Le vite umane dovrebbero avere tutte lo stesso valore. Quelle salve e quelle ormai perdute. Ma constatiamo giorno per giorno che il valore di una vita umana non è assoluto. È soggetto a variabili. Abbiamo seguito, pur da posizioni differenti, l'ormai annosa vicenda dei due marò italiani, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. In due parole, i nostri soldati hanno sparato e hanno ucciso, per errore, due pescatori indiani. Due vite sono andate perdute e gli errori si pagano. Si chiamavano Ajesh Pinky e Selestian Valentine. Incertezza sull'esatta grafia dei nomi e sulle effettive età, ma poco cambia. Un ragazzo Ajesh e un uomo Selestian. Avevano famiglie, figli. E sono morti per niente, per un errore di Massimiliano e Salvatore. È morto per un errore, per lo stesso tipo di errore, un altro giovanissimo pescatore indiano Thiru A.Sekhar. Anche lui si trovava a bordo di un peschereccio, in acque internazionali e qualcuno, senza volto e senza nome, gli ha sparato dalla nave da guerra americana Rappahannock. Incidenti uguali, ma la vita di Thiru valeva 9000 dollari, contro i 145mila euro ciascuno versati dall'Italia alle famiglie di Ajesh e Selestian. Valeva una telefonata di condoglianze tra ministri degli esteri, contro una gogna mediatica senza precedenti. Valeva un "son cose che succedono" contro la velata minaccia di un possibile ricorso alla pena di morte per i nostri marò. Differenze. Le abbiamo potute vedere anche su orizzonti più ristretti. I nostri. Era il 2007, a Roma. Un banale diverbio. Un ombrello impugnato. La romena Doina Matei aveva 21 anni, la romana Vanessa Russo ne aveva 23. Morì per la lesione riportata dal puntale dell'ombrello nell'orbita oculare. Sognava di fare l'infermiera mentre Doina, già madre di due figli lasciati in patria, si prostituiva qui da noi per mantenerli. Una vita perduta, Vanessa, una vita rovinata, Doina. Una sentenza della Cassazione le ha confermato i sedici anni di carcere che sta scontando già da sei. Gli errori si pagano. Le vite valgono. Ma non tutte allo stesso modo. Perché Doina non voleva colpire in quel modo, esattamente come Alessio. Era il 2010, a Roma. Un banale diverbio. Un pugno dato per reazione. Ma il romano Alessio Burtone è un ragazzo di 20 anni, forte e palestrato mentre la romena Maricica Hahaianu ne ha 32, è mamma di un bimbo di tre anni, di mestiere fa l'infermiera e quel pugno lo prende in piena faccia. Cade, batte la testa. Muore sei giorni dopo, senza mai essere uscita dal coma. Alessio, proprio come Doina tre anni prima, si allontana dalla propria vittima, fugge. Ma le telecamere di sorveglianza lo inchiodano, proprio come inchiodarono Doina. E gli errori si pagano. Perché le vite valgono. Solo che, a conti fatti, la vita della romana Veronica vale il doppio di quella della romena Maricica. Perché Alessio è stato condannato a nove anni, pena ridotta in appello a otto e con la concessione, il mese scorso, degli arresti domiciliari. Il marito di Maricica non ha avuto la forza di protestare. Lui lo sa come vanno le cose. E adesso lo sappiamo anche noi.
Laura Costantini
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