La trama – argomento, come svilupparlo
e organizzazione della scaletta
Mettiamo che vi siate sciroppati la lezione introduttiva e
che abbiate deciso che avete letto (e che continuerete a leggere) tanti di quei
libri da essere pronti a scrivere.
Mettiamo che abbiate una storia in testa e che vogliate
raccontarla.
Questa storia avrà un argomento centrale, un tema.
Ricordatevi sempre che questo non è un corso di scrittura.
Perché, se lo fosse, qui partirebbe il pistolotto più o meno lungo, più o meno
argomentato, più o meno noioso, il cui nucleo pulsante sarebbe una sorta di
primo comandamento nelle tavole della legge dell’aspirante scrittore:
Scrivi di ciò che conosci.
L’avete sentito il rullo di tamburi? E lo squillo di
tromba? Ecco, scordateveli subito. E scordatevi anche il comandamento di cui
sopra. Primo perché odio le tavole della legge; secondo perché la scrittura è
libertà. Che non vuol dire anarchia. E vado a spiegarmi.
Scrivi di ciò che
conosci è un consiglio (mai dogma, mai
diktat, mai regola, vi prego) valido. Purché non si parta dal presupposto che l’aspirante
scrittore sia, in quanto aspirante, un ignorante totale.
Il primo romanzo che Stephen King ha pubblicato è stato “Carrie”
(1974) che, come spero caldamente sappiate, si svolge in una cittadina
americana di provincia e tratta il tema del bullismo, dell’adolescenza, della
crescita e della pirocinesi. Ora l’esordiente Stephen King era sicuramente al
corrente della vita di provincia, magari meno dello scombussolamento da menarca
in una ragazzina, ma di sicuro non sapeva nulla di pirocinesi. Eppure quel
romanzo è un piccolo capolavoro, godibilissimo ancora oggi. Certo, lui è The
King. Ma se si fosse attenuto all’aurea regola dello scrivi ciò che conosci, Carrie non avrebbe dato fuoco al suo liceo
con la forza del pensiero. E noi avremmo perso un caposaldo della narrativa.
Scrivere di ciò che si conosce andrebbe interpretato
piuttosto come un approfondisci, studia, spazia, documentati. Frank Herbert di
certo non è mai stato sul pianeta “Dune” e Tolkien non ha mai visitato la
Contea degli Hobbit. Entrambi ci hanno regalato capolavori scrivendo di ciò che
non potevano conoscere. Si chiama fantasia, si chiama libertà, si chiama
creazione.
Ci siete? Bene, a questo punto la vostra storia, per come l’avete
in testa, avrà un abbozzo di trama. Inizio, svolgimento e finale. E una
lunghezza. Che vuol dire scegliere tra due forme molto diverse di scrittura:
racconto e romanzo. Un mio amico scribacchino un giorno mi disse che chi ha un
personaggio scrive un romanzo, chi ha un (bel) finale scrive un racconto. L’importante
è essere consapevoli che si può partire dall’idea di scrivere una cosa breve,
un racconto, e poi accorgersi di aver bisogno di un respiro più ampio e
ritrovarsi tra le mani un romanzo. Ma difficilmente accadrà il contrario. Un
romanzo che diventa racconto – ma è un mio parere, sia chiaro – in realtà è un’idea
abortita. Forse perché non era veramente valida. Forse perché affrontare un
romanzo non è una cosa facile, contrariamente a quello che molti esordienti
pensano. Non vi sto parlando di numero di pagine, anche se personalmente un
romanzo sotto le cento pagine lo considero una mancanza di rispetto nei
confronti del lettore. Vi sto parlando di respiro della storia e dei
personaggi. Se spulciate su Amazon, soprattutto tra le pubblicazioni self,
troverete bizzeffe di cosiddetti romanzi
brevi. Non entro nel merito della qualità, ma definire romanzo una
pubblicazione che si legge in venti minuti…
Ecco, lo avete capito. La mia idea di romanzo è corposa.
Soprattutto se siamo di fronte a un romanzo storico. Ma di questo parleremo in
un’altra (non) lezione.
Quindi avete una storia. Racconto o romanzo le cose
cambiano poco di fronte a due modus operandi diametralmente opposti.
C’è lo scrittore torrente.
Lui o lei prendono e partono. Da un incipit, da un’idea, da un personaggio, da
un sogno, da una singola parola. Non importa. Loro prendono e partono e si lasciano
portare dalla corrente.
Poi c’è lo scrittore diga.
Che prima costruisce le paratie e poi le rilascia poco a poco per lasciar
fluire le parole. La madre di tutte le paratie in scrittura è la scaletta. Gli
scrittori torrente la schifano. Gli
scrittori diga non possono farne a
meno. La scelta è di sicuro soggettiva, ma molto dipende anche dal genere di
racconto o di romanzo che intendete scrivere. Se affrontate un giallo o un
thriller, la scaletta vi serve. Potete scalciare quanto volete, ma dovete
organizzare la narrazione, gli indizi, l’escalation delle scoperte durante le
indagini. Soprattutto, e ve lo dico perché mi è successo, non cambiate il
colpevole in corso d’opera. Tipo di delitto e chi lo ha commesso e perché.
Questi sono i punti di partenza irrinunciabili per un giallo.
Bene, mettiamo che vi rassegniate a
organizzare una scaletta. Siete tenuti a rispettarla? In linea di massima sì,
ma c’è la seria possibilità che i vostri personaggi decidano altrimenti. Se
appartenete alla categoria torrente
ne gioirete. Se appartenete alla categoria diga
litigherete aspramente con le vostre creature. E alla fine vinceranno loro.
Vincono sempre, a patto che abbiate saputo crearle con un’anima,
tridimensionali, non stereotipate.
E la scaletta? Fatela flessibile.
Usatela, ma senza innamorarvene. La scrittura, quella vera, ha una propria
volontà. E un’individualità che spesso non coincide con la vostra. Scrivere per
raccontare ha molti punti in comune con un’esperienza di totale estraniazione
da se stessi. Siate disposti a farvi tramite. Di chi o di cosa non è
importante. Può essere una parte nascosta di voi, oppure può essere qualcosa
che cala da un non meglio identificato mondo delle storie e dei personaggi. Le
mani di chi scrive spesso sanno molto
più di quanto la mente pretende di dettare. È il motivo per cui le storie
vengono meglio se si scrive con la penna o si digita su una tastiera invece che
dettare a voce. Non ci credete? Provateci e ne riparleremo.
Io sono torrente. Ma torrente in piena, proprio. Mi fido dei personaggi, non li ingabbio, li lascio liberi di agire, cambiare idea, VIVERE. Perchè se non sono vivi secondo me la gente lo sente. Le rare volte in cui ho provato a dare loro garbati suggerimenti su come secondo me avrebbero dovuto comportarsi, si sono seduti e mi hanno praticamente riso in faccia. Ok, scusate, scherzavo.
RispondiElimina"Scrivere di ciò che si conosce andrebbe interpretato piuttosto come un approfondisci, studia, spazia, documentati."
RispondiElimina" Si chiama fantasia, si chiama libertà, si chiama creazione."
Finalmente!
Quanto ho adorato leggere queste parole!
Quando, diversi anni fa, iniziai a frequentare la rete per trovare consigli utili a mettere in pratica il mio desiderio di scrivere, mi imbattei in una persona che enunciò la famosa frase come fosse un dogma e, dato che in quel momento gli avevo chiesto consiglio riguardo a un racconto western, mi sentii dire "Perché perdi tempo con queste sciocchezze? Scrivi della tua terra, del tuo paese, di ciò che ti circonda" Insomma il consiglio di quella persona non solo era la morte della fantasia, ma non teneva in alcun conto il fatto che io fossi un'appassionata di western fin dalla più tenera età. Mi servì di lezione per scegliere meglio le persone dalle quali imparare. Scrivo fantasy, scrivo di mondi inventati. Mi documento sugli aspetti realistici delle mie storie e, per tutto il resto, cerco di conoscere il mondo che descrivo, curandone anche i dettagli. Questa è la fantasia e, come giustamente viene detto nell'articolo, non è anarchia.
Grazie Fernanda.
EliminaSi chiama fantasia, si chiama libertà, si chiama creazione.
RispondiEliminaCon moltissimi distinguo, forse sarei quasi d’accordo, ma consiglio a chi scriva con il desiderio di venire pubblicato di tener conto di quello che proprio oggi scrive Giulio Mozzi: checché si pensi di lui come scrittore (ormai quasi ex-), è uno che l’editoria italiana la conosce come pochi, dentro e fuori.
Non essendo statunitensi, non potete collocare la vostra storia negli Usa (sappiate che gli editori diffidano delle storie americane scritte da italiani: non ci credono, non le prendono in considerazione)
Non abbiamo scalato le classifiche (ma neanche Mozzi) e con storie di ambientazione americana siamo state pubblicate e abbiamo venduto. Poi ognuno ha i suoi gusti e le sue preferenze. Per noi resta valido il principio per cui se la storia è appassionante, i personaggi credibili e, a fine libro, resti lì a pensarci, anche Ulan Bator è un'ottima location. E poi, Ale, Mozzi tiene corsi di scrittura. Io no. I miei sono consigli non richiesti di una che ama raccontare storie. Liberi tutti di ascoltarli o non ascoltarli.
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