TORRESPACCATA
Lo
so che l’ho promesso, ma stamattina non posso evitarmelo. C’è il compito di
latino alla prima ora e se lo salto la prof non mi grazia. Ergo attraverso il
prato. E l’accampamento degli zingari. Fortuna che mia madre non mi può vedere
dalla finestra, sta già rifacendo i letti. E’ da quando ci siamo trasferiti
qui, a Torrespaccata, che mi ammorba con la storia degli zingari che rapiscono
i bambini. Hai voglia a dirle che ormai ho quindici anni e non sono una
sprovveduta. Lei pretenderebbe che mi alzassi mezzora prima, per raggiungere
una fermata “sicura”.
Esco
dal portone come un proiettile, la tolfa che mi sbatacchia sul fianco, il
maledetto vocabolario che pesa come un mattone e rischio di farmela in
scivolata fino al cancello. Pure stanotte ha gelato. Non succedeva quando stavamo
alla Pineta Sacchetti. Qui in periferia ci sono troppi spazi aperti, troppi
prati e un freddo da farsela addosso. Va beh, che vuoi pretendere. Questa fino
a dieci anni fa era aperta campagna, poi sono arrivati i palazzinari a tirare
su ‘sti dormitori. Tante case tutte uguali, un garage per chiesa e se vuoi un
paio di jeans l’unica possibilità è il mercatino.
Alzo
lo sguardo verso viale dei Romanisti. Alla fermata del 156 non c’è neanche uno
straccio di studente, possibile che sono l’unica ritardataria? Ci manca solo
che quella laggiù sia la signora Costantino. Se dice a mia madre che ho
attraversato il prato al muretto non ci scendo più per un mese e Claudio me lo
frega quella stronza di Lucilla.
Ci
siamo, l’erba scrocchia sotto la para delle polacchette. Il freddo mi trapassa
i piedi e il fiato si condensa. Potrei anche fumare, tanto chi si accorgerebbe
della differenza. Cerco di affrettare il passo slittando sul sentiero di terra
ghiacciata che taglia proprio in mezzo all’accampamento. Le roulotte in
circolo, come i carri di un film western. I resti di un paio di falò che ancora
fumigano. Non c’è un’anima in giro e vorrei dirlo a mia madre: con questo
freddo e a quest’ora non escono neanche gli zingari per andare a caccia di
bambini.
“Ciao
bella… fa freddo eh?”
Sbuca
da dietro un vecchio furgone Volkswagen e finisce di gelarmi il sangue nelle
vene. E’ più basso di me, indossa una camicia e un paio di pantaloni di panno.
E’ sporco ma ha i capelli pettinati all’indietro e una sigaretta all’angolo
della bocca. Potrebbe avere dai dodici ai venticinque anni. Io mi blocco sul
posto. Il gelo che sale dalle suole, la tentazione di voltarmi verso le
finestre di casa per vedere se mia madre, tante volte…
“Come
ti chiami?”, insiste. Decido di rispondere, così capisce che non ho paura.
“Annalucia.”
“Ianu”,
si presenta e per fortuna non mi tende la mano. “Vai a scuola?”
Ci
mancava lo zingaro in vena di chiacchiere.
“Si,
e sono in ritardo. Che c’è problema se passo in mezzo?”
Ridicola,
sono già in mezzo.
“Qui
è sicuro, e poi ci sono io. Dai, t’accompagno.”
Schiaccia
la sigaretta sotto al tacco e infila le mani in tasca pronto a mettersi al mio
fianco. Aspetta solo un cenno. Stavolta mi giro verso le mie finestre. Se mia
madre mi vede a passeggio con uno zingaro, da domani m’accompagna a scuola… meglio
essere rapita.
“Niente
paura, noi non portiamo via i bambini.”
Accrocco
una risata di superiorità.
“Io
non vedo bambini in giro.”
“Neanch’io”,
risponde e non so perché mi viene da stringermi nell’eskimo.
L’eskimo
non lo porto più ma la fermata dell’autobus c’è ancora. Scendo e mi guardo
intorno. Trent’anni dopo i palazzi sono tutti lì. Qualcuno ha la cortina
scolorita, tutti hanno le finestre dei primi piani sigillate da inferriate. Sui
balconi non più gerani ma un fiorire di parabole e condizionatori. E le
veneziane che riempivano di crepitii la mia estate… sono sparite. Adesso le
tende sono di tela a strisce. Le vedo arrotolate in alto. E’ inverno, ma l’erba
non scricchiola più sotto i piedi mentre attraverso il parco. Panchine e giochi
per i bambini occupano lo spazio che un tempo era dei rom. Non so di preciso
quando sia successo, ma li hanno cacciati via, definitivamente. E ora
cacceranno via anche i banchi del mercatino, se il cartello sul cantiere non
mente. Stanno costruendo un mercato coperto che ruberà un’altra fetta di prato.
Non bastava la palazzina pretenziosa che impalla lo scorrere del traffico su viale
dei Romanisti, l’unico spettacolo rimasto per tanti occhi annacquati dietro le
finestre. E’ diventato un quartiere di vecchi questo. Sono bastati trent’anni,
una generazione, perché i figli degli anni Sessanta, quelli dei doppi turni e
delle scuole prefabbricate, sciamassero via lasciando qui i genitori ormai
trasformati in baby sitter per nipotini viziati.
La
strada che ricordavo larghissima è diventata un budello. Lo spartitraffico
serve a dividere due corsie di auto parcheggiate talmente fitte che quasi
scavalco un cofano per passare. E’ qui che abitavo. La pulsantiera dei citofoni
è la stessa, hanno sostituito i tasti però. Di metallo, ché quelli di plastica
erano una tentazione troppo forte per piccoli vandali dall’accendino facile.
Sono i cognomi a essere diversi. Di più, alieni.
Alla
scala B, interno 13 abitavano i Chiolo, con Antonietta mi passavo un anno.
Quanti pomeriggi trascorsi a sfuggire i suoi tentativi di entrare in comitiva.
Adesso in quelle tre camere all’ultimo piano abita la famiglia Aftei. E poi Ciubutaru,
Hung – Lee, Bogdwiecz. Noi ci siamo ancora, ma siamo solo un nome su un vecchio
citofono.
Infilo
la mano nella tasca del cappotto a stringere il vecchio moschettone
portachiavi. Pesa. Un peso specifico che cresce insieme alla consapevolezza che
dovrei salire in casa. Dovrei. Ma non ce la faccio. Non oggi.
Nel
crepuscolo troppo precoce dell’inverno sto per decidere che ho fatto un viaggio
a vuoto. A farmi rompere gli indugi è una figura di anziana in avvicinamento.
Magari mi sbaglio, ma sembra quella pettegola della Costantino. Fu lei a dire a
mia madre che Michele veniva a prendermi sotto casa tutti i pomeriggi di
un’estate che fu la più bella della mia vita. Non ho voglia di incontrarla, di
spiegarle, di raccontare. Mi volto e ritorno sui miei passi, verso ciò che
resta del prato, verso il ricordo lontano del campo rom coi suoi colori, con i
suoi odori, con la mano sudicia di Ianu poggiata sulla spalla. Cammino a testa
bassa inseguendo i miei piedi sul sentiero.
La
voce, giovane, mi fa trasalire: “Aho, ce l’ho co’ te!”
Avrà
quindici anni, le gambe magre inguainate in un paio di jeans stretti e un
giubbotto bianco uguale a quello degli altri tre. Se ne stanno seduti sui
motorini a formare un check-point. “Hai visto che ore so’?”
Guardare
l’orologio è istintivo e dai quattro bulletti parte la risata.
“Quanno
fa’ buio er prato diventa nostro. Se voi passa’, fanno dieci euro.”
Li
guardo in faccia, uno per uno. Non sono intimiditi dal mio essere adulta, anzi.
“Non
ho tempo da perdere”, rispondo stringendo la borsa contro il fianco.
“Allora
paga sennò da qua non se passa.”
Sono
puliti, pettinati, a loro modo eleganti. Sono figli e nipoti di gente per bene.
Sono il futuro di questo quartiere, di questa città. Potrei sfidarli ma sarebbe
come spingerli verso una strada che, forse, non è ancora la loro.
“Se
il prato è vostro, spero che ve lo godiate come me lo sono goduto io alla
vostra età.”
Giro
le spalle ai loro commenti inconcludenti e sboccati - ma lasciala perde, qua’
stronza - e torno su via Cornelio Sisenna.
Sarà
un lungo giro fino alla fermata dell’autobus. Lo stesso lungo giro che mia
madre voleva facessi per evitare le insidie del prato. Non riesco a trattenere
un sorriso. Lei non lo sa, ma è la prima volta che le do ascolto.
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