Hanno
proposto di aumentare le tasse universitarie in base al reddito.
Hanno proposto
di aumentare le tasse universitarie anche in proporzione agli eventuali anni
fuori corso.
Hanno proposto di mettere il numero chiuso a tutte le facoltà per
evitare un surplus di laureati inutili (come se ne avessimo troppi. Noi?).
Hanno messo test di ingresso ad alcune
facoltà, test a pagamento, ovviamente.
Vogliono, dicono, ridare valore alla
laurea. E garantire ai privilegiati, che riusciranno a superare i test di
ammissione e a mettere insieme i soldi necessari per arrivare alla fine del
corso di studi, un posto di lavoro.
Io
mi ricordo che negli anni del liceo classico, studiando, dibattendo,
partecipando ad assemblee e quant’altro, mi venne spiegato che nel paradiso
rosso dell’Unione Sovietica (c’era ancora chi lo considerava così), a tutti era
consentito di accedere all’istruzione universitaria. Ma che c’era un limite
oggettivo: se non servono ingegneri, ma medici, tu studi medicina. Se non
servono medici, ma agronomi, tu studi agraria.
Ricordo
che tra i mille difetti che già allora mi apparivano evidenti nella dittatura
del proletariato, questo mi sembrava uno dei peggiori
Mi
piaceva scrivere, già allora. Anzi, già da prima. Per questo dopo le medie
scelsi il classico. E feci il liceo classico pensando alla facoltà di Lettere.
State sogghignando? Beh, sogghignavano anche allora. Erano i tempi in cui
andava per la maggiore Economia e Commercio e un buon 70% dei miei compagni di
maturità si indirizzarono verso dichiarazioni dei redditi e partita IVA. Io no.
Io tenni duro. Mi dissero: che ci fai con la laurea in Lettere? Di insegnanti
ce ne sono anche troppi e poi guadagnano una miseria. Vero, ma io non volevo
neanche fare l’insegnante. Io volevo scrivere. Non che la facoltà di Lettere
avesse un corso di scrittura, ma volevo studiare le materie che mi sentivo e mi
sento affini: storia e letteratura.
Sebbene
viga, ancora oggi, la inveterata convinzione che una laurea in Lettere sia
praticamente regalata, un percorso da bamboccioni pigri, fu dura.
Gli
esami erano 20, all’epoca. Non c’erano crediti. C’erano libri da studiare, una
marea di libri per ogni esame. Ricordo la prima annualità di storia dei partiti
politici, docente Paolo Spriano. Dodici volumi dodici, nessuno al di sotto
delle 200 pagine, molti al di sopra. Ricordo i seminari: di latino medievale con
Raul Manselli; di storia moderna con testi in spagnolo, docente Rosario Villari.
Ricordo la passione per la storia dell’India e dell’Asia centrale e quella per
storia della Russia e dell’Europa centrale. Ricordo una sfilza di 30 e lode, di
30, un 29 e un 27 (storia contemporanea con Giuliano Manacorda) che tentai
invano di rifiutare. Ricordo la passione. Ricordo la delusione quando un
infarto, credo, si portò via Paolo Spriano e la tesi che avrei voluto
chiedergli. Tutto da rifare.
Fuori
corso? Sì, senza vergogna alcuna lo ammetto. Ma mi sono laureata con 110 e lode
in storia del Risorgimento con una tesi su Giuseppe Rovani, giornalista e
scrittore della Scapigliatura nella Milano del 1870. Relatore Giuseppe
Monsagrati.
Rifarei
ogni singolo esame. Li ho amati tutti, nonostante mi abbiano fatto sudare. Il
giorno dopo essermi laureata, andai a sostituire per il periodo estivo un
portiera in un condominio romano. Sapevo che volevo scrivere e scrissi, non ho
mai smesso. Intanto facevo la precaria portalettere, la precaria impiegata allo
sportello, la venditrice di libri porta a porta, l’agente assicurativo a
provvigione, la segretaria in una tipografia e la dattilografa a cottimo in un’altra.
Dovevo battere per la stampa offset testi in spagnolo e il latino.
Dice:
e la laurea a che ti è servita? A essere quella che sono, con un bagaglio
culturale di tutto rispetto nell’attesa dell’occasione buona. Arrivò con un
corso di giornalismo finanziato dalla Comunità Europea. Una borsa di studio.
Sostenni l’esame, lo passai. Iniziarono gli stage, le collaborazioni. Iniziò
tutto quello che mi ha portata, oggi, a fare esattamente quello che volevo fin
dai tempi delle medie.
Non
volevo studiare Economia e Commercio. Non l’ho fatto, a mio rischio e pericolo.
Ritengo ingiusto imporre una strada a coloro che si sono appena maturati.
Ritengo ingiusto alzare il costo dell’istruzione.
Ritengo ingiusto punire chi
si trovi fuori corso.
Ritengo ingiusto ritenere un corso di laurea un ufficio
di collocamento.
La laurea non può e non deve garantire un posto di lavoro.
Deve essere, prima di tutto, accrescimento personale. E deve essere alla
portata di tutti perché l’istruzione è un diritto, non un percorso a ostacoli
per famiglie danarose. La meritocrazia, sacrosanta, non si ottiene punendo chi
va fuori corso, oppure mettendo sbarramenti all’accesso in facoltà. Perché non
saranno i più bravi a entrare, ma i più ammanicati. Lo sappiamo tutti e allora
perché non dircelo chiaramente?
Sono d'accordo quasi con tutto. Un pochino di meno sul fatto di non far pagare ai fuori corso.
RispondiEliminaAi fuori corso un pochino di più farei pagare, aumentando man mano che aumentano gli anni fuori corso; perché c'è gente che ha preso l'Università per un parcheggio comodo, tanto ti mantengono mamma e papà - non parlo di chi studia e lavora, ovviamente...
accidenti! sei una forza d'entusiasmo e volontà! Marina
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