Lo strano caso della fioraia di West Norwood
La bettola preferita di Arthur Dempsey sorgeva alle spalle
della sede di Scotland Yard. E non era un caso, visti i contatti che foraggiava
tra gli agenti della polizia metropolitana di Londra e gli inservienti dell’annesso
obitorio diretto da Sir Lisander Orwell. Non si stupì, entrando in quel
pomeriggio piovoso, di scorgere la nota sagoma di Oliver. Arthur scosse contro
la coscia il cappello zuppo di pioggia, passò un fazzoletto sul volto e
affrontò l’atmosfera fumosa e gravida di effluvi umani della bettola.
“Te lo fai un altro giro?”, chiese sedendo al tavolo occupato
da Oliver.
L’uomo, portantino della Morgue e informatore prezioso, non
alzò neanche la testa per accettare. Arthur fece cenno all’oste.
“Hai qualcosa per me?”, chiese offrendogli da fumare.
“Solo se hai voglia di ascoltare una storia strana. Tanto
strana. Una di quelle che i lettori del tuo giornale non crederanno mai”
La voce era impastata dalle libagioni. Ma Arthur lo conosceva
bene. E percepì l’ostacolo tra lingua e palato: paura. Oliver era spaventato a
morte.
“Sono le storie migliori. Qualche cadavere
si è ribellato al bisturi del dottor Orwell?” scherzò.
La mano massiccia dell’uomo scattò,
contraddicendo la fissità mantenuta fino a quel momento, e artigliò
il braccio di Dempsey.
“Non prendermi in giro, non stavolta, per Dio!”
Il cronista non si ribellò al contatto. Attese. La presa si
sciolse e l’arrivo della birra distese per un attimo l’atmosfera. Intorno a
loro il brusio delle voci, qualche rutto, l’esultanza di un tiro fortunato a
freccette. Oliver si mosse, infilò una mano all’interno della giubba che
puzzava di cane bagnato.
“Venti scellini”, biascicò. “Venti scellini o non se ne fa
niente.”
“Lo sai che non compro a scatola chiusa, Oliver. Che nascondi
lì dentro?”
Il portantino prese un lungo sorso di birra. Si pulì il labbro
superiore sulla manica della giubba, poi pose sul tavolo una busta
stropicciata.
Arthur sollevò il lembo ed estrasse una fotografia. Nella luce
incerta della bettola fu costretto a piazzare sul naso gli occhiali per capire.
Una tomba, una di quelle che venivano ingabbiate con una grata di ferro. Una
protezione contro le sempre più frequenti razzie ai danni delle tumulazioni
signorili. Questa la motivazione reale. Ma Dempsey sapeva che il popolino amava
le storie macabre e che ogni tomba chiusa dalla grata diventava il riposo molto
poco eterno di morti con la strana propensione a uscire dal loculo per
tormentare i vivi. Vampiri, per lo più. E proprio un’illustrazione da penny
dreadful sembrava quella foto. Tra il terreno e la grata c’era una donna.
Difficile distinguerne le fattezze in quella foto dalla stampa granulosa. Ma
l’espressione di quel volto fatto d’ombre era terrorizzata, le mani
artigliavano la grata, come se la volessero scardinare per potersi sollevare e
fuggire, la bocca era spalancata, una grande O indistinta, in un urlo muto.
Dempsey tolse gli occhiali e guardò Oliver.
“Che significa?”, chiese senza restituire la foto.
“Venti scellini.”
Il cronista ne mise dieci nel palmo calloso.
“Per il resto vediamo. Allora, che storia è?”
Oliver incassò il denaro, prese un altro sorso di birra e confuse
un sospiro con un rutto.
“Si chiamava Cheryl e vendeva fiori per
sbarcare il lunario. Magari non vendeva solo quelli, ma è certo che le rose che
proponeva ai passanti le rubava. Dalle tombe. Anzi, da una tomba. Quella della
foto. Una morte recente, di una gran signora. Il guardiano del camposanto era
amico di Cheryl e dice che la gabbia serviva a proteggere la salma. Era una
donna ricca e l’hanno seppellita con addosso i gioielli. Ma la gente racconta
una storia diversa. Dice che la gabbia serve a tenere a bada la malvagità di quella
donna che ha spezzato molti cuori. E tutti giorni, sulla tomba, arrivavano rose
bianche e rosse. Sembravano schizzate di sangue. Cheryl lo sapeva e le rubava
per rivenderle.” Altro sorso di birra. “Ma la donna sepolta non era d’accordo.”
Oliver alzò gli occhi in quelli di Dempsey. “Nessuno sa spiegare
come è successo. La gabbia di ferro battuto è saldata e nessun corpo umano può
infilarsi lì dentro. Non tutto intero, per Dio. Eppure ieri mattina il
guardiano ha trovato Cheryl in quel modo. Dentro quella fottuta gabbia, le mani
aggrappate alle sbarre, gli occhi spalancati per il terrore e la bocca aperta.
Ma non ha urlato, capisci? Non poteva. Sir Lisander ha detto che è morta
soffocata. Qualcuno o qualcosa le ha cacciato in gola rose, tante, col gambo,
le spine, le foglie, tutto. Quelle rose. Quelle bianche schizzate di sangue. Le
rose che lei rubava alla morta.”
La storia c’era tutta, pensò Arthur mentre il portantino
scolava il boccale.
“Voglio vedere la fioraia. Nella foto questa cosa delle rose
non si distingue. Devo verificare.”
Oliver si strinse nelle spalle.
“Dammi i dieci scellini che mancano e torna stanotte.”
La solita prassi. Il cronista pagò. Uscì dalla bettola e attese
in redazione che il buio finisse di addensarsi su Londra insieme alla nebbia e
ai fumi dei comignoli. Oliver, più ubriaco di come lo aveva lasciato, lo
aspettava per aprire la porta di servizio dell’obitorio. Un reciproco cenno
della testa fu tutto ciò che si concessero, poi l’uomo lo guidò lungo il
corridoio fino alla sala dove i corpi di morti ammazzati, suicidi e poveracci
caduti sotto i colpi della fame, attendevano di essere ammassati in una
sepoltura comune. Arthur mise davanti a bocca e naso un fazzoletto spruzzato di
olio essenziale per resistere al fetore mentre sfilavano tra le barelle.
“Eccola”, annunciò Oliver indicando una sagoma sotto un telo.
“Era bella, da viva.”
Poi alzò la lampada e la scoprì. Fu il primo a urlare. Dempsey
mise più di qualche istante a capire cosa stesse guardando. Rovi, rami, tralci
spinosi. Appena la luce della lampada li rese distinguibili, cominciarono a
muoversi come serpi, serrando le membra illividite da cui traevano nutrimento.
Ciò che restava di Cheryl era ancora visibile nel volto e l’urlo che Arthur
aveva trattenuto fiorì come la bocca disarticolata della morta. Una rosa. Una
piroette subitanea di petali candidi, vellutati e osceni si schiuse tra quelle
labbra cianotiche. E rivelò un vortice scarlatto e palpitante. Vivo.
Mi chiedo la ragione di aver ambientato la storia a Londra, forse per usare la suggestione della nebbia londinese.
RispondiEliminaCredo che la location romana avrebbe offerto maggiori scelte narrative, oltretutto con una location unica: piazzale del Verano. Ci sono le fioraie, il cimitero, l'istituto di medicina legale e le cantine del Quartiere San Lorenzo a due passi.
Non mi ha convinto, troppo banale e troppi luoghi comuni.
Raffaele Abbate