Il
terzo anno di liceo cominci a sentirti maschio, sei nella via di mezzo, inizi a
non essere più deriso dai grandi, specialmente se hai la fortuna di essere
bello alto – ché la nonna dice: “è mezza bellezza”, e almeno metà ce l’hai assicurata
– e di poter guardare negli occhi anche quelle di quarta che non puzzano di
latte.
In
vicolo Palminteri ci passavo ogni giorno da quando ero uscito dalle medie, era
la strada da fare per raggiungere il liceo. Ero imbarazzato dagli ottoni lucidi
dei citofoni, dai portieri dei palazzi in livrea, ché il mio custode al massimo
teneva una giacca grigia come i topi che passeggiavano in cortile e che gli
somigliavano così tanto che eravamo convinti non li cacciasse perché erano suoi
parenti.
Le
boutique erano eleganti, coi prezzi in lire; i cappotti di cachemire con
cartellini che indicavano: ottocentomila lire, un milione e centonove, che se
scrivevano centodieci pareva brutto.
Un
giorno di febbraio, anonimo e freddo come il parroco della chiesa, la vidi:
cappottino grigio e colletto di velluto blu, capelli raccolti a coda di cavallo
e sguardo ostile mentre salutava padre e portiere, un cenno al servo e un «Buongiorno
padre»: Sofia Bernari. Stava in seconda C, rispose al mio sguardo con
un’occhiata che si dà alle nuvole davanti al sole, e camminava talmente svelta
che sembrava sfuggire anche a se stessa. Entrai a scuola che lei già era in
classe, che la vidi mentre si sedeva e non mi vide mentre la vedevo. Proseguii
al primo piano, il mio, quello di terza C.
Al
campanello da quel giorno trovavo mille scuse per correre fuori, nonna malata,
mammà mi vuole per il dentista, torna mia sorella dal Belgio, che non avevo una
sorella e non sapevo neanche bene dove fosse il Belgio, tutto per trovarmi
fuori prima che lei uscisse, ma lei era sempre già fuori e correva come Sara
Simeoni dopo aver vinto la medaglia d’oro mentre correva allo stadio di Mosca
con la bandiera sulle spalle, e lei già fuori, maledizione, che faceva
dondolare quella coda di capelli.
Una
volta ci riuscii, saltai giù dalle scale e aspettai.
Lei
finalmente mi guardò, dritto negli occhi. I suoi erano blu, i miei colore di un
cane.
«E
leva quell’ombrello, fai cadere la gente»!
Neanche
mi ero accorto di aver messo l’ombrello di traverso: un po’ livorosa ma mi
aveva parlato, si era accorta che c’ero, esistevo. La rincorsi, avrei trovato
una scusa, magari per chiederle scusa. Quella volta non tornava a casa a piedi,
l’automobile del padre aspettava fuori, il padre uscì e con un cenno le disse:
«Sofia muoviti, dopo il dentista andiamo a pranzo in centro».
Stavo
correndo come un cavallo scosso, sbandato e incosciente, frenai prima di
sbattere in quell’enorme Lancia blu. Non dovevo più guardarla, non ne potevo
avere motivo, né speranza, nessuna pulsione, ma a sedici anni si hanno tutte
queste cose e non lo dici a nessuno perché delle passioni un ragazzo si
vergogna, un adolescente è un maschio piccolo con tutti i difetti e nessuna
saggezza, si sbaglia senza essere professionisti dell'errore.
Marzo
agita le foglie, accarezza le gambe dei ragazzi, le fa agili, fa esplodere
fiori e ormoni, rende frizzante il respiro, correre è un imperativo e lo zaino
un orpello leggero anche con il vocabolario Gabrielli che pesa due chili, io
correvo ogni giorno solo per vederla camminare, una soldata col passo
imperiale, non guardava nessuno e sembrava riuscire anche ad allontanare gli
sguardi degli altri ragazzi. Un giorno Sambuco, il mio compagno di banco si
accorse, al mio guardare, che la guardavo: «Perdi tempo, quella neanche
esiste».
Potevo
dissimulare, raccontare che “no, figurati, non mi interessa…”, mi scappò: «Neanche
so chi è…».
«Non
lo sai? Lo sanno tutti che le stai sempre appiccicato con gli occhi…».
“Appiccicato”.
Fallo vergognare un sedicenne: restai incerto se piangere o dargli un pugno,
oppure…non c’erano altre opzioni, cioè si, lo lasciai a sorridere sul muretto.
Prima
che marzo diventasse aprile, un mattino spensi l’ennesimo incubo, quel sognarmi
ogni notte incatenato alla ringhiera della scuola e nel pomeriggio, lucido di
pioggia, andai lucido di intenzioni fuori casa sua.
M’avesse
sparato sarebbe stato meno feroce: «La pianti di starmi intorno come un
pidocchio»? Arrivò il millennio, la vita buona, il fascino discreto di una vita
borghese, e internet, e facebook e “Sono Sofia Bernari, ti ricordi di me?”.
Trent’anni
e mille vite fa? Si mi ricordavo, anche la vergogna di quel pomeriggio divenuta
ricordo sacro, cliccai su “Conferma”, corsi sulla pagina come correvo fuori
scuola, le foto: voglio vederla. Una signora discreta, con occhi da massaia e
capelli il sabato dopo tre ore di fila dal parrucchiere e gli occhi stanchi
come una Luis Vuitton usata al mercatino dei Parioli. Due tre figli e un marito
con la pancia abbronzata su una barca a Ventotene che mostra una spigola
pescata in qualche pescheria.
«Si,
mi ricordo, ero il pidocchio, quello che…»
Mi
ricollegai alla pagina, c’era scritto “Aggiungi agli amici”.
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