Negli ultimi tempi le reti televisive nazionali stanno trasmettendo uno spot. Uno di quelli ben fatti. Ci sono personaggi come Alessandro Gassman, Alex Del Piero, Vittoria Mezzogiorno che invitano a riappropriarsi del proprio tempo, a partire senza una meta, a raccontare favole ai propri figli. Perché la vita è più importante della televisione. Si hanno pochi secondi per restare stupiti davanti alla tv che rema contro se stessa. Poi si svela l’arcano. Nel gergo che si usa quando non si vuole fare pubblicità occulta (e gratuita) a qualcosa, si tratta di una notissima emittente satellitare che invita ad abbonarsi per usufruire di un diabolico marchingegno, che poi altro non è che un videoregistratore. Il messaggio è chiaro: non essere schiavo dei palinsesti stabiliti dagli altri. Esci, parti, prendi impegni, tanto il tuo programma, reality, telefilm preferito puoi registrartelo nella memoria del dispositivo e rivedertelo quando ne hai voglia. E non ci sarebbe niente di male se non si assistesse sempre più spesso a un fenomeno che potremmo chiamare diaspora dei piccoli schermi. Mentre la mamma in cucina si spara le ultime due serie di “Casalinghe disperate”, i ragazzi, ognuno davanti al proprio portatile, si stampano nelle retine intere maratone di “NCIS” o “Criminal minds” e papà è libero di vedersi la finale di Champions League sul plasma del salone, ovviamente in rigorosa diretta. Non vuole essere una polemica contro il calcio. Perché anche la partita più bella perde sapore se non la si segue mentre accade e se il proprio urlo di gioia per il goal decisivo non si fonde con quello dell’intero vicinato. Si chiama condivisione. Quella che hanno vissuto le generazioni nate dal 1960 in poi. Chi non ricorda l’appuntamento imperdibile con “Happy days” alle 19:20 alla fine degli anni ’70? Mentre il sapiente prodotto statunitense inculcava il rimpianto per un’America al sapore di milk shake mai veramente esistita, si pregustava il momento in cui, il giorno dopo, si sarebbe commentata la puntata insieme ai propri compagni di classe. Era un modo per sentirsi parte di un tutto. Omologati, forse. Ma la differenza tra seguire una trasmissione insieme a tutta Italia oppure vedersela con comodo secondo i propri tempi e le proprie esigenze è la stessa che c’è tra accorgersi che la radio sta trasmettendo la nostra canzone preferita, oppure spararsela in solitaria nel lettore mp3. E’ sempre la stessa canzone, ma accorgersi che nel traffico il nostro vicino di coda la sta ascoltando e batte il tempo proprio come noi, le dà un sapore diverso. Migliore. Se c’è un pregio da riconoscere alla televisione, è quello di averci riuniti davanti a uno schermo. Intere famiglie, genitori e figli, intenti a seguire la stessa storia, lo stesso dibattito. Magari ne scapitava il dialogo. Ma il diabolico marchingegno che lo spot ci propone è solo un altro passo verso un futuro alla Blade Runner: ognuno col proprio palinsesto e nessuno con cui poterne parlare.
Laura Costantini
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