giovedì 31 gennaio 2013

Noi che sempre al momento sbagliato

Siamo nati negli anni '60 del secolo scorso. Ci hanno chiamati baby-boomer perché figli del boom economico, della scarsa programmazione Rai, della voglia di ricostruire il paese dopo le macerie della guerra. Siamo tanti. Siamo troppi. A scuola portavamo il grembiule col fiocco e facevamo i doppi turni, mattina o pomeriggio. Se andavi di pomeriggio eri quello sfigato, quindi circa la metà di noi si sono portati lo stigma della sfiga fin da allora. A casa non si dicevano parolacce, si rispettavano i genitori, lo scappellotto era educativo, gli anziani erano il verbo. E si era anziani già a 50 anni. Le madri erano quelle che prima di entrare in casa dei parenti per l'invito a cena ti si accosciavano davanti e con lo stesso sguardo della protagonista dell'Esorcista, scandivano: "Guai a te se mangi troppo, guai a te se prendi i dolci, guai a te se mi fai fare una brutta figura!" Quindi, a stomaco serrato, eravamo liberi di entrare, metterci seduti e, massimo della libertà, lasciar cadere la testa addormentata sul tavolo mentre i grandi parlavano, del tutto indifferenti alla nostra noia o voglia di alzarci e di giocare.
Troppo giovani per il '68, del '77 non ci abbiamo capito poi molto, a parte che parlare in tre per strada era pericoloso perché gli sbirri ti beccavano per adunata sediziosa. Ma solo se avevi le polacchette, il maglione, l'eskimo e la tolfa. Se portavi il bomber e i camperos potevi essere anche in venti e tutto si risolveva in una simpatica riunione tra amici.
Quelli che non si sono beccati pallottole vaganti durante una manifestazione, quelli che non si sono persi dietro un buco d'eroina, quelli che non si sono lasciati incantare dalla sirena dell'estremismo, hanno visto morire Aldo Moro, hanno letto cronache di gente che veniva gambizzata ma hanno continuato a pensare che se tu non ti occupi di politica, è la politica che si occupa di te. Intanto crescevamo. Abbiamo studiato, quasi tutti. Ci siamo laureati, quasi tutti. Il percorso ci era stato descritto e fornito come viatico: liceo, laurea, concorso, posto fisso.
L'ho già detto che siamo tanti? L'ho già detto che siamo troppi?
Fossimo nati un cinque-dieci anni prima sarebbe stato tutto diverso. Ma quando noi abbiamo cominciato a frequentare assurdi concorsi per posti nelle pubbliche amministrazioni con 300 possibilità per 100mila candidati (non sto esagerando, è capitato a me), le cose già stavano cambiando. Erano gli anni '80. Fighissimi, chi lo nega? Ci si vestiva colorato, la musica era stupenda, tutto sembrava possibile, il mondo era ai nostri piedi, bastava avere iniziativa. Co' 'sta storia dell'iniziativa, dell'imprenditoria, della flessibilità ce l'hanno messo in quel posto. Perché, scusate la ripetizione, i posti fissi erano finiti, catturati dai nostri coetanei dotati di opportune conoscenze. Gente che negli anni '70 era sulle barricate con una molotov in mano, grazie a mamma e papà negli anni '80 era su una Porsche con in mano una ventiquattrore e una poltrona comoda in banca.
Però ci credevamo ancora, eh... Altroché se ci credevamo. Con Craxi l'Italia era o non era una superpotenza? E allora? Allora facevamo i tre mesi alle Poste, spedivamo curricula cartacei a suon di francobolli, partecipavamo a concorsi. Nel frattempo, chi aveva un lavoro e un amore, si sposava e faceva pure i figli. Pochi, per la verità, che i figli nostri costavano e costano un'enormità. E ci proponevamo di essere genitori diversi da quelli che avevamo avuto e che nel frattempo, sempre più avanti negli anni, continuano a trattarci come ragazzini, a dirci di non far fare loro brutta figura... e a mantenerci. Eh sì. Perché nel frattempo la parabola del capitalismo ha cominciato la discesa, già negli anni '90, e la flessibilità/iniziativa personale è diventata co.co.co, co.co.pro, apprendistati, lavoro nero, precariato. Ma parlavamo di figli. Ora, nessuna madre della nostra generazione chiuderebbe lo stomaco del figlio a suon di minacce e, memore degli scappellotti e del lancio di cucchiarelle o zoccoli, nessuna mai alzerebbe un dito sul frutto dei propri lombi. Volevamo essere genitori migliori, giusto? Ebbene, abbiamo tirato su una generazione di smidollati, incapaci di avere un progetto di vita, impreparati perfino alla domanda: vuoi un sofficino o un uovo sodo?, sempre pronti alla rispostaccia. Con tutti: genitori, nonni, estranei, anziani, professori. Non rispettano nessuno. Soprattutto non rispettano noi.
Quindi, tirando le somme:
- non abbiamo avuto il posto fisso
- non abbiamo avuto una società più giusta
- non abbiamo avuto un ruolo nella società
- non abbiamo visto avverarsi i nostri sogni
- non ne abbiamo azzeccata una.
Presi a pizze dai genitori e ignorati dai figli, mai avuta voce in capitolo. Noi che (direbbe quel nostalgico di Carlo Conti) sempre al momento sbagliato.

martedì 29 gennaio 2013

Memoria... scarsa

Quante volte lo abbiamo sentito dire? Brava persona, sempre così educato, gentile, mai un problema. La faccia è, di solito, quella di un vicino di casa che non perde occasione per dire due banalità davanti alla telecamere. C'è appena stato un delitto. Cruento, efferato, inspiegabile e ingiustificato, posto che un delitto possa esserlo. E il vicino di casa sta parlando dell'assassino  beccato col coltello insanguinato o la pistola fumante. Brava persona, gentile, educato, mai un problema. Domenica scorsa, giornata della Memoria, l'ideale vicino di casa aveva la faccia di Silvio Berlusconi. Il colpevole, storico e conclamato, era Benito Mussolini. E il candidato alle prossime elezioni,  guadagnandosi microfoni e telecamere che sono il suo pane quotidiano, ha detto la sua sull'Olocausto. Una tragedia immane, per carità. Però, a ben guardare, le Leggi razziali che spedirono a morte certa migliaia di cittadini italiani, che decapitarono la cultura e la ricerca scientifica, che sottomisero l'Italia alla follia genocida dei nazisti, sono state, secondo Berlusconi, un errore a fronte delle molte buone cose compiute dal Duce. Brava persona, sempre così educato, gentile, mai un problema. Un errore ci può stare. E sarebbe inutile metterci lì a fargli l'elenco dei dissidenti morti, di quelli spediti al confino, di un'economia massacrata in chiave autarchica, della morte di qualsiasi libertà civile, di una guerra atroce e lunghissima, delle occupazioni, dei bombardamenti, dei civili massacrati, dei ragazzi spediti a morire con suole di cartone in terra di Russia. Dalle Leggi razziali a oggi sono trascorsi 75 anni. Un'eternità per gli esseri umani, un battito di ciglia per la Storia. I sopravvissuti ai campi di sterminio sono sempre meno numerosi, sempre più vecchi e fragili. Avrebbero diritto al riposo e alla quiete, eppure si sobbarcano conferenze e incontri per raccontare l'inferno in terra. Per raccontare la miseria umana di gente che denunciò e tradì e la grandezza d'animo di chi mise a rischio la propria vita per rimediare all'oscenità di quelle leggi e alla viltà di chi le impose a un paese che antisemita non era né voleva essere. Lo fanno, i sopravvissuti, e continueranno a farlo finché avranno fiato, cuore e mente per ripercorrere quegli orrori e metterci in guardia. Perché è tanto facile per i vicini di casa dell'assassino dire che si trattava di una persona tranquilla, insospettabile e omettere delle avvisaglie colte e volutamente ignorate. E le avvisaglie ci sono, sono evidenti. Ci basta sfogliare i giornali, ci basta seguire un notiziario. La crisi economica pressante, la paura del futuro, la rabbia per lo stile di vita immaginato e perduto sono gli ingredienti ideali per preparare paura dell'altro e odio per il diverso. Di qualsiasi diversità si tratti: cultura, religione, colore della pelle, sesso. Se poi una tragedia di portata planetaria diventa, agli occhi di un leader politico, un errore tra molte cose buone, non sono più avvisaglie. Sono la realtà prossima ventura.
Laura Costantini

domenica 27 gennaio 2013

Rete quotidiana


Rete quotidiana

Mi hanno invitato ad entrare a far parte di una rete. Una rete diversa da quella che più o meno tutti frequentiamo quotidianamente. Una rete che unisca persone che hanno a cuore il mestiere che io faccio da 18 anni: giornalista. E non perché sia un mestiere prestigioso, non lo é. Non perché si faccia parte di un ordine professionale o si possa sbandierare un tesserino come il distintivo dei poliziotti da film. Quello del giornalista è un mestiere, artigianato, apprendistato continuo. Si impara sulla strada, si impara nel contatto costante con la realtà del mondo che ci circonda. Lo possono fare tutti? No. Perché intanto è un mestiere faticoso, che nulla ha a che vedere con la casta di cui ci si riempie la bocca sugli stessi media che del giornalista sono lo strumento. Ci vuole costanza, pazienza, ostinazione, talento anche. E, prima ancora, ci vuole chiarezza di intenti. Tutti i ragazzi e le ragazze che affermano di voler fare i giornalisti, che affollano le aule dei vari corsi di scienze della comunicazione, cosa vogliono? Cosa si aspettano? Quale risultato si prefiggono? Io non so dirlo. Posso parlare di quello che volevo e voglio io. Non dal fare ma dall'essere giornalista. La differenza non è da poco. Se scegli questo mestiere, giornalista lo sei h24 e non puoi chiudere gli occhi su quello che vedi. Non fai il giornalista dalle otto del mattino alle cinque del pomeriggio. Sei giornalista anche la domenica, anche in vacanza, anche quando stai male e vorresti ignorare il resto del consesso umano. Un giornalista, diceva Montanelli, ha un solo padrone: il lettore. Il suo scopo è raccontare i fatti a coloro che non hanno potuto essere presenti. Un giornalista è un testimone. Non obiettivo, non credeteci all'obiettività. Non siamo macchine, siamo esseri umani e come tali dotati di idee e convinzioni. Un giornalista non può astrarsi da se stesso, ma l'importante è che dia voce ai fatti e che la dia intellegibile, chiara, mai prezzolata, mai prona a questo o quell'ordine di scuderia. Un giornalista non dovrebbe averla una scuderia, una squadra. E allora, vi starete chiedendo, che altro è questa Rete Quotidiana? Io credo sia un tentativo di fare giornalismo diverso. Di essere giornalisti diversi. Sia la volontà di rendere evidente che puoi, per contratto di lavoro, far parte di una compagine senza per questo condividerne pedissequamente le scelte. Che puoi continuare a pensare con la tua testa e svolgere il tuo mestiere onestamente, cercando di portare a conoscenza dei lettori i fatti. Tutti i fatti. Che puoi batterti perché la cultura non venga messa da parte o perché non passi il messaggio che "tanto non cambia niente". Cambia, può cambiare. L'importante è cominciare a lavorarci. Da artigiani, con pazienza e costanza, perché così si è giornalista.

mercoledì 23 gennaio 2013

Diritto all'oblio?

Si chiama così, diritto all'oblio. È compreso tra i diritti inalienabili la cui tutela è garantita dall'articolo 2 della nostra Costituzione. È il diritto di ognuno di noi a essere dimenticato. Anzi, a non essere ricordato per fatti che in passato siano stati oggetto di cronaca. Se abbiamo commesso un reato ieri, abbiamo il diritto di pretendere che non se ne parli più, domani, sulla stampa e sui mezzi di comunicazione. In testa a tutti, la Rete. Il tema è complesso, controverso e spesso affidato alle dotte opinioni degli addetti ai lavori, tra giurisprudenza e media. Ma negli ultimi giorni il diritto all'oblio è uscito dall'ombra almeno due volte. Ce la ricordiamo tutti Erika Di Nardo. Con buona pace del dettato costituzionale, se una ragazzina di 14 anni, insieme al fidanzato, massacra a coltellate la mamma e il fratellino, l'oblio ha perso in partenza. Siamo un paese innamorato della cronaca nera. Seguiamo come e più delle soap-opera, le vicende processuali legate agli omicidi prodotti dalla provincia italica. Ci appassiona cercare nei volti e negli sguardi la traccia lasciata dal male. E spesso non la troviamo. Erika, che vuole l'oblio ma affida ai media lo sfogo per l'attenzione della gente che le sarebbe costata il lavoro di commessa in una selleria, ha un volto pulito e uno sguardo limpido. E proclama di non essere più la protagonista del delitto di Novi Ligure. Vuole essere lasciata in pace. Lo sterminio della sua famiglia, le bugie sui rapinatori albanesi, l'incauta chiacchierata col complice Omar le sono costati 11 anni di galera. Ha pagato il suo debito. Può, lei, andare oltre. Dobbiamo, noi, dimenticare la sua faccia e il suo nome. Non sappiamo se sarà mai possibile, ma il diritto all'oblio è tornato alla ribalta con un'iniziativa sul web. Un sito ha messo online i volti di tutte le donne vittime di femminicidio. Un chiaro invito a non dimenticarle. Ma sono online anche i volti dei loro carnefici. Uomini comuni, facce quotidiane, insospettabili che i vicini, dopo ogni tragedia, qualificano invariabilmente come "brave persone". La polemica è sorta istantaneamente trovando terreno fertile nel campo minato della violenza di genere. Molti di quegli uomini, dopo aver assassinato, si sono tolti la vita. Molti sono in galera, già condannati. Molti aspettano appelli e controappelli per strappare qualche anno di carcere in meno. Mettere le loro facce e i loro nomi sul web significa renderli indimenticabili. Significa che nel loro futuro, per quelli che un futuro lo avranno, resterà il marchio di ciò che hanno fatto. La giurisprudenza ci dice che non è giusto. Quelle foto e quelle didascalie ledono i loro diritti, nessuno può negarlo. Ma se si può accettare che due ragazzini, quali erano Erika e Omar al momento del delitto di Novi Ligure, possano crescere, cambiare, capire, più difficile è concedere a persone adulte il beneficio del dubbio. Il loro diritto all'oblio diventerebbe una condanna all'oblio per le loro vittime. Uccise, così, due volte.

Laura Costantini

mercoledì 16 gennaio 2013

Il nostro naufragio

Non poteva essere altrimenti. In occasione del primo anniversario del naufragio della Costa Concordia, la rimembranza è servita a reti unificate. Trentadue vittime, due ancora disperse, un relitto che ormai è monumento. Un cantiere, ma i gigliesi lo ammettono sotto voce, che ha creato un indotto importante. Ci sono operai e maestranze specializzate, ci sono tanti turisti dell'orrore a caccia di immagini della balena spiaggiata prima che venga rimossa. Dovranno pur mangiare, dormire, comprare un souvenir. È la vita che si prende la rivincita sulla morte, anche se si levano più alte le voci di chi incalza la rimozione, il ritorno alla bellezza primigenia dei luoghi. Perfino lo scoglio che sventrò, incolpevole, il gigante del mare è stato rimesso al suo posto con una cerimonia, una targa, l'accompagnamento  delle sirene dei rimorchiatori. Il suono più triste del mare, insieme allo stridio dolente dei gabbiani. Non ce ne sono più tanti intorno alla Concordia. Ormai anche il regno animale ha accettato e, chissà, immagina definitiva quella nuova strana scogliera che getta ombra fitta sul fondale, ammazza le praterie di posidonia, ma crea un habitat nuovo per gli abitanti del blu profondo. O meglio, lo creerebbe, se intorno all'impressionante relitto che tutto il mondo ci ammira, copia in sedicesimo dell'indimenticato Titanic, non si affollasse un mondo di piattaforme, di fiamme ossidriche, di fotocellule elettriche, di luci accecanti. Domenica scorsa si celebrava un anno esatto da quella sera in cui accadde ciò che neanche uno sceneggiatore catastrofista avrebbe potuto immaginare impunemente. E da allora abbiamo imparato che le navi da crociera sono enormi come condomini da decine di piani eppure hanno la strana tendenza a inchinarsi davanti alle bellezze della costa. Abbiamo imparato che hanno nomi fantasiosi e vanità da prime donne, perché si inchinano, anche e soprattutto, per farsi ammirare, regge incantate sfolgoranti di luci sul mare placido. Abbiamo imparato che sembrano invulnerabili, ma hanno una plancia di comando dove ci piacerebbe immaginare capitani coraggiosi e attenti e non cialtroni che coatteggiano come fossero alla guida di un gommone da diporto. Abbiamo imparato che a poche centinaia di metri dalla costa, il mare oscuro di una serena notte di gennaio può rivelarsi feroce e richiedere sacrifici come ai tempi dei velieri e dei flutti procellosi cari a Salgari. Da un anno a questa parte sappiamo che si può morire subito dopo una cena elegante, tra luci e suppellettili pacchiane, ancora convinti che tutto andrà bene. Sappiamo che un comandante galante e ciarliero in livrea bianca può voltare le spalle alla responsabilità di migliaia di persone, mettersi in salvo e giocare allo sport più praticato nel nostro paese: lo scaricabarile. Sappiamo, soprattutto, che quella nave ferita a morte ci affascina perché è la metafora più potente del nostro tempo. È affondata, la riporteranno a galla. Ma solo per avviarla alla rottamazione.
Laura Costantini

lunedì 14 gennaio 2013

Scrivere Donna, ovvero il rapporto delle donne che scrivono con l'editoria:

Mavie Parisi è nata e vive in Sicilia. Sono moltissime le donne del Sud che hanno trovato nella scrittura, fin dalla più tenera infanzia, un mondo nel quale riversare pensieri e aspirazioni. Un angolo dove vivere a pieno il proprio essere donna (qui l'intervista completa)

Non ho deciso di scrivere, semplicemente è successo. Già dalla scuola elementare, mentre tutte le mie compagne (già perché ai tempi le classi erano monogenere) odiavano la  maestra perché quasi ogni giorno ci obbligava a scrivere un tema, io amavo quelle due ore, dalle otto alle dieci.
Davo sfogo alla mia fantasia, a volte anche in maniera eccessiva.
A volte, spesso devo dire, il mio componimento veniva letto ad alta voce.
Per me non c’era nulla di più bello: le mie compagne sono state i miei primi lettori/ascoltatori.

Sono molte le donne che hanno raccontato di essersi approcciate alla scrittura fin da bambine, ricavandone gioie e dolori, a volte la solitudine di essere giudicate un po' strane e secchione. Avete avuto esperienze simili?

martedì 8 gennaio 2013

Non è razzismo, è peggio.

La provincia di Varese, dove si trova Busto Arsizio, viene considerata una culla del neonazismo in Italia. Uno dei boss degli ultrà della Pro-Patria di Busto è un consigliere comunale del Pdl, ma è più noto alle cronache perché nel 2007 volle festeggiare il compleanno di Hitler. Notizie riportate dai quotidiani dopo i vergognosi cori razzisti contro il calciatore nero Boateng, e contro la fidanzata, bianca, italiana, bellissima e famosa, Melissa Satta. Boateng ha abbandonato il campo. La squadra del Milan l'ha seguito a ruota. L'episodio ha scatenato dibattiti e opinionisti assortiti. Ci siamo sentiti dire che il calcio, e abbiamo notato che nelle parole degli addetti ai lavori calcio suona con la C maiuscola perché non si manca di rispetto alla gallina dalle uova d'oro, non è razzista. E che i protagonisti di quei cori non sono tifosi. Si mascherano da tifosi e ne approfittano per delinquere. Ci hanno detto che neanche quelli che, a Roma, hanno massacrato i supporter del Tottenham che festeggiavano in un pub erano tifosi. Inalberavano sciarpe laziali, c'erano anche un paio di romanisti, gridavano slogan antisemiti e col calcio, dicono, non c'entravano. Poi ci è stato spiegato che il tifoso, quello vero, arriva allo stadio dopo una settimana di frustrazioni personali che vanno sfogate. Poco importa che in realtà lo sfogo dovrebbe riguardare due o tre giorni al massimo, visto che le partite sono diventate un tormentone quasi quotidiano. Il tifoso arriva in curva e ha il bisogno fisiologico di evacuare insulti. Non è razzista, ma se il bersaglio è un giocatore nero, oltretutto giovane, bello, ricchissimo e con una fidanzata da sogno, pare gli si debba garantire il diritto di insulto libero. E, a pensarci bene, gli opinionisti avvocati difensori del calcio potrebbero aver ragione. Perché, sebbene in questi giorni l'unico a tirarlo in ballo in una lettera sia stato un anonimo lettore napoletano di Repubblica, l'insulto libero spazia. E se di razzismo si tratta, è razzismo che non bada ai colori. Basta entrare in uno stadio per sentirlo esercitare con cori che insultano l'appartenenza geografica, specie se meridionale, o la presunta promiscuità sessuale di mogli e fidanzate incolpevoli. Come dimenticare il giornalista sportivo piemontese, poi licenziato dalla Rai, che lo scorso novembre in servizio disse che i tifosi napoletani puzzano? Viene da dire che chi si oppone all'accusa di razzismo nei confronti del calcio possa aver ragione. Il razzismo, nelle sue allucinate argomentazioni, necessita di una capacità logica che travalica le ambizioni, e la preparazione culturale, delle tifoserie. Lo stadio, argomentano gli esperti, garantisce l'anonimato e la possibilità di sfogare le proprie inconfessabili pulsioni senza assumersene la responsabilità. Chi ulula quei cori, chi modula quei buuuuh, non pensa, non ragiona, non decide. Si unisce alla massa amorfa e certifica l'analfabetismo, sociale, etico, morale, in cui siamo precipitati.
Laura Costantini

mercoledì 2 gennaio 2013

Scrivere Donna, ovvero il rapporto delle donne che scrivono con l'editoria: Barbara Risoli

Le interviste complete le trovate sul sito www.scrivendovolo.com e le linkerò di volta in volta. Ma mi piace isolare qui alcune risposte che ritengo importanti.

Barbara Risoli (qui l'intervista completa), scrittrice di romance storici, ci ha detto:

"Un tempo si sentiva dire che la letteratura rosa era di serie B, i nasini si storcevano e si srotolavano frasi del tipo ‘io guardo solo Quark’, ‘io leggo solo Dante’. Tuttavia, c’è sempre stato un dato discordante: il rosa è sempre stato il più venduto nel mondo, si badi bene… nel mondo. Ma le autrici si sono imposte con forti iniziative in questi anni, hanno urlato più forte e adesso il genere non è più considerato inutile e senza senso. E io confermo che, se si vuole scrivere un buon rosa (specialmente se storico) bisogna studiare, lo strafalcione storico è una condanna a morte per un autore, come lo è il congiuntivo sbagliato."

Voi che ne pensate?