rubrica “In ½ ora” perché suo marito, Daniel Williams, arrestato in Egitto era appena stato liberato. E Lucia, una delle giornaliste più preparate e temibili della televisione italiana, ha mollato tutto per correre ad abbracciarlo. Roba da donne. Quelle vere.

Laura Costantini 

(p.s. questo è il 52simo articolo della rubrica. Un anno è passato e alla Sesia va il mio grazie per questo spazio.)

domenica 6 febbraio 2011

I cinque libri fondamentali per LAURA

Il post originale data aprile 2007, ma le cose non sono cambiate da allora.

Una pretesa assolutamente difficile quella di selezionare cinque libri tra le centinaia che ho letto da quando avevo sei anni ad oggi. Ci ho comunque provato e questi sono i risultati. 

Dalton Trumbo : E JOHNNY PRESE IL FUCILE

INCIPIT: Se quel telefono avesse smesso di suonare. Stava già abbastanza male senza bisogno di un telefono che gli trillava nelle orecchie tutta la notte. Dio se stava male. E non era neanche colpa di uno di quei loro aspri vini francesi. Nessuno poteva berne tanto da ridursi così. Aveva lo stomaco sconvolto. Possibile che nessuno si decidesse a rispondere al telefono? Pareva che squillasse in una stanza enorme, larghissima. Anche la sua testa era enorme. Telefono fottuto.

Questo romanzo è una denuncia della guerra e di tutto il bagaglio di assurdità che la contorna. Parla della prima guerra mondiale, ma il discorso è valido sempre. Il finale che è qui di seguito mi sembra, ancora oggi, tale da mettere i brividi. Questo, dei cinque, è l'unico che non ho riletto più volte, ma adesso che l'ho ripreso in mano, quasi quasi...

George Orwell: 1984

INCIPIT: Era una fresca e limpida giornata d’aprile e gli orologi segnavano l’una. Winston Smith, col mento sprofondato nel bavero del cappotto per non esporlo al rigore del vento, scivolò lento fra i battenti di vetro dell’ingresso degli Appartamenti della Vittoria, ma non tanto lesto da impedire che una folata di polvere e sabbia entrasse con lui.
L’ingresso rimandava odore di cavoli bolliti e di vecchi tappeti sfilacciati. Nel fondo, un cartellone a colori, troppo grande per essere affisso all’interno, era stato inchiodato al muro. Rappresentava una faccia enorme, più larga di un metro: la faccia d’un uomo di circa quarantacinque anni, con grossi baffi neri e lineamenti rudi ma non sgradevoli. Winston s’avviò per le scale. Era inutile tentare l’ascensore. Anche nei giorni buoni funzionava di rado, e nelle ore diurne la corrente elettrica era interrotta. Faceva parte del progetto economico in preparazione della Settimana dell’Odio.

Se Orwell avesse saputo che la sua idea sarebbe servita per il più scemo dei reality...
Questo romanzo è stato una conferma, più che una scoperta, del valore degli esseri umani. Un valore che nessuna dittatura, mai, può permettersi di calpestare.

Frank Herbert: DUNE

INCIPIT: Nella settimana prima della partenza per Arrakis, quando era giunto a livelli quasi insopportabili il tramenio, una donna vecchia e vizza si presentò alla madre del ragazzo, Paul.
Era una notte calda e soffocante e Castel Caladan, e l’antico mucchio di pietre che era la dimora degli Atreides da ventisei generazioni dava quel senso di frescura umidiccia che preannunciava un cambiamento del tempo.
La vecchia fu fatta entrare da una porta laterale e condotta giù per lo stretto corridoio fino alla camera di Paul, dove poté spiarlo per un attimo mentre giaceva sul letto.
Una lampada schermata era sospesa vicino al pavimento. Alla sua mezza luce il ragazzo, ora sveglio, scorse il profilo di una donna corpulenta in piedi sulla soglia, accanto a sua madre. L’ombra della vecchia era quella di una strega: capelli simili a un’intricata tela di ragno le incappucciavano il viso; solo gli occhi brillavano, come gioielli.

L'ho riletto non so più quante volte, DUNE. Se qualcuno di voi ha visto il film... il libro, come sempre, è un'altra cosa. Mi ha sempre affascinato la capacità degli scrittori di creare tutto un mondo, con le sue regole, le sue leggi, le sue leggende, la sua lingua. Herbert è un grande, uno dei migliori in quel "gioco al creatore" che è poi la letteratura nella sua accezione migliore.

J.R. Tolkien: IL SIGNORE DEGLI ANELLI

INCIPIT: In una caverna sottoterra viveva uno hobbit. Non era una caverna brutta, sporca, umida, piena di resti di vermi e di trasudo fetido, e neanche una caverna arida, spoglia, sabbiosa, con dentro niente per sedersi o da mangiare: era una caverna hobbit, cioè comodissima.
Aveva una porta perfettamente rotonda come un oblò, dipinta di verde, con un lucido pomello d’ottone proprio nel mezzo. La porta si apriva su un ingresso a forma di tubo, come un tunnel: un tunnel molto confortevole, senza fumo, con pareti foderate di legno e pavimento di piastrelle ricoperto di tappeti, fornito di sedie lucidate, e di un gran numero di attaccapanni per cappelli e cappotti: lo hobbit amava molto ricevere visite.
Tolkien è il capostipite. Quello che ha immaginato tutto prima degli altri. Non capisco perché i valori di cui si fa portavoce siano stati usurpati da una certa mentalità destrorsa. Cosa c'è di meno fascista di un hobbit che non vede l'ora di tornarsene a casa a mangiare, bere e dormire. La figura dell'eroe suo malgrado nasce con Frodo Baggins e non ha ancora finito di dare frutti nella letteratura e nel cinema. Una figura nella quale tutti possiamo riconoscerci.
N.B. L'incipit che riporto è in realtà quello del libro "Lo Hobbit" che precede la saga del "Signore degli Anelli". Ma poiché spiega come sia successo che Gollum sia entrato in possesso del mitico anello (il mio tesssoro...), lo ritengo parte integrante del romanzo.

Marion Zimmer Bradley: LE NEBBIE DI AVALON

INCIPIT: Anche in piena estate Tintagel era un luogo tetro. Igraine, consorte del duca Gorlois, guardava il mare dal promontorio. Quell’anno le tempeste di primavera erano state più violente del solito, e giorno e notte gli scrosci delle onde s’erano abbattuti intorno al castello sicché nessuno riusciva a dormire e persino i cani uggiolavano lamentosamente.
Tintagel… alcuni credevano che fosse stato costruito sulle rupi all’estremità della lunga strada rialzata, nel mare, dalla magia dell’antico popolo di Ys.

L'ho letto almeno dieci volte. E mi ha affascinata ogni volta. Non è semplicemente un fantasy, è il passaggio da una civiltà all'altra. E' la malinconia di chi vede spegnersi ciò per cui ha vissuto. E' la resa di un potere sostanzialmente matriarcale all'avanzata maschilista portata in Britannia dal cristianesimo. Morgana è un personaggio che la Bradley ha saputo rendere vivo come mai nessuno prima. Non una fata, non una strega, ma una donna, una sacerdotessa, un'abile stratega che sacrifica i propri sentimenti per il bene comune e che, alla fine, riesce a vedere un lampo di speranza anche nella sconfitta.

mercoledì 2 febbraio 2011

I miei articoli per "La Sesia": Due paesi a confronto

Geograficamente siamo seduti su una pentola a pressione. Le immagini della rivolta in Egitto riempiono le pagine dei giornali e gli schermi delle tv. Orde di turisti spaventati bivaccano negli aeroporti in attesa di essere riportati a casa. Le unità di crisi avvertono di tenersi alla larga dal paese del sole perenne, delle piramidi, delle vacanze esotiche low cost. Gli italiani fuggono da Sharm El Sheik e guardano gli egiziani scendere in piazza per chiedere le dimissioni di un presidente che non vuole saperne di mollare la poltrona. Li guardiamo con sconcerto. Come se quelle manifestazioni di ragazzi che gridano slogan contro un governo vecchio e corrotto non si fossero svolte anche da noi. Come se non ci fossero nelle piazze italiane gazebo dove si raccolgono firme per chiedere le dimissioni del presidente. Il nostro presidente. A ognuno il suo faraone, ha ironizzato domenica scorsa D’Alema ospite di Lucia Annunziata. A ognuno la sua storia. E se c’è una cosa che noi abbiamo in comune con l’Egitto è di sicuro un patrimonio storico e culturale enorme. Un patrimonio che ci appartiene ma che siamo chiamati a custodire e difendere in nome di tutta l’umanità. E l’immagine che più colpisce, tra quelle che in barba alla censura giungono a getto continuo dall’Egitto, si riferisce ai cancelli del Museo Egizio del Cairo. Le mura sono state imbrattate dalla vernice di scritte indecifrabili. Nei corridoi, tra le vestigia di una delle civiltà più grandi che questo pianeta abbia prodotto, si aggirano soldati in mimetica e mitraglietta spianata. Alcune vetrine sono infrante, alcuni reperti sono danneggiati, due mummie sono state decapitate. Ma fuori dai cancelli, senza altra autorità che la propria appartenenza a quel paese, a quella cultura, c’è una folla di persone che vuole proteggere il Museo e tutto ciò che contiene. C’è un uomo che, con le lacrime agli occhi, afferma che tra quelle mura è custodita l’anima stessa dell’Egitto e che loro, a mani nude e senza alcuna divisa addosso, la proteggeranno perché in quell’anima si riconoscono, di quell’anima sono figli. Il patrimonio artistico, storico e culturale che l’Italia è chiamata a custodire è ancora più importante, ancora più imponente di quello prodotto all’ombra delle piramidi. Ma non è facile immaginare ronde di cittadini italiani inermi far barriera davanti ai Musei Capitolini, agli Uffizi, all’arena di Verona o al Duomo. Immaginarci pronti allo scontro fisico, al rischio della nostra incolumità per tenere i balordi, i razziatori, i vandali lontani dalla bellezza immortale che questo paese ha saputo produrre nei secoli e nei millenni. Si tratterebbe di combattere per la cultura, per un senso di appartenenza. Per qualcosa che non siamo in grado di quantificare se ancora oggi, nel centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, siamo lì a disquisire sulle colpe di Garibaldi, di Cavour, di Vittorio Emanuele II. E sul nostro sentirci padani, terroni o ladroni romani.

Laura Costantini

martedì 1 febbraio 2011

Vi siete mai scritti una lettera?

La domanda non e' peregrina. Io l'ho fatto, tanti anni fa. Era il 1995, inizio d'anno. Avevo appena saputo che il Tg5, pur apprezzando il mio lavoro e bla bla bla, non aveva l'opportunita' di garantirmi un contratto (dovevano garantirlo ad altre due colleghe che sono ancora li', assunte in pianta stabile. Una e' la figlia di un notissimo giornalista, l'altra del proprietario di una banca legata alla capitale). In quel momento credevo che ogni possibilita' di continuare a fare questo lavoro mi venisse preclusa. Mi chiusi in bagno, piansi tutte le mie lacrime, mi ricomposi e tornai alla mia (ancora per pochi giorni) postazione e scrissi. Una lettera. A me medesima. Non la indirizzai nello spazio, ma nel tempo. Me la scrissi con l'impegno di rileggerla sono dopo che fossero passati 10 anni. Avete presente quanto sono lunghi dieci anni? Un'eternita'. La vita ti cambia completamente. In quella lettera io scommettevo con me stessa che ce l'avrei fatta. In quel momento non sapevo come e quando, ma puntavo tutto su di me. Ho chiuso la lettera in una busta e l'ho messa in un cassetto. Negli anni, ogni tanto mi ricapitava in mano e la tentazione di aprirla prima del tempo era tanta. Perche' nel frattempo avevo dimenticato le sensazioni che me l'avevano dettata, avevo dimenticato le parole che avevo usato ed ero curiosa. Mi sono tenuta la curiosita' fino al 2005 ed ho sorriso ritrovando in quelle righe una me stessa ingenua, battagliera, ancora umida di lacrime ma decisa a non arrendersi. Avevo avuto ragione e la dimostrazione e' nel post che vi ripropongo:

Ho iniziato questo lavoro quando non lo facevo ancora. Ricordo il mio primo articolo. Si trattava di un tema in classe, argomento il successo dei cartoon giapponesi e la loro influenza (deleteria, si pensava allora, quando ancora non si aveva idea di cosa sarebbe successo con i videogiochi) sui giovani. Il mio amatissimo prof mi diede un voto alto, ma il complimento migliore fu “sembra un articolo di giornale, un’inchiestina”. Sapete perché? Perché la materia mi appassionava, la conoscevo a fondo, perché ero un’appassionata di cartoon giapponesi da Candy Candy a Mazinga, Daitarn, UfoRobot, JeegRobot, Capitan Harlock. Capii allora, in modo inconsapevole, che la miglior tecnica giornalistica è la conoscenza della materia. Poi è venuto il corso di giornalismo (parecchi anni dopo, per la verità). Uno degli insegnanti, Bruno Tucci (attuale presidente dell’Ordine di Lazio e Molise) non mi amava in modo particolare. Leggeva i miei pezzi e storceva il naso. Una delusione cocente, fino a quando non ho avuto il coraggio di chiedergli il perché. E lui, non ricordo le parole esatte, mi disse che in quei pezzi non c’era personalità. Io, da brava studentessa, prendevo le agenzie e ne mettevo insieme ciò che serviva a raccontare il fatto di cronaca in questione. Tutto molto corretto e molto freddo. Pensavo che un giornalista dovesse essere così, asettico. Sbagliavo. Perché se ciò che scrivi non interessa te, non ti coinvolge, perché dovrebbe coinvolgere il lettore? Ho capito il trucco (aggiungere colore, capire il contesto, descriverlo), l’ho messo in pratica e quell’insegnante ha cominciato a sorridere quando leggeva i miei pezzi. E’ stato lui a spedirmi a fare pratica in un quotidiano. Lì ho fatto perfino la giornalista parlamentare, ho assistito alle conferenze stampa di Berlusconi a Palazzo Chigi, ho intervistato vari ministri, onorevoli, senatori. Certo, il colore dovevi saperlo trovare nelle loro parole, nelle loro contraddizioni. E ho aggiunto un elemento fondamentale per questo lavoro: la memoria storica. Un giornalista deve avere una memoria prodigiosa, ricordare nomi, date, fatti, altrimenti potranno darti a bere qualsiasi cosa. Farsi un archivio personale non è un’idea malvagia, anche se oggi Internet ci salva parecchio. Poi sono passata al tg. La sintesi l’avevo acquistata, credevo, lottando con le griglie dei quotidiani, ma la televisione vuole di tutto e di più: velocità, partecipazione, estrema sintesi ma esaustiva di ciò che stai cercando di raccontare in un minuto. E poi la scelta delle immagini che è un linguaggio a parte. Mi piaceva il tg, ma dopo qualche mese mi hanno salutato e ringraziato. C’erano altre priorità ovvero la figlia di..., la compagna di... e via di questo passo.
A quel punto sapevo molto su come si faceva questo lavoro, ma non potevo farlo. Ho avuto fortuna, la segnalazione di un collega, un posto lasciato vacante e, sempre da esterna, ho cominciato a lavorare nei settimanali nazional-popolari. Cronaca rosa, nera, bianca, sociale, divulgazione, tutto. E al mio bagaglio ho aggiunto la curiosità per le cose che mi accadevano intorno, per i fenomeni sociali, per le reazioni della gente. Un giornalista deve consumare le scarpe prima ancora che la penna (o la tastiera). E’ faticoso, ma se non vai sul posto ciò che scriverai sarà sempre monco. Da questo punto di vista i fotoreporter sono i veri giornalisti, perché le immagini le catturi solo dove avvengono, non puoi lavorare di agenzie. Usare gli occhi come macchine fotografiche, registrare le impressioni. Il giornalismo nasce per raccontare le cose a chi non c’è. Ed è solo questo che dobbiamo fare, è questo che io faccio, indipendentemente da ciò che ti impone la linea editoriale, il direttore, l’autore di riferimento. E qui arriviamo alle note dolenti (non è che vi siete addormentati nel frattempo?): le influenze esterne. Da quando faccio questo lavoro mi sono stati posti limiti nei confronti di Maurizio Costanzo (per qualunque testata si lavori, il mitico baffo è assolutamente intoccabile; non c’è scoop che regga davanti alla sua influenza), Maria De Filippi (ça va sans dir) e Antonio Ricci (il patron di Striscia è più intoccabile del Papa, è sacro, infallibile, onnisciente). Tutti gli altri, dai Presidenti della Repubblica, a quelli del Consiglio ai mostri sacri della Tv (Baudo, Bonolis, Carrà etc. etc.) sono passibili di scoop, purché si sia in grado di trovarli, provarli e pubblicarli. La manipolazione delle notizie esiste, ma forse io sono un ingranaggio troppo piccolo perché venisse chiesta proprio a me. Ho scritto contro il pizzo in Sicilia, contro lo sfruttamento degli operai della Piaggio in Liguria, contro i pregiudizi ma anche i permissivismi sui campi nomadi di Roma. Non sono un caso raro. Sono una piccolissima pedina, ma non ho mai prostituito la mia penna o le mie idee. Ho ascoltato, mi sono fatta un’opinione, ho scritto ciò che la mia piccola mente ha elaborato. Non sono stata obiettiva perché non credo nell’obiettività, tanto meno del sacro giornalismo anglosassone (le storie di clamorosi scoop premiati col Pulitzer e scoperti fasulli arrivano tutte dal mondo anglosassone). I tabloid inglesi sono la patria del trash più avanzato. No, non mi lamento di quello che siamo noi giornalisti italiani. Anzi, ci difendo, perché lavoriamo in condizioni che nessun professionista accetterebbe: senza tutele, senza soldi, senza altro riconoscimento che quello della propria coscienza, senza un futuro, figurarsi una pensione. Parlo ovviamente di noi precari a vita, ancorche' professionisti. I giornalisti assunti nelle grandi testate cartacee o televisive stanno meglio, spesso si adagiano, a volte si vendono. Ma ci sono grandissime penne tra loro, gente che fa i conti tutti i giorni con la propria coscienza. Da cosa lo capisco? Li leggo e sento da quelle righe che loro c’erano, hanno vissuto quei fatti, li hanno elaborati. A modo loro. Ma questa non è una colpa.