Ne usiamo
tante, tutti i giorni. E crediamo di saperle dosare, dando loro giusto significato e peso. Ci sbagliamo. E
alle parole manchiamo di rispetto. Tutti. Ma se il peccato è
grave in chi comunica per le normali esigenze quotidiane, diventa tragico in
chi con la comunicazione lavora. Facciamo esempi concreti. La cronaca
giornalmente ci rende conto di persone di sesso femminile assassinate nei modi
più
brutali da persone di sesso maschile. Spesso i carnefici avevano rapporti di
parentela o sentimentali con le vittime. E non mancano mai le formulette delitto passionale o, peggio, raptus della gelosia. Passione deriva
dal greco pathos, parola che indica
un sentimento forte al limite della sofferenza. Personale, però,
non inflitta ad altri. Raptus, invece, rimanda a un moto irrazionale e
momentaneo che mal si concilia con un coltello messo in tasca in previsione
dell'incontro, una bottiglia di acido pronta in vista dell'appuntamento, una
tanica di benzina approntata il giorno prima per mettere al rogo la strega rea di non essersi sottomessa.
Non finisce qui. Ci sono parole apparentemente innocue nel contesto di una
frase. Rumeno rapina anziana, maghrebino tenta di violentare studentessa,
moldava partorisce in bagno e getta neonato nella spazzatura, ghanese prende a
picconate passante. Sono notizie reali, titoli, fatti. Eppure, lo tocchiamo con
mano tutti i giorni, identificare una persona in base alla sua etnia non è
azione priva di conseguenze. Lo si fa scientemente, cavalcando un'onda. Perché
quegli aggettivi sostantivizzati, rumeno, maghrebino, moldava, ghanese, rendono
esplicito il messaggio. E il giudizio. Altrimenti ci capiterebbe di leggere:
italiano rapina una banca. Stona? Certo che sì.
Perché
il termine italiano non caratterizza
il rapinatore, lo colloca in un contesto neutro. In Italia, per lo più,
siamo italiani quindi quel titolo non ci aiuta a capire, non descrive, non
indirizza il nostro pensiero. Vale quanto scrivere sconosciuto rapina una
banca. Risponderemmo: e allora? E allora vogliamo, chi più
chi meno, essere aiutati, sostenuti, indirizzati. E scaricati dalla
responsabilità. Se la rapina la commette un
rumeno, la cosa ci tranquillizza da una parte, noi italiani brave persone, e ci
fa infuriare dall'altra, tutti da noi i delinquenti. Le parole hanno un peso.
Un peso grande, accresciuto da coloro che su quelle parole cavalcano per
arrivare a un risultato, per sostenere una tesi precostituita, per convincere
noi fruitori della comunicazione mediatica. Un raptus non è
colpa di nessuno, quindi il problema della violenza di genere riguarda quella
vittima e quel carnefice. Un clandestino africano che dà
fuori di matto è colpa di chi i clandestini
non li rispedisce al mittente. E tutti coloro che ritengono di essere vittime
di un errore giudiziario possono dire di essere come Enzo Tortora. Almeno fino
a quando non interviene Silvia, la figlia di Enzo, per ricordare che suo padre
fu sì,
vittima della giustizia, ma si difese nel
processo. Non dal processo. Due
paroline innocue per una differenza enorme.
Laura Costantini
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