La politica è sempre stata cosa complessa e poco lineare. È questo l'insegnamento che si ricava dalla visione di un grande film, non abbastanza premiato dall'accademia degli Oscar. Il "Lincoln" di Steven Spielberg, con la maestosa interpretazione di Daniel Day Lewis, è una lezione di storia, di gestione politica, di attualità. Com'è noto, il presidente Abraham Lincoln si trovò a gestire uno dei momenti più difficili nella storia dell'allora giovanissima democrazia statunitense. Una guerra fratricida, protratta per quattro anni. Le scene di battaglia, poche, sono estremamente efficaci nel rendere l'orrore e l'inutilità di una strage tutta giocata su opposte esigenze economiche. Al centro l'istituzione della schiavitù che, su basi ideologiche e religiose irrazionali e pretestuose, difendeva la possibilità, per il sud degli Stati Uniti, di avere infinita manodopera a costo zero per la produzione di cotone. Perdere gli schiavi avrebbe significato, e significò, la fine di un intero sistema economico basato sullo sfruttamento, sulla miseria di tanti per la ricchezza di pochi. Per questo si combatté. E a questa logica non si piegò il presidente Lincoln, a costo di venire a patti con se stesso, di scendere a compromessi pesanti, di ricorrere alla corruzione. Sì, la stessa che oggi, e da troppo tempo, noi tocchiamo con mano assistendo impotenti a confessioni e volta faccia che altrove avrebbero determinato l'immediata scomparsa degli attori dalla scena politica. Come sappiamo, Lincoln vinse la sua battaglia. La pagò con la vita, ma all'esordio del suo secondo mandato riuscì a far approvare dalla recalcitrante Camera dei rappresentati il tredicesimo emendamento alla Costituzione. Quello che metteva fuori legge la schiavitù, liberando quattro milioni di individui, fino a quel momento trattati come bestie. Ciò che il film di Spielberg spiega è come, partendo da una risicatissima maggioranza repubblicana, Lincoln riuscì a procacciarsi il margine di voti favorevoli che gli serviva. Voti di scambio, promesse di uffici pubblici e una battuta, affidata a Tommy Lee Jones nei panni di un deputato repubblicano convinto abolizionista, che riassume il ruolo storico coscientemente svolto dal presidente Lincoln. A poche ore dall'approvazione del tredicesimo emendamento, passato con una manciata di voti e di astensioni strategiche da parte dei democratici venduti alla causa repubblicana, il vecchio deputato torna a casa, dalla donna che ama. Una donna nera che, ufficialmente, è solo la sua governante. E nell'intimità domestica le porge il documento ufficiale della votazione e le confessa che quell'enorme e storica vittoria, è frutto "della corruzione e della volontà del più puro degli uomini". Non fu un santo, Lincoln. La ricostruzione storica rende chiaro che accettò che la strage fratricida si protraesse per altri tre mesi pur di rendere possibile la votazione del tredicesimo emendamento. La messa al bando della schiavitù gronda sangue e infedeltà politica. Eppure lo scopo era tale e tanto da rendere accettabile il metodo. I corruttori e corrotti di oggi non potrebbero mai dire altrettanto.
Laura Costantini
Quando l'ho visto ho pensato che non c'è modo di fare una politica pulita al 100%. però se si deve corrompere e sacrificare, almeno che sia per un ideale come questo.
RispondiEliminaIl confronto con i nostri politici viene quasi scontato.