lunedì 24 marzo 2014

Diario sparso di un'avventura molisana

Ve l'avevo promesso, il diario molisano e quindi eccomi qui. Oggi sono otto giorni che mi trovo a Lowfield (Campobasso per gli amici). Sono arrivata di domenica, e la giornata è trascorsa sistemando i bagagli e le carabattole assortite in giro per casa. Il lunedì sono venuta in redazione per firmare il contratto che sancisce, dopo vent'anni di lavoro e quattordici di iscrizione all'Ordine che, toh, sono una giornalista professionista. Il martedì ho preso servizio e sono stata immediatamente messa nella centrifuga della produzione di servizi per il tgr e per buongiornoregione. Poi i giorni si sono confusi, hanno assunto una valenza strana, dilatata. Ogni giorno sembra due, tre, una settimana. Mi ritrovo a casa, la sera, stanca, un tantino spaesata. Ma contenta. Sì, sono contenta. Con la maggior parte dei colleghi e dei superiori è stato feeling immediato. Con qualcuno stiamo prendendo le misure. Poi c'è chi si atteggia a cinico, a schifato da questo lavoro, da questo contesto. E' capitato oggi. Non sono riuscita a tacere.

- Dovremmo essere felici di avere un lavoro, per cui veniamo pagati (ho detto)
- Tu vieni pagata (ha risposto)
- Anche tu, e forse più di me.
- Se io fossi pagato più di te, tu adesso staresti al posto mio.
- Ti sbagli. Io faccio il lavoro che volevo fare fin da bambina. Non è una questione di soldi, ma di passione.

Dopo queste parole silenzio imbronciato. Poi l'atteggiamento è cambiato. Non che sia una garanzia, ma una cosa vorrei appuntare in questo piccolo diario: fare il lavoro che hai sempre voluto fare ha un valore che travalica lo stipendio. Non vorrei essere pagata di più per fare una cosa che non amo. E non credo di essere strana per questo.

domenica 9 marzo 2014

Io mi ricordo

Io sono molto più vecchia della collega Beatrice Borromeo. Mi azzardo a dire che Beatrice Borromeo potrebbe essere mia figlia. Eppure è evidente che io ricordi il periodo dell'adolescenza, per me piuttosto distante, molto ma molto meglio di lei. Beatrice Borromeo ha scritto per Il fatto quotidiano un articolo dal titolo emblematico "Se non ti fai sverginare sei una sfigata" (qui il link http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/03/06/sesso-a-14-anni-unadolescente-racconta-se-non-ti-fai-sverginare-sei-una-sfigata/904665/) aggiungendo la propria al coro di voci che, dal caso baby squillo in poi, ma anche prima a ben pensarci, stigmatizza l'intera categoria delle adolescenti, femmine, in base a una presunta iperattività sessuale. Borromeo parla di quattordicenni in una prima puntata della sua inchiesta. E non la conosco, quindi non posso e non voglio dire nulla sul come abbia operato nel preparare la suddetta inchiesta. Ciò di cui voglio parlare è la scarsità di memoria. Al netto delle differenze di epoca, mi viene da pensare (e ammetto subito sia un pregiudizio) che l'adolescenza di Borromeo sia stata ben diversa dalla mia. Lei ha un nome che trasuda aristocrazia, cultura, alta società. Io sono figlia, fiera figlia, di un portalettere, cresciuta, con altrettanta fierezza, in una borgata romana, frequentando scuole pubbliche per tutto l'iter scolastico. E mi ricordo. Mi ricordo molto bene cosa vuol dire essere un'adolescente. Femmina. Mi sentivo brutta, mi sentivo inadeguata, mi sentivo sola. Ferirmi era la cosa più facile del mondo. Era come se la pelle mi fosse stata strappata via, lasciandomi nuda a carne viva. E su quella carne qualsiasi sguardo (Dio, la cattiveria degli sguardi), qualsiasi parola, qualsiasi gesto erano sale, fuoco, lame. Esisteva già il bullismo negli anni 70/80. Esisteva la cattiveria. Esisteva l'attività sessuale. C'era lo sforzo di un movimento, quello femminista, che cercava di aprirci gli occhi, a noi bambine/adolescenti in procinto di affrontare l'altro sesso. E c'era, c'è sempre stata, la banalità dell'accomunare un'intera categoria in un giudizio. Gli adolescenti erano quelli maleducati, erano quelli chiassosi, erano quelli svogliati, erano quelli incapaci di prendersi responsabilità. A tutto questo, per le femmine, si aggiunga che le adolescenti erano puttanelle. Non lo si diceva facile come lo si dice oggi. Ma era negli occhi di chi, adulto, maschio o femmina che fosse, ti guardava. Negli occhi adulti maschi c'era, allora come oggi, condanna e appetito inconfessabile. C'era la voglia, spesso attuata, di importunarti, toccarti, sussurrarti porcate che tu, ragazzina quattordicenne del 1977, manco eri in grado di decifrare. E io mi ricordo. Ricordo la rabbia (avete presente la rabbia di un'adolescente? quella fiammata di aggressività e pianto, quella richiesta di aiuto che nessuno sembra in grado di ascoltare?) quando adulti in carne e ossa o adulti dalle pagine di un giornale, pretendevano di decifrare il come, il perché, il quando. No, Borromeo, noi adolescenti di allora non eravamo tutti maleducati, non eravamo tutti inutilmente aggressivi, non eravamo privi di valori, non eravamo svogliati e viziati. Non eravamo puttanelle. E odiavamo chi si arrogava  il diritto di giudicarci senza conoscerci. Io me lo ricordo. E di tempo ne è passato molto più per me che per te, Borromeo. Mi ricordo che non c'è niente di peggio che parlare per categorie, che fare mucchio, che generalizzare ai danni delle persone. Me lo ricordo talmente bene che oggi, che faccio il tuo stesso lavoro, da un po' prima di te e con molta più fatica, consentimi, cerco di evitare di parlare di lavagne con i buoni e con i cattivi. Soprattutto se la categoria "cattivi" è rappresentata, in parte Borromeo, in una piccola parte, da persone già nell'occhio di un ciclone mediatico dove si parla sempre di baby-squillo e mai di clienti pedofili. Pensaci. E ricorda. Non ti servirà un grande sforzo.

martedì 4 marzo 2014

Il momento in cui decidi

Ci sono momenti in cui sai che tutto sta per cambiare. Ormai lo sapete più o meno tutti che sto per trasferirmi a Campobasso. Ho vinto una selezione interna per giornalisti. Vado alla Tgr. Ma il momento del cambiamento non sarà quando arriverò nella nuova sede, né quando confezionerò il primo servizio. Il momento del cambiamento è già passato. E io ne ho avuta la nettissima percezione in una di quelle epifanie che capitano poche volte nella vita. Era l'estate scorsa. Ero a lavoro. Ero sola. periodo di ferie, quasi tutti i colleghi in vacanza. Comunque il mio solito orario mattutino. Gran sole all'esterno. Grande incertezza dentro di me. Una schermata sul computer. Una scritta lampeggiante: selezione interna per giornalisti. Quanto a lungo l'ho guardata non saprei dire. Tanto. In un ideale e angosciante soppesare tutti i pro e i contro. Poi ho cliccato, ho raggiunto il formulario. Ho compilato la domanda. Tasto invia. Quanto a lungo ho esitato? Tanto. Perché sapevo cosa sarebbe accaduto. Di esami nella mia vita ne ho fatti tanti. E non ho mai fallito. Mai una bocciatura. Sapevo cosa sarebbe accaduto. Alla fine mi sono decisa. Ho cliccato sul tasto. Ho inviato la domanda di partecipazione. E in quel momento, col sole fuori e il buio dentro, con la solitudine intorno, ho pianto. Ho pianto il distacco. Ho pianto il cambiamento epocale. Ho pianto la paura dell'ignoto. Ho pianto il dolore che, mio malgrado, avrei dovuto infliggere a chi mi vuole bene e non mi vorrebbe lontana. Ho sentito il peso enorme della responsabilità. Verso gli altri e verso me stessa. Mi sono chiesta se potevo farcela a gestire tutto questo. Non mi sono risposta. Ho asciugato le lacrime e sono andata avanti.
Vado avanti con l'impegno a tenere in equilibrio tutto. I miei affetti, le mie passioni, il mio lavoro, la casa dove comunque vorrò tornare, la mia Roma. Sarà una faticaccia.
Ma lo sapevo in quella mattinata solitaria di fine luglio in una redazione vuota, dove non mi riconoscevo e non mi riconosco più.