sabato 26 maggio 2018

FalconeCostantini: Torrespaccata





TORRESPACCATA

Lo so che l’ho promesso, ma stamattina non posso evitarmelo. C’è il compito di latino alla prima ora e se lo salto la prof non mi grazia. Ergo attraverso il prato. E l’accampamento degli zingari. Fortuna che mia madre non mi può vedere dalla finestra, sta già rifacendo i letti. E’ da quando ci siamo trasferiti qui, a Torrespaccata, che mi ammorba con la storia degli zingari che rapiscono i bambini. Hai voglia a dirle che ormai ho quindici anni e non sono una sprovveduta. Lei pretenderebbe che mi alzassi mezzora prima, per raggiungere una fermata “sicura”.
Esco dal portone come un proiettile, la tolfa che mi sbatacchia sul fianco, il maledetto vocabolario che pesa come un mattone e rischio di farmela in scivolata fino al cancello. Pure stanotte ha gelato. Non succedeva quando stavamo alla Pineta Sacchetti. Qui in periferia ci sono troppi spazi aperti, troppi prati e un freddo da farsela addosso. Va beh, che vuoi pretendere. Questa fino a dieci anni fa era aperta campagna, poi sono arrivati i palazzinari a tirare su ‘sti dormitori. Tante case tutte uguali, un garage per chiesa e se vuoi un paio di jeans l’unica possibilità è il mercatino.
Alzo lo sguardo verso viale dei Romanisti. Alla fermata del 156 non c’è neanche uno straccio di studente, possibile che sono l’unica ritardataria? Ci manca solo che quella laggiù sia la signora Costantino. Se dice a mia madre che ho attraversato il prato al muretto non ci scendo più per un mese e Claudio me lo frega quella stronza di Lucilla.
Ci siamo, l’erba scrocchia sotto la para delle polacchette. Il freddo mi trapassa i piedi e il fiato si condensa. Potrei anche fumare, tanto chi si accorgerebbe della differenza. Cerco di affrettare il passo slittando sul sentiero di terra ghiacciata che taglia proprio in mezzo all’accampamento. Le roulotte in circolo, come i carri di un film western. I resti di un paio di falò che ancora fumigano. Non c’è un’anima in giro e vorrei dirlo a mia madre: con questo freddo e a quest’ora non escono neanche gli zingari per andare a caccia di bambini.
“Ciao bella… fa freddo eh?”
Sbuca da dietro un vecchio furgone Volkswagen e finisce di gelarmi il sangue nelle vene. E’ più basso di me, indossa una camicia e un paio di pantaloni di panno. E’ sporco ma ha i capelli pettinati all’indietro e una sigaretta all’angolo della bocca. Potrebbe avere dai dodici ai venticinque anni. Io mi blocco sul posto. Il gelo che sale dalle suole, la tentazione di voltarmi verso le finestre di casa per vedere se mia madre, tante volte…
“Come ti chiami?”, insiste. Decido di rispondere, così capisce che non ho paura.
“Annalucia.”
“Ianu”, si presenta e per fortuna non mi tende la mano. “Vai a scuola?”
Ci mancava lo zingaro in vena di chiacchiere.
“Si, e sono in ritardo. Che c’è problema se passo in mezzo?”
Ridicola, sono già in mezzo.
“Qui è sicuro, e poi ci sono io. Dai, t’accompagno.”
Schiaccia la sigaretta sotto al tacco e infila le mani in tasca pronto a mettersi al mio fianco. Aspetta solo un cenno. Stavolta mi giro verso le mie finestre. Se mia madre mi vede a passeggio con uno zingaro, da domani m’accompagna a scuola… meglio essere rapita.
“Niente paura, noi non portiamo via i bambini.”
Accrocco una risata di superiorità.
“Io non vedo bambini in giro.”
“Neanch’io”, risponde e non so perché mi viene da stringermi nell’eskimo.

L’eskimo non lo porto più ma la fermata dell’autobus c’è ancora. Scendo e mi guardo intorno. Trent’anni dopo i palazzi sono tutti lì. Qualcuno ha la cortina scolorita, tutti hanno le finestre dei primi piani sigillate da inferriate. Sui balconi non più gerani ma un fiorire di parabole e condizionatori. E le veneziane che riempivano di crepitii la mia estate… sono sparite. Adesso le tende sono di tela a strisce. Le vedo arrotolate in alto. E’ inverno, ma l’erba non scricchiola più sotto i piedi mentre attraverso il parco. Panchine e giochi per i bambini occupano lo spazio che un tempo era dei rom. Non so di preciso quando sia successo, ma li hanno cacciati via, definitivamente. E ora cacceranno via anche i banchi del mercatino, se il cartello sul cantiere non mente. Stanno costruendo un mercato coperto che ruberà un’altra fetta di prato. Non bastava la palazzina pretenziosa che impalla lo scorrere del traffico su viale dei Romanisti, l’unico spettacolo rimasto per tanti occhi annacquati dietro le finestre. E’ diventato un quartiere di vecchi questo. Sono bastati trent’anni, una generazione, perché i figli degli anni Sessanta, quelli dei doppi turni e delle scuole prefabbricate, sciamassero via lasciando qui i genitori ormai trasformati in baby sitter per nipotini viziati.
La strada che ricordavo larghissima è diventata un budello. Lo spartitraffico serve a dividere due corsie di auto parcheggiate talmente fitte che quasi scavalco un cofano per passare. E’ qui che abitavo. La pulsantiera dei citofoni è la stessa, hanno sostituito i tasti però. Di metallo, ché quelli di plastica erano una tentazione troppo forte per piccoli vandali dall’accendino facile. Sono i cognomi a essere diversi. Di più, alieni.
Alla scala B, interno 13 abitavano i Chiolo, con Antonietta mi passavo un anno. Quanti pomeriggi trascorsi a sfuggire i suoi tentativi di entrare in comitiva. Adesso in quelle tre camere all’ultimo piano abita la famiglia Aftei. E poi Ciubutaru, Hung – Lee, Bogdwiecz. Noi ci siamo ancora, ma siamo solo un nome su un vecchio citofono.
Infilo la mano nella tasca del cappotto a stringere il vecchio moschettone portachiavi. Pesa. Un peso specifico che cresce insieme alla consapevolezza che dovrei salire in casa. Dovrei. Ma non ce la faccio. Non oggi.
Nel crepuscolo troppo precoce dell’inverno sto per decidere che ho fatto un viaggio a vuoto. A farmi rompere gli indugi è una figura di anziana in avvicinamento. Magari mi sbaglio, ma sembra quella pettegola della Costantino. Fu lei a dire a mia madre che Michele veniva a prendermi sotto casa tutti i pomeriggi di un’estate che fu la più bella della mia vita. Non ho voglia di incontrarla, di spiegarle, di raccontare. Mi volto e ritorno sui miei passi, verso ciò che resta del prato, verso il ricordo lontano del campo rom coi suoi colori, con i suoi odori, con la mano sudicia di Ianu poggiata sulla spalla. Cammino a testa bassa inseguendo i miei piedi sul sentiero.
La voce, giovane, mi fa trasalire: “Aho, ce l’ho co’ te!”
Avrà quindici anni, le gambe magre inguainate in un paio di jeans stretti e un giubbotto bianco uguale a quello degli altri tre. Se ne stanno seduti sui motorini a formare un check-point. “Hai visto che ore so’?”
Guardare l’orologio è istintivo e dai quattro bulletti parte la risata.
“Quanno fa’ buio er prato diventa nostro. Se voi passa’, fanno dieci euro.”
Li guardo in faccia, uno per uno. Non sono intimiditi dal mio essere adulta, anzi.
“Non ho tempo da perdere”, rispondo stringendo la borsa contro il fianco.
“Allora paga sennò da qua non se passa.”
Sono puliti, pettinati, a loro modo eleganti. Sono figli e nipoti di gente per bene. Sono il futuro di questo quartiere, di questa città. Potrei sfidarli ma sarebbe come spingerli verso una strada che, forse, non è ancora la loro.
“Se il prato è vostro, spero che ve lo godiate come me lo sono goduto io alla vostra età.”
Giro le spalle ai loro commenti inconcludenti e sboccati - ma lasciala perde, qua’ stronza - e torno su via Cornelio Sisenna.
Sarà un lungo giro fino alla fermata dell’autobus. Lo stesso lungo giro che mia madre voleva facessi per evitare le insidie del prato. Non riesco a trattenere un sorriso. Lei non lo sa, ma è la prima volta che le do ascolto.



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