martedì 1 febbraio 2011

Vi siete mai scritti una lettera?

La domanda non e' peregrina. Io l'ho fatto, tanti anni fa. Era il 1995, inizio d'anno. Avevo appena saputo che il Tg5, pur apprezzando il mio lavoro e bla bla bla, non aveva l'opportunita' di garantirmi un contratto (dovevano garantirlo ad altre due colleghe che sono ancora li', assunte in pianta stabile. Una e' la figlia di un notissimo giornalista, l'altra del proprietario di una banca legata alla capitale). In quel momento credevo che ogni possibilita' di continuare a fare questo lavoro mi venisse preclusa. Mi chiusi in bagno, piansi tutte le mie lacrime, mi ricomposi e tornai alla mia (ancora per pochi giorni) postazione e scrissi. Una lettera. A me medesima. Non la indirizzai nello spazio, ma nel tempo. Me la scrissi con l'impegno di rileggerla sono dopo che fossero passati 10 anni. Avete presente quanto sono lunghi dieci anni? Un'eternita'. La vita ti cambia completamente. In quella lettera io scommettevo con me stessa che ce l'avrei fatta. In quel momento non sapevo come e quando, ma puntavo tutto su di me. Ho chiuso la lettera in una busta e l'ho messa in un cassetto. Negli anni, ogni tanto mi ricapitava in mano e la tentazione di aprirla prima del tempo era tanta. Perche' nel frattempo avevo dimenticato le sensazioni che me l'avevano dettata, avevo dimenticato le parole che avevo usato ed ero curiosa. Mi sono tenuta la curiosita' fino al 2005 ed ho sorriso ritrovando in quelle righe una me stessa ingenua, battagliera, ancora umida di lacrime ma decisa a non arrendersi. Avevo avuto ragione e la dimostrazione e' nel post che vi ripropongo:

Ho iniziato questo lavoro quando non lo facevo ancora. Ricordo il mio primo articolo. Si trattava di un tema in classe, argomento il successo dei cartoon giapponesi e la loro influenza (deleteria, si pensava allora, quando ancora non si aveva idea di cosa sarebbe successo con i videogiochi) sui giovani. Il mio amatissimo prof mi diede un voto alto, ma il complimento migliore fu “sembra un articolo di giornale, un’inchiestina”. Sapete perché? Perché la materia mi appassionava, la conoscevo a fondo, perché ero un’appassionata di cartoon giapponesi da Candy Candy a Mazinga, Daitarn, UfoRobot, JeegRobot, Capitan Harlock. Capii allora, in modo inconsapevole, che la miglior tecnica giornalistica è la conoscenza della materia. Poi è venuto il corso di giornalismo (parecchi anni dopo, per la verità). Uno degli insegnanti, Bruno Tucci (attuale presidente dell’Ordine di Lazio e Molise) non mi amava in modo particolare. Leggeva i miei pezzi e storceva il naso. Una delusione cocente, fino a quando non ho avuto il coraggio di chiedergli il perché. E lui, non ricordo le parole esatte, mi disse che in quei pezzi non c’era personalità. Io, da brava studentessa, prendevo le agenzie e ne mettevo insieme ciò che serviva a raccontare il fatto di cronaca in questione. Tutto molto corretto e molto freddo. Pensavo che un giornalista dovesse essere così, asettico. Sbagliavo. Perché se ciò che scrivi non interessa te, non ti coinvolge, perché dovrebbe coinvolgere il lettore? Ho capito il trucco (aggiungere colore, capire il contesto, descriverlo), l’ho messo in pratica e quell’insegnante ha cominciato a sorridere quando leggeva i miei pezzi. E’ stato lui a spedirmi a fare pratica in un quotidiano. Lì ho fatto perfino la giornalista parlamentare, ho assistito alle conferenze stampa di Berlusconi a Palazzo Chigi, ho intervistato vari ministri, onorevoli, senatori. Certo, il colore dovevi saperlo trovare nelle loro parole, nelle loro contraddizioni. E ho aggiunto un elemento fondamentale per questo lavoro: la memoria storica. Un giornalista deve avere una memoria prodigiosa, ricordare nomi, date, fatti, altrimenti potranno darti a bere qualsiasi cosa. Farsi un archivio personale non è un’idea malvagia, anche se oggi Internet ci salva parecchio. Poi sono passata al tg. La sintesi l’avevo acquistata, credevo, lottando con le griglie dei quotidiani, ma la televisione vuole di tutto e di più: velocità, partecipazione, estrema sintesi ma esaustiva di ciò che stai cercando di raccontare in un minuto. E poi la scelta delle immagini che è un linguaggio a parte. Mi piaceva il tg, ma dopo qualche mese mi hanno salutato e ringraziato. C’erano altre priorità ovvero la figlia di..., la compagna di... e via di questo passo.
A quel punto sapevo molto su come si faceva questo lavoro, ma non potevo farlo. Ho avuto fortuna, la segnalazione di un collega, un posto lasciato vacante e, sempre da esterna, ho cominciato a lavorare nei settimanali nazional-popolari. Cronaca rosa, nera, bianca, sociale, divulgazione, tutto. E al mio bagaglio ho aggiunto la curiosità per le cose che mi accadevano intorno, per i fenomeni sociali, per le reazioni della gente. Un giornalista deve consumare le scarpe prima ancora che la penna (o la tastiera). E’ faticoso, ma se non vai sul posto ciò che scriverai sarà sempre monco. Da questo punto di vista i fotoreporter sono i veri giornalisti, perché le immagini le catturi solo dove avvengono, non puoi lavorare di agenzie. Usare gli occhi come macchine fotografiche, registrare le impressioni. Il giornalismo nasce per raccontare le cose a chi non c’è. Ed è solo questo che dobbiamo fare, è questo che io faccio, indipendentemente da ciò che ti impone la linea editoriale, il direttore, l’autore di riferimento. E qui arriviamo alle note dolenti (non è che vi siete addormentati nel frattempo?): le influenze esterne. Da quando faccio questo lavoro mi sono stati posti limiti nei confronti di Maurizio Costanzo (per qualunque testata si lavori, il mitico baffo è assolutamente intoccabile; non c’è scoop che regga davanti alla sua influenza), Maria De Filippi (ça va sans dir) e Antonio Ricci (il patron di Striscia è più intoccabile del Papa, è sacro, infallibile, onnisciente). Tutti gli altri, dai Presidenti della Repubblica, a quelli del Consiglio ai mostri sacri della Tv (Baudo, Bonolis, Carrà etc. etc.) sono passibili di scoop, purché si sia in grado di trovarli, provarli e pubblicarli. La manipolazione delle notizie esiste, ma forse io sono un ingranaggio troppo piccolo perché venisse chiesta proprio a me. Ho scritto contro il pizzo in Sicilia, contro lo sfruttamento degli operai della Piaggio in Liguria, contro i pregiudizi ma anche i permissivismi sui campi nomadi di Roma. Non sono un caso raro. Sono una piccolissima pedina, ma non ho mai prostituito la mia penna o le mie idee. Ho ascoltato, mi sono fatta un’opinione, ho scritto ciò che la mia piccola mente ha elaborato. Non sono stata obiettiva perché non credo nell’obiettività, tanto meno del sacro giornalismo anglosassone (le storie di clamorosi scoop premiati col Pulitzer e scoperti fasulli arrivano tutte dal mondo anglosassone). I tabloid inglesi sono la patria del trash più avanzato. No, non mi lamento di quello che siamo noi giornalisti italiani. Anzi, ci difendo, perché lavoriamo in condizioni che nessun professionista accetterebbe: senza tutele, senza soldi, senza altro riconoscimento che quello della propria coscienza, senza un futuro, figurarsi una pensione. Parlo ovviamente di noi precari a vita, ancorche' professionisti. I giornalisti assunti nelle grandi testate cartacee o televisive stanno meglio, spesso si adagiano, a volte si vendono. Ma ci sono grandissime penne tra loro, gente che fa i conti tutti i giorni con la propria coscienza. Da cosa lo capisco? Li leggo e sento da quelle righe che loro c’erano, hanno vissuto quei fatti, li hanno elaborati. A modo loro. Ma questa non è una colpa.

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