Indossa una
giacca corallo e pantaloni bianchi cui abbina il vezzo di un foulard blu e di
un panama chiaro. Ha novant'anni e non ama le celebrazioni. Ma a questa
promessa di cavalcare il secolo completo si sottomette volentieri. Si chiama
Giorgio Albertazzi e gli basta parlare perché
qualsiasi luogo si faccia palcoscenico e qualsiasi discorso rappresentazione.
Declama Dante a memoria e lo riempie di un pathos senza pudori che manca al pur
grande Benigni. Declama Leopardi e ci senti dentro il dolore senza fine di
un'esistenza dove la rabbia per la deformità
fisica si è fatta lente di ingrandimento
per osservare la realtà con
disincanto. Declama D'Annunzio e ti arriva chiaro il culto per l'eroe, per il
seduttore, per il poeta soldato, per la guerra, l'azione, l'illusione di una
potenza italica. Albertazzi ha pagato a caro prezzo la scelta giovanile di
aderire alla Repubblica di Salò. Uno
stigma, quello di repubblichino e di fucilatore di partigiani, che lo
accompagna ancora oggi. Non ne parla volentieri, ma il peso glielo leggi negli
occhi quando accenna alle difficoltà
nei rapporti con il cinema, soprattutto: personaggio ingombrante, anche
motivazioni ideologiche. Non approfondisce, lascia in sospeso. Nel tempo si è
difeso, ha tentato di spiegare quel ragazzo poco più
che ventenne che assisté alla
fucilazione pur senza prendervi parte. Poi ha smesso. In un gioco di quelli che
si facevano nella sua gioventù di liceale
veniva chiesto di scegliere se stare dalla parte di Ulisse o da quella di
Achille. E lui, ancora oggi, pur ammirando la profonda umanità
di Ulisse, simbolo della lotta dell'uomo contro i propri limiti, sposa l'ira
funesta del pelide Achille. "Achille è
smagliante", spiega, "è
un eroe invincibile, è umorale.
Si infuria, si intristisce, si chiude nel proprio accampamento. È
un individualista." È, anche,
fiamma che brucia rapida e senza rimpianti. Un semidio che svetta sull'uomo
Ulisse. Albertazzi parteggia per l'eterna giovinezza di chi ha accettato una
vita breve ed eroica. Eppure ha novant'anni e mai come oggi riesce, per sua
stessa divertita ammissione, a capire quello che è
il suo cavallo di battaglia: l'imperatore Adriano. Aveva 66 anni quando portò
in scena "Le memorie di Adriano" per la prima volta. "E quando
recitavo dovevo fingere di acciacchi della vecchiaia, i dolori alle giunture,
l'accettazione della morte. Oggi no, oggi queste cose mi appartengono".
Non è
più
agile come l'attore shakespeariano che tirava di scherma e di boxe per essere
più
credibile. Non con il fisico. Ma la mente è
agilissima e protesa in un balzo verso i progetti futuri. Dopo mille repliche
il suo Adriano è più
attuale che mai e Albertazzi, insieme al suo amico e regista Scaparro, vorrebbe
farne l'ideale ed emblematico trait d'union tra il semestre di presidenza del
consiglio europea della Grecia, da gennaio a giugno del prossimo anno, e quello
italiano, da luglio a fine 2014. Perché,
dice, Adriano era nato in Spagna, governava da Roma, aveva studiato ad Atene e
continua a ricordarci, oggi, che la forza dell'occidente è
la cultura. Non le banche.
Laura
Costantini
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