Bella
era bella.
Era minuscola e perfetta. Faceva seconda liceo. Rideva tanto, ascoltava musica
celtica, quando ancora non era di moda, andava a teatro e camminava in montagna
come un alpino.
In un anno l’aveva vista con la gonna due o tre volte, non di più. Aveva otto
di latino e greco e faceva schifo di matematica, ma era intelligente e un sei a
fine anno lo raccattava sempre. E aveva delle tette da urlo.
Sapeva di essere bella? Immaginava di essere desiderata da molti?
Non aveva saputo dirlo allora e non lo sapeva neppure adesso. A volte pareva
giocare e invece era seria, unica ragazza, il lunedì, a commentare con perizia
i risultati calcistici della domenica. Ne aveva sempre due o tre intorno, pareva
sincera quando sosteneva che fossero amici.
Per scoparsela aveva convinto il consiglio di istituto dell’opportunità di
portare una quinta ginnasio in gita sulla costiera amalfitana, insieme alle
classi del liceo.
Cinque giorni. Gliene erano bastati due.
Venticinque anni, supplenza annuale: italiano, latino, greco, storia e
geografica, praticamente il signore assoluto della quinta ginnasio.
Liceo della buona borghesia cittadina, luogo di tradizioni, di ordine
costituito, di muffa e un po’ di noia. Si sfilava la giacca al suono della
campanella, rimaneva in jeans, t-shirt e gilet di stoffa, l’aria un tantino
dandy e scendeva a giocare a pallone in cortile invece di rintanarsi in sala
professori.
Faceva dei culi a cappello da prete, infieriva con cinque versioni di castigo
per il giorno successivo, ma era un mito: per le ragazzine perché era bello,
per i loro compagni perché era un figo.
Era sopportato dal corpo docente e dal preside perché era bravo, preparato ed
entusiasta, ma guardato con sospetto.
Portava gli studenti ai cinema d’essai, rendeva rock la tragedia greca, di
Catullo leggeva i componimenti audaci, mimava l’assalto al villaggio di Platoon
ed era più vicino ai ragazzi della maturità che ai suoi colleghi.
Si trovava in quella terra di mezzo quando si era accorto di lei.
Di tutti gli occhi adoranti che lusingavano la sua prepotente vanità, era stato
catturato da quegli sguardi sfuggenti che non volevano dargliela vinta, ma che
scappavano al controllo e lo seguivano per i corridoi.
Un quadrimestre a girarsi intorno. A sfiorarsi, per caso, con le gambe nel buio della sala cinematografica. Giulia,
la sua fidanzata, seduta a fianco che gli cercava la mano.
Mesi a ridere di una barzelletta, a discutere sull’interpretazione di un
frammento di Saffo, a far finta di non sentire i commenti sulla prof di
filosofia. Giorni a raccontare a se stesso e a Giulia che era solo l’entusiasmo
del giovane insegnante che consegnava troppo spesso le loro serate, i loro dopo
teatro, a un gruppo di studenti.
E lui baciava Giulia e la baciava forte, davanti ai ragazzi, fra un sorso di
birra e un morso al panino e cercava quegli occhi che lo sfidavano senza mai
concedersi e non li trovava. In quei momenti non li trovava mai. C’erano tutti,
gli sguardi: quelli ammirati dei ragazzetti brufolosi della sua classe, quelli
compiaciuti dei più grandi e quelli invidiosi delle ragazze. Non c’erano i
suoi.
Probabilmente sarebbe rimasta una fantasia destinata a svanire con il rintocco
della campanella sull’ultimo giorno di scuola se la gita a Sorrento non avesse
corso il rischio di saltare.
«Pietro,
ci devi salvare. Quella stronza della Fusier…»
La Fusier, collega di matematica, era una zitella acida ed effettivamente era
stronza, ma si era sentito in dovere di intervenire.
«Vediamo di non esagerare, eh!»
L’espressione seria comparsa sul suo volto aveva, in parte, quietato l’animo
degli insorti.
«Si è tirata indietro, non ci accompagna in gita. La Siri e De Marchi da soli
non bastano. Se non troviamo un altro prof disponibile il preside dice che non
possiamo partire»
«E dovrei accompagnarvi io?» il sopracciglio sollevato dubbioso non era molto
rassicurante.
«Dai cazzo, abbiamo sempre fatto gite da sfigati. Questa è l’ultima prima della
maturità, abbiamo organizzato tutto noi, è tutto pronto e approvato. Non ci
tradire anche tu»
«Ci devo pensare e comunque è una gita del liceo, io insegno al ginnasio»
«Porta anche i tuoi piccoletti» era stata la soluzione che gli avevano
suggerito in coro.
«E che ci vuole, porto anche i piccoletti» si era ripetuto infilandosi in sala
professori per prendere i testi di greco.
Lo sapeva. Lo sapeva benissimo e non aveva fatto niente per impedirlo.
La vecchia Siri se ne era accorta. Lo ricordava ancora: sala tv dell’albergo,
undici passate, stava guardando la finale del Roland Garros e Siri era entrata
irrompendo:
«Cosa ci fate ancora in giro? Tutti in camera, veloci»
«Sono con me»
«In camera anche tu!»
A Minori, i primi di maggio, non è che ci fosse tutta questa folla.
La discoteca, uno stanzone con qualche luce stroboscopica e una saletta con un
grande biliardo, la occupavano tutta loro, se si escludeva qualche curioso
infiltrato autoctono. Si era fatto convincere e li aveva accompagnati. Siri e
De Marchi già dormivano in albergo.
Ai maggiorenni aveva concesso una birra, sui minorenni vigilava che non
consumassero alcool, la musica non gli piaceva e si era bevuto un rhum
scadente.
Faceva caldo, stava per dare il rompete
le righe e tutti a dormire, quando era stato coinvolto in una partita a
carambola. Forse era stato un caso o forse no, c’era anche lei.
Come in un film di quart’ordine aveva passato la successiva mezz’ora a
mostrarle i rudimenti.
Non facevano neanche più finta che le strusciate, gli sfioramenti, le mani
sulle mani per indirizzare la stecca fossero casuali. Aveva un buon profumo e
l’avrebbe stesa lì, su quel panno verde, invece si era limitato a metterla
seduta, sul bordo del tavolo, dopo averla sollevata per festeggiare un buon
colpo e la fine della partita. Poi erano suonati i lenti e si era dimenticato,
definitivamente, di essere il professore si era lasciato prendere per mano e
condurre in mezzo alla pista.
Non era stato il pensiero di Giulia, ma la precisa sensazione che tutti li
stessero fissando che, in un barlume di lucidità, gli aveva impedito di
baciarla.
Non gli aveva impedito, però, più tardi, di portarsela in camera.
Era stata sottile, dopo il lento lo aveva lasciato ed era tornata a
chiacchierare, ovviamente di lui, con le amiche. Una volta in albergo, però,
era rimasta indietro, ultima a salire le scale.
«Coraggio prof, non sei il primo…»
«Se mi chiami ancora prof mi si ammoscia, ritorno in me, e ti spedisco in
camera tua»
«Pietro, Pietro» si era affrettata a dire e poi non avevano più parlato un
granché.
Il giorno dopo gli dava di nuovo del Lei, lo chiamava prof, ma lo guardava
dritto negli occhi.
«Ha visto prof la traduzione del Monti, un manoscritto della prima stesura
dell’Iliade»
In contemporanea avevano allungato il capo sulla teca del Museo Nazionale di
Napoli e al riparo dagli sguardi altrui si erano sfiorati il dorso della mano,
intrecciando le dita per un attimo.
«Cantami, o Diva, del pelide Achille l'ira
funesta che infiniti addusse lutti agli Achei» aveva declamato lei e a lui
era sfuggito un sincero: speriamo bene.
Erano stati attenti, una volta rientrati a casa, ma l’atteggiamento di quella
notte in discoteca li aveva traditi, tempo qualche settimana qualcuno aveva
parlato, così l’ira funesta del preside si era abbattuta, affilata, su di lui. Era
forse impazzito? Quello era un liceo rispettabile, i genitori gli affidavano i
figli per istruirli, non per sedurli. Era una studentessa e lui un professore. Lo
avrebbe volentieri denunciato, ma Irene aveva compiuto diciotto anni da tre
mesi e quindi era salvo. Dalla legge, non dal ludibrio e dall’ostracismo.
Aveva provato a difendersi. Non era una sua studentessa e lui non era il suo
professore, li separavano solo sette anni, se si fossero incontrati altrove
nessuno ci avrebbe visto niente di male. Non l’aveva sedotta, si erano
innamorati.
Non c’era stato nulla da fare. Irene non era più tornata a scuola, il padre, un
noto avvocato, lo aveva formalmente diffidato dal cercarla e l’aveva spedita
all’estero per l’estate. Lui, in qualche modo, aveva concluso l’anno
scolastico, aveva perso Giulia, aveva perso Irene e aveva perso il lavoro. Il
preside gliel’aveva promesso e in effetti non erano spuntate altre supplenze
decenti per l’anno successivo.
L’avevano salvato le sue amate lettere antiche.
Alla Loescher non interessava un piccolo scandalo cittadino e,
grazie alla segnalazione del suo professore dell’università, gli aveva
commissionato l’edizione critica del De
rerum naturae di Lucrezio.
Quattro anni dopo aveva una cattedra – a contratto - di letteratura latina alla
University of Kent di Canterbury, aveva rimesso in piedi la sua vita e si apprestava
al tour de force della sessione estiva.
«Prego si accomodi» stava finendo di compilare il registro, non aveva alzato lo
sguardo sullo studente davanti a lui e in automatico aveva detto:
«quarta egloga, sesto verso, inizi a tradurre da lì»
«Cantami o Diva …» Che diamine stava dicendo, ‘sta qua?
«Ho detto quarta egloga, sesto verso. Bucoliche, Virgilio» aveva ripetuto
leggermente alterato e aveva sollevato lo sguardo dal registro.
Irene.
«Buongiorno prof» e lui aveva fatto fatica a deglutire.
«Traduca quello che le ho chiesto» aveva ribattuto cercando di mantenere la
voce ferma e poi sottovoce, in italiano: cosa
diavolo ci fai qui?
«Ho seguito il consiglio di mio padre, termino gli studi in Inghilterra» gli
aveva risposto seria, mentre iniziava a tradurre. L’aveva interrogata per una
ventina di minuti e il voto non gliel’aveva certo regalato.
«Ti aspetto al pub qua fuori» gli aveva detto prendendo il libretto dalle sue
mani.
«Ne avrò per un po’»
Aveva scosso le spalle e gli aveva sorriso: «Lo so, ho tempo»
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