Era tremendamente tardi e Francesco Corsi aveva le
palpebre pesanti nonostante l’adrenalina circolasse ancora a torturargli il
cervello. Ore surreali si erano inseguite a cascata, scandite dalle sirene:
quella della sua macchina all’impatto, poi la polizia, l’ambulanza e anche in
pronto soccorso… e dire che aveva desiderato solo tornare a casa, al caldo, per
stiracchiare i muscoli sotto le coperte. Ma non era stata la stanchezza; era
ben sveglio quando quella, che giurava fosse una donna, gli era apparsa davanti
al cofano per poi schizzargli sul vetro. L’aveva vista protesa verso qualcosa,
in direzione del bosco che svettava a bordo strada. Ne ricordava i contorni
rigidi del viso, riempiti da grandi occhi scuri, fin troppo, simili a due buchi
neri, e gli sembrò che stesse ringhiando. Ricordava la canzone alla radio
– The dark side of the moon – e il
cellulare che vibrava a vuoto sul sedile del passeggero, con il nome di Marta
che lampeggiava chiedendogli quando si sarebbe sbrigato a tornare. Poi la
frenata, un botto terribile e la cintura di sicurezza che, togliendogli il
fiato, gli aveva annebbiato i sensi. Istanti? Minuti? Non sapeva dirlo. In
preda al panico, era sceso aspettandosi di trovare la donna scaraventata chissà
dove, incosciente e sanguinante, non di certo un uomo sporco, peloso e mezzo
nudo che rantolava nel suo vomito. Aveva chiamato i soccorsi e, nell’attesa
dilatata dall’angoscia, aveva continuato a guardarsi intorno, mentre gli ultimi
bagliori di tramonto si perdevano dietro le colline lasciando spazio alla
nebbia. Nessuna luce, nemmeno in lontananza, nessuno che passasse, un deserto
buio rotto dall’antifurto che continuava a urlare disperato.
E il rumore continuò
a trapanargli la mente per ore, anche mentre veniva interrogato dagli
agenti e quando i medici gli assicurarono che l’unica ferita trovata sull’uomo
non poteva essere imputata a lui, che quell’uomo non era mai stato investito o,
per lo meno, non quel giorno.
Furono rumorosi anche quando, con una pacca sulla
spalla, lo rimandarono a casa; sembrava quasi che avessero fretta di
toglierselo di torno.
Tentò di insistere – Su quella strada c’è una donna
ferita! Potrebbe morire… potrebbe essere già morta! Perché non volete credermi?
– ma di rimando ebbe solo sbuffi impazienti di sanitari e poliziotti con
un’espressione ebete che aveva del soprannaturale.
- Ma quale donna? Sarà stato un cinghiale. Lo shock fa
brutti scherzi, signore, sono solo fantasie, allucinazioni. Si riposi e vedrà
che passeranno – dicevano – Lei è un eroe, signor Corsi e il tizio è stato
fortunato, se l’è scampata per un pelo! Ora si rilassi! –
Rilassarsi? Erano proprio dei coglioni! Come poteva
rilassarsi? Chi avrebbe potuto riuscirci?
Invece, una volta fuori dall’ospedale, sentì la mente
spegnersi con un click e la stanchezza invaderlo, come se qualcuno si fosse
impadronito della sua coscienza facendola zittire.
La macchina era distrutta ma la distanza che lo
separava dal suo appartamento era accettabile; con un inaspettato senso di
leggerezza, preferì evitare il taxi e andare a piedi per respirare a fondo l’aria della notte e
tentare di tornare, passo dopo passo, alla realtà. Forse il colpo o la paura
l’avevano davvero stordito e gli occhi ingannato. La testa ora era più leggera,
vuota, e a metà strada si era quasi convinto che la priorità non fosse chi o
cosa avesse investito ma spiegare a Marta che la sua cara Pandina non aveva
altro futuro se non la rottamazione.
L’aria, però, era davvero troppo fredda e pareva
diventarlo sempre di più a ogni metro, come un alito ghiacciato sulla nuca e
poi… la sensazione di essere osservato.
Si rese conto di averla sempre avuta; più blanda,
latente, mascherata dai rumori, ma lì, presente, e il suo sesto senso l’aveva
avvertita per tutta la sera. Tentò di allontanare questi nuovi pensieri alzando
il bavero del cappotto e allungando il passo ma, di sicuro, non avrebbe
dimenticato quel giorno: non un fatto o una persona che avessero seguito un
senso logico, forse era quello a dargli i brividi. Da buon ingegnere era abituato
a un mondo matematico, ma gli stava impazzendo sotto gli occhi e si sarebbe
sentito matto anche lui se, arrivato a casa, avesse seguito il suo primo
istinto, ovvero scappare.
L’aria fredda sembrava provenire proprio da lì.
Afferrò la maniglia ma le sue mani erano scosse da spasmi di incertezza che gli
impedivano di girarla. Quindi respirò a fondo e chiuse gli occhi.
– Francesco, non essere stupido – si disse – Ora ti
calmi, ti dai una mossa ed entri. Ti prepari una bella tazza di tè e a Marta ci
penserai poi. Tanto a quest’ora starà
dormendo e, se non fai casino, si incazzerà domani a colazione come al solito.
È fatta così, la conosci. – e per una volta ne fu contento.
Finalmente aprì la porta.
Compiaciuto dal calore che lo avvolse, prese a
ridacchiare di se stesso; si era proprio comportato come un bambino che ha
paura dell’orco cattivo. – Stupide fantasie! –
Abbandonò le scarpe sullo zerbino e, senza accendere
le luci, si lasciò guidare dalle mani, lungo il muro, fino alla cucina dove
trovò la teiera e la mise sul fuoco.
Bastarono pochi minuti. Con la tazza bollente a
coccolarlo e un risolino isterico scaricò definitivamente la tensione e si
sentì pronto ad andare a dormire.
Nella stanza, deboli raggi di luna filtravano
attraverso le tapparelle lasciando intuire appena il profilo di Marta sotto le
coperte. Era una donna ancora molto bella, nonostante i segni dell’età che le
cesellavano delicatamente il viso; le davano fascino e l’avrebbero potuta
rendere amabile se l’età stessa non gli avesse indurito il cuore. Si tolse i
vestiti facendoli scivolare a terra e, per evitare di far rumore, non tentò
nemmeno di cercare il pigiama; si infilò così com’era nel letto.
Chiuse gli occhi sperando di addormentarsi ma un odore
sgradevole aleggiava nella stanza. Ma che diavolo si è messa addosso? Puzza
da morire! pensò voltandosi a dare le spalle alla moglie, ma una mano prese
a scivolare lungo il suo fianco. Cavolo, l’ho svegliata! Adesso parte con la
lagna e non si dorme più.
Immaginò che sarebbe stato meglio giocare in attacco.
– Oggi è stato un vero incubo, una giornata priva di
senso, assolutamente snervante. Non ce la faccio più! Lasciami stare! Ne
parliamo domani. –
Ma a tuonargli accanto fu una voce rauca che non
poteva essere quella di Marta.
– Invece ne parliamo adesso! Hai lasciato che il mio
nemico, il lupo, sopravvivesse e questa è la mia vendetta! –
Francesco Corsi si girò di scatto perdendosi nei due
occhi, scuri come buchi neri, che lo stavano fissando. Un urlo disperato si
spense prima che potesse raggiungere la gola e la sua anima scivolò via,
risucchiata in un vortice buio; inghiottita e persa per sempre mentre la furia
stridula della banshee riecheggiava nella notte, tra i palazzi, per le strade,
e poi giù fino al bosco dove la donna scomparve tra le maglie della nebbia.
Al mattino il signor Corsi fu trovano seduto sul
letto, con lo sguardo vuoto, a dondolarsi davanti al corpo della moglie
inchiodato alla parete.
– È pazzo! – fu la sentenza quando serrarono la porta
della cella per non riaprirla mai più.
Nessun commento:
Posta un commento
I commenti non espressamente firmati e/o sgradevoli verranno cancellati dalle proprietarie di questo blog.