Mi manca il respiro. Questo bagagliaio puzza in
maniera terribile di rancido e muffa. Sto per vomitare e se non voglio morire
soffocata devo concentrarmi per resistere: il bavaglio sulla bocca è troppo
stretto. Mi sforzo di riuscire a mantenere la calma, ma la paura mi entra negli
occhi e brucia. Quel pazzo mi ha colpita forte, sull’occhio destro che ora continua
ad alternare lampi improvvisi di luce al buio più totale. Mi sembra sia
trascorso un secolo da quando mi ha rinchiusa qui dentro.
La macchina rallenta e si ferma, senza scatti
bruschi. Capisco che sta scendendo dall’auto. Che farà? Non voglio pensare a cosa mi farà. Inizio a tremare e lo
sforzo di bloccare gli spasmi mi causa un dolore invadente, che mi scoppia in tutto
il corpo. E adesso? Niente, non accade niente. Ascolto le voci fuori. Sicuramente
si è fermato per fare benzina, poi andrà a prendere qualcosa al bar. Lo conosco
bene. Un bel bicchiere di aranciata. Ho sempre sperato che una volta smesso di
bere roba seria sarebbe riuscito a ritrovare la calma, almeno la serenità invece…
ma sentilo com’è cordiale mentre chiede anche di farsi pulire il parabrezza, ad
alta voce così che possa udirla. Bastardo.
Penso all’aranciata e mi rendo conto di avere
sete. La lingua si è gonfiata. L’arsura parte dal bisogno profondo di placare
questo calore che mi sta soffocando, ma non voglio farmi catturare dal terrore,
altrimenti addio concentrazione. Vorrei capire solo se esiste una minima
possibilità di uscire da qui. Non riesco a muovere un solo muscolo, stretta nello
scotch da pacchi, imbalsamata, mentre l’interno del bagagliaio è rivestito da uno
spesso strato di gommapiuma, almeno così mi pare mentre sbircio con l’unico occhio
sano che mi rimane. Quindi, anche se riuscissi ad agitarmi, nessuno sentirebbe.
In ogni caso, non ce la faccio. Ho dolori ovunque. Ci è andato giù pesante. Per
cosa poi? Per aver sottolineato una frase, un’unica frase, sul suo fumetto
preferito, con la matita. Un segno di matita.
Pazzo furioso che non sei altro! Il segno di
matita si cancella, mentre quel che stai facendo a me, no! Con determinazione ricaccio
indietro le lacrime che, in questo momento di angoscia, non servono proprio a
nulla.
È tornato, come fa sempre. Sbatte lo sportello
con forza, riparte, stavolta senza alcun garbo, e accende lo stereo. Cerco di
godere di questo poco tempo in più. Per fare cosa, poi? Vivere? Morire? Stavolta
ha proprio esagerato. Le note de Il trillo
del diavolo mi avvolgono, come un ultimo regalo infiocchettato dalla paura.
Mi chiedo dove mi stia portando e cosa mi farà, ancora. Non credo di farcela. Non
penso di poter resistere ad altro dolore né ad altre torture. Non mi sforzo
nemmeno più di frenare i movimenti inconsulti del mio corpo. Ho solo paura e non
posso fare nulla.
Forse però, mi blocco un attimo afferrando con
tenacia la piccola idea prima che fugga da qui, se solo mi togliesse questo
bavaglio, potrei provare a parlargli come ho sempre fatto. Come se niente
fosse. Sì, forse potrei provare a fare questo. Se solo mi liberasse la bocca.
Non appena spalanca il bagagliaio istantaneamente
chiudo l’occhio, quello sano perché il destro è talmente gonfio che oramai non posso
più aprirlo. Quando riesco a guardare la luce dapprima mi acceca e poi
lentamente la sagoma scura inizia a prendere forma e colore. Solita giacca nera
sulla sempre solita camicia rossa. Intuisco i soliti jeans. Cosa pensavo, che
si fosse cambiato d’abito al bar? Era così prima e lo è anche adesso. Solo che
adesso ha in mano un coltello, di quelli lunghi e affilati che lascio sempre sul
ripiano della cucina. Il mio ripiano, la mia cucina. Vuole uccidermi con il mio
coltello e, bastardo fino in fondo, non mi toglie il bavaglio. Sa che proverei
a parlare.
Alza il braccio e affonda.
Mi sveglio mentre mi agito come un’ossessa.
Un incubo, porca miseria. Il peggiore di tutti.
Sudo copiosamente e il cuore mi batte all’impazzata. Allungo una mano, mi giro e
mi accorgo di essere sola. Dall’altra parte del letto non c’è nessuno. “Sarà
andato in bagno” penso, mentre uno strano movimento cattura il mio sguardo.
Lui è lì. In piedi, poggiato allo stipite della
porta e sembra fissarmi.
I miei occhi si abituano subito all’oscurità.
Solita giacca nera sulla sempre solita camicia rossa. Jeans e Clarks, con le
sempre più improbabili stringhe rosse. Ha uno strano sguardo mentre mi dice: «Dopo aver scartato tutte le ipotesi
possibili, quello che resta è il mio mestiere: l’incubo», poi si getta su
di me con il coltello.
Alza il braccio e affonda.
Stavolta grido. Forte. Talmente forte da
riuscire a svegliare anche la signora di sotto, che inizia a battere
all’impazzata sul suo soffitto con qualcosa. Mi metto seduta e osservo la
stanza. Nessuno. Sono salva finalmente. Rido.
So che usa la scopa perché me l’ha detto il
figlio, l’altro giorno in ascensore. Un gran bel ragazzo. Moro, alto. Giacca
nera, camicia rossa, jeans…
Giuda
ballerino!
Stai a vedere che sono proprio io il mio incubo
peggiore!
Nessun commento:
Posta un commento
I commenti non espressamente firmati e/o sgradevoli verranno cancellati dalle proprietarie di questo blog.